21 aprile 2007

Boktai. Quando il virtuale richiede il reale.

Bellissimi tentativi di sconfinamenti videoludici.
(di Luigi Marrone)

Farlo accadere.
Indurre a credere nell'illusione che stia avvenendo nel reale, che i due mondi siano causalmente connessi, reciprocamente integrati.
Che sia conscio o meno, che sia il residuato di fascinazioni ed esaltazioni infantili, in fondo é questo il desiderio celato dietro la passione del vero game designer: dare l'illusione di una carne digitale in grado di farsi largo nella realtà, di sconfinare sul piano reale e viceversa. Hideo Kojima rappresenta un esempio fulgente: amante della con-fusione fra piano virtuale in-game e reale off-game, vale a dire ciò che viene fruito attraverso lo schermo con ciò che avviene/accade all'infuori di esso. Psycho Mantis in Metal Gear Solid muove il controller sul pavimento del videogiocatore attraverso poteri ESP, mentre il colonnello Campbell ordina al videogiocatore di spegnere la Playstation, ecc.
Prendiamo la serie di Konami sviluppata su GBA, Boktai. KonamiKojima vuole che i raggi solari reali ricarichino la Gun del Sol, la pistola del protagonista Django in Boktai 2.
Dalle cartucce da inserire nello slot del Game Boy Advance fa capolino un sensore di rilevamento solare, in grado di ricare armi, forgiarne di nuove, aumentare l'intensità del sole filtrato nei dungeon e tante altre simili applicazioni. Si tratta semplicemente di un'idea, di un lascito creativo implementato nel game design, ma che analizzato in dettaglio è filosoficamente sottile più di quanto si possa immaginare.
Oltre l'ideale intimazione ad uscire da casetta propria per giocare, incrementando le possibilità di socializzazione e di fruizione degli spazi reali, Boktai richiede infatti la realtà affinché la realtà entri nel gioco.
Pensiamo un attimo a Nintendo Wii, please. Interazione motion-sensitive, wii-mote quale interfaccia che approfondisce la mediazione fra player e mondo di gioco: dimenticarsi di avere un controller fra le mani vuol dire necessariamente aumentare l'immersione nell'universo in-game affinché l'esperienza sia sensorialmente totalizzante: fuori uguale dentro, dentro uguale fuori.

Farlo accadere.
Indurre a credere nell'illusione che stia avvenendo nel reale, che i due mondi siano causalmente connessi, reciprocamente integrati.
Ciò che fa pensare è stato il dietro front attuato da Konami con Lunar Knights su Nintendo DS. Vuoi per l'assenza di giornate assolate in varie parti del globo, vuoi soprattutto per la tendenza dei players che per svariati motivi non preferisce giocare sotto il sole, Boktai non ha trovato un buon conforto commerciale. Tralasciando la possibilità di usare una cartuccia di Boktai nello slot GBA su DS (per sfruttare il sensore solare ed implementarlo nel gioco), oggi Lunar Knights supplisce al sole vero.
In quale modo? Niente di più semplice e ovvio: tornando al virtuale. Il sole di Lunar Knights torna infatti ad essere virtuale, una fonte energetica che accondiscende a diverse applicazioni, ma pur sempre ermeticamente virtuale, composta di codice binario, digitale, come il sole che scalda la surrealtà di un qualunque Super Mario, del sole che ammanta l'ambientazione fantasy di Shadow of the Colossus o quella di uno Zelda: un sole che proviene dal virtuale e che resta tale.
Il sole dentro Lunar Knights non è più traslato da una fonte reale metareferenziale: si tratta di luce lunare o solare artificiale che, filtrata da finestre, spiragli o varchi presenti nel gioco diviene fonte preziosa per ricaricare le armi di Lucian e Aaron, i due protagonisti.
Se prima si dovevano cercare, GBA alla mano, porzioni di luce da saccheggiare nel reale (seduti su di una panchina in un parco, sul proprio balcone di casa, a ridosso di una finestra esposta al sole) ora si è tornati a cercare le fonti direttamente nel gioco, diegeticamente. La sfida sta nel cogliere il nuovo messaggio di game design di KonamiKojima, il quale messaggio, mascherato da una necessaria funzionalità videoludica che decreti ora un incremento di vendite, in realtà esaspera e critica la mancata risposta della comunità videoludica al richiamo del vero sole.
Stando alla storia di Lunar Knights, i nemici dell'umanità chiamati Vampiri hanno difatti costruito un cielo artificiale attorno la Terra, comprensivo di un sole e di una luna artificiali. Si tratta essenzialmente di un sole e di una Luna digitali che provengono da una fonte di-gi-ta-le, vale a dire il codice del videogioco stesso.Quasi come se Kojima lasciasse intendere, dopo la mancata/svogliata ricerca del reale da parte dei players, che tutto ciò di cui la comunità videoludica merita/ha bisogno sia proprio questo: di restare confinata nel proprio mondo digitale, nonostante le vengano forniti strumenti, possibilità e interfacce innovative buone a valicare, mimetizzare i mondi in e off game.

Difatti, ciò che più fa riflettere dell'operazione Boktai è lo pseudo fallimento di un tentativo di sconfinamento videoludico, di un esperimento riuscito solo a metà, ma che diviene indice/testimone di quelli che sono gli orientamenti ontologici del videogioco stesso: divertire, intrattenere in un mondo fittizio, che questo simuli strettamente o meno il reale, ma che in fondo resti tale: illusorio, fittizio, puramente digitale.
I videogiochi garantiscono tendenzialmente l'incolumità fisica dei players, permettendo al contempo di incrementare l'esperienza di un vissuto puramente digitale regalando l'illusione di una esperienza reale. Di contro Boktai pretende che il videogiocatore ricerchi la realtà per lasciarsi giocare in pieno, che il videogiocatore senta il sole su di sé, che esca fuori dal proprio spazio domestico alla ricerca di ambienti congeniali al gioco.
A questo punto, visti i risultati, bisogna ancora credere che i videogiocatori, sempre preservando la propria incolumità fisica, vorrebbero vivere l'esperienza sensorialmente totalizzante di James Sunderland in una vera Silent Hill? Oppure guidare il Jehuty di Anubis sospeso fra la vita e la morte come Dingo Egret? Davvero un videogiocatore vorrebbe sensorialmente trovarsi, sul piano digitale, nella Mars City di Doom 3?
La passione, l'eclettismo e lo spirito di sperimentazione di un ricercatore quale Hideo Kojima pretendono la contaminazione dei due piani, reale e virtuale, ad onta di ogni resistente scetticismo della comunità videoludica. Gli sconfinamenti videoludici, oltre a sfociare in film, colonne sonore, action figures, gadgets o poster, invadranno in futuro sempre più il reale come Kojima ha videoludicamente preteso?
Oppure la lezione di Boktai è indicativa su dove il videogioco farebbe meglio a restare ancorato?
Il futuro delle esperienze video-interattive è quello di restare nei limiti delle stesse, quindi?
Comunque stiano le cose, Boktai e Lunar Knights rappresentano due indici di tendenza sui soffermarsi e riflettere.

11 aprile 2007

Virtuale e memoria. I videogiochi sono tempo perso?

Videogiocare come Non-Essere. E' davvero così?
(di Luigi Marrone)

Essere o non Essere sarebbe come dire Essere o Videogiocare?
Un interrogativo sui cui riflettere, non prima però d'aver tentato di trovare una definizione sul videogioco.

Video interazione ludica o videogiocare: pratica di interazione tecno-sensoriale con universi disincarnati (Esperienze Virtuali) capace di sublimare l’inconscio bisogno metafisico di proiettare l’Essere/Avatar/Divinità (qualificato come video-giocatore) all’interno di realtà espanse, tese a permettere esperienze di vita che preservano l’incolumità fisica del soggetto.
Stando a tale definizione viene da chiedersi: I videogiochi sono dunque solo pseudo simulazioni del reale che accondiscendono a varie funzioni psicologiche/sociali (intrattenimento, riflessione, catarsi)?

I videogiochi permettono rappresentazioni di interazioni quasi sempre non possibili sul piano materiale, ma prendono imperfettamente a modello il piano reale per simularne certe regole, stravolgendole.
Domanda: Gli accadimenti che avvengono nei videogiochi, dove accadono realmente?
Risposta: I videogiochi non accadono sul piano fisico/materiale della realtà tangibile.
Essendo composti di carne digitale, di realtà disincarnata (disembodied reality), i Videogiochi accadono nella mente, nel Ghost umano. I Videogames sono Esperienze dello spirito.

Mente/Spirito sono quindi gli spazi da indagare, vale a dire i "luoghi" di accumulazione di tutti i residuati post-esperienziali dell'uomo, quindi, anche delle sessioni di gioco.

Domanda:
Qual'é la valenza di ciò che resta di un videogioco alla fine dell'esperienza?

La memoria umana determinatasi successivamente alla pratica di universi videogiocati é sacrosanta come quella deteminatasi per le esperienze di vita out-game, le quali esperienze vengono comunemente incensate come le uniche a detenere l'ontos necessario a costituire un memoriale d'uomo che si rispetti.
E' sorprendente infatti quanto possa essere diffusa l'opinione che il tempo trascorso a video-giocare equivalga a puro tempo sprecato. Tale generica convizione nasce da riflessioni piuttosto comprensibili, in quanto gli accadimenti che si verificano in un videogioco nel videogioco, manifestandosi sul piano meramente virtuale/digitale/immateriale, dovrebbero non costituire una realtà “fisica”, “concreta” e “reale” appunto.
Le esperienze videoludiche non possiederebbero quindi la legittimità di contribuire a formare la memoria di un uomo.
Detto in altri termini, é comune accezione sostenere che il vivere Esperienze VideoInterattive equivalga a Non-Vivere: i videogiochi annichiliscono il videogiocatore nell’indeterminato, e il tempo trascorso a video-giocare non rende un uomo tale nel senso più puro del termine, bensì una entità inutile, sospesa fra il vivere "passivamente " il mondo fisico e l'annullarsi attivamente all'interno di un Altrove immateriale.
Videogiocare é sinonimo di sparizione in un mondo dove non si Esiste: una prospettiva piuttosto agghiacciante.
Per musica/film/letteratura il discorso é drammaticamente diverso: i Videogiochi ne contemplano svariati aspetti, a volte sincronicamente e aggiungendo di proprio l'interattività, eppur questo non basta a scrollare dall'opinione comune l'idea che Videogiochi siano meno edificanti.
Eppure i video-interattori non hanno difficoltà a riconoscere come le esperienze di gioco che più vengono ricordate, impresse, sedimentate nella propria memoria sono quelle che hanno “più anima” o “più carattere” intesi come risultante di tecnica, fantasia, ideali, volontà e perché no, cuore di un team di lavoro il quale ha riversato nel codice il proprio operato attraverso le risorse tecnologiche disponibili nel tempo.
L’importanza artistica di un videogioco risulta quindi la somma e il prodotto finale di tutto ciò che, a livello di codice, è in grado emozionare, indurre a riflettere e a stimolare un dato videogiocatore.
Il dna genetico/digitale di una video-iterazione si fa dunque specchio della sensibilità artistica, della capacità tecnica e delle visioni dei game designers.
In altri termini, della Essenza artistica di un team di lavoro.
Ma questa Essenza infine, non proviene forse dall’uomo?
E in quale modo questa Essenza coinvolge il discorso sulla memoria?
Globalmente, si dovrebbe ammettere.
Immaginando che la fine di una esperienza videoludica (rimettere il software nella custodia senza riaprirla più) e la fine della vita di un uomo (chiuderlo dopo i dovuti riti in una bara per sempre) siano metafora della medesima azione, credo sia possibile giungere a formulare la seguente conclusione: così come il ricordo che si serba di una persona non corrisponde solo ed esclusivamente al suo aspetto fisico in life bensì annovera in sé quegli elementi affettivi che lo trascendono e che tornano a galla nel tempo facendo di quella persona una entità unica, inimitabile, non più materiale eppur vivida, palpitante e (in qualche metafisico modo) spiritualmente presente, lo stesso può dirsi di una coinvolgente esperienza videoludica che viene registrata nella memoria di un videogiocatore.
Emozionarsi nel ricordare l'immersione nella Shadow Moses di Metal Gear Solid (Playstation, 1999 - Konami) ed emozionarsi ad esempio nel ricordare l’amicizia con un conoscente che non esiste più fisicamente, informano della medesima: essenza, anima, spirito in entrambi i casi palpitano in colui che ricorda, in quanto depositario di tali esperienze.
Quello che con tutta probabilità è ancora da accettare è che l’immateriale (i mondi virtuali, nella fattispecie) possiedono la stessa legittimità d'esistere del fisicamente tangibile, e che i 2 piani infine sono facce della stessa medaglia in continua connessione.
Non esistono differenze ontologiche fra memorie video-ludiche e memorie non video-ludiche: si tratta pur sempre di memorie umane, che gli uomini videogiochino o meno. Da ciò ne deriva che il tempo dedicato a “video-giocare” non può, nemmeno concettualmente, essere considerato e vanificato come “perdita di tempo”, se non in modo spregiativo (e sempre contestualmente ad una determinata opera) per la qualità delle esperienze videoludiche vissute (leggasi, il tempo trascorso con un pessimo videogioco equivale al tempo trascorso con una persona ottusa, ridondante e che non ci lascia nulla: a waste of time).
Resta il fatto che la vita fisica che interagisce è una sola, ma le vite virtuali da esperire possono essere tante, molte, troppe a volerle "vivere" tutte.
Ma qualunque sia la qualità dell’esperienza che offrono si tratta di vite non delegittimabili causa la loro fonte originaria e il loro ontos costitutivo (Uomo, game designer o video-giocatore che sia).
I mutamenti del corpo nel tempo sono flebile, lieve testimonianza rispetto a ciò che accade nello spirito: dolore, rabbia, gioia, malinconia… le pieghe delle emozioni galleggiano sulla superfice del corpo, sui volti e sulle emotive umane, ma lasciano intravedere un infinitesimo barbaglio della complessità delle loro forme interiori.
Il libro della memoria di un uomo si scrive dentro, e concerne l’anima, non il corpo.
Il corpo indossa i segni del tempo, si veste di convenzioni, di condizionamenti sociali, e ricorre ai simboli stilistici dell’abito a sintesi di una presumibile interiorità.
Il corpo è minima cronistoria di un memoriale d’uomo.

Le ore di gioco trascorse in cyberspazi videoludici nonché le esperienze di vita "reale" off-game scrivono e depositano dentro l'uomo gli accadimenti che poi diverrano memoria.
Le Video EsperienzeI nterattive contribuiscono al testamento interiore umano, assieme alle esperienze di vita out-game, poiché videogiocare comporta il vivere vite interiori, vite trascese, vite Altre rispetto a quelle "reali": per quanto virtuali si tratta pur sempre di vite, di Tempo di vita, dislocate in dimensioni OBE, out-body experience, fuori dal corpo fisico quindi.
Ma la legittimità é la medesima.
Da qui nasce l’imperativo categorico di giocare bene.
E a proposito delle vite quindi, virtuali o meno che siano, di viverle dignitosamente per non sciupare il proprio tempo.

Essere o Videogiocare… si tratta in fondo della stessa e identica cosa.
Il videogioco é esattamente il contrario del tempo sprecato.

9 aprile 2007

Mono o Multi-Ending? (Project Zero 2 inside)

Project Zero 2: una opinione sugli ending dei Videogames
(di Luigi Marrone)

Commuoversi non è cosa quotidiana. Figurarsi per un videogame poi.
Ma il finale di Project Zero 2 – Crimson Butterfly (Tecmo 2004 Playstation 2) può commuovere il videogiocatore.
C’è nulla da fare.
Similmente a come sa scuotere un film d’animazione giapponese attraverso quella particolare sagacia e maestria tutta orientale di lavorare a tal punto sui ritmi e sulla caratterizzazione di personaggi digitali, sino a far vibrare di stupore e senso di perfezione le corde sensibili dell’emozione umana, Project Zero 2 può commuovere il videogiocatore.
Una catarsi liberatoria post tensione accumulatasi, lenimento perfetto dei nodi cardiopalmici seccati dall’ansia, sospiro liberatorio del trapezista concentrato e fremente a conclusione di un salto/videogioco che, ultimo dei suoi doni artistici, é in grado di farsi risolutore narrativo dell'immersione nel virtuale nonché esempio di profonda coerenza testuale con l'intera esperienza di gioco.
Il fulcro della trattazione é presto delineata: terminare un’esperienza quale Silent Hill, attraverso un certo modo di giocare con una intensità piuttosto che un'altra, spesso non é indice di un determinato finale. Per quanto la comunità videoludica appassionata della saga Konami sappia (attraverso Walktroughs, Faqs) come ottenere determinati ending, Silent Hill non offre alcuna coerenza logica ben definita che permetta di prefigurarli durante il gioco, di ingenerarli.
Il problema però risiede altrove. E-Self si chiede se un’opera multifinale, caratterizzata da diversi epiloghi risolutivi, non indebolisca il portato emozionale globale facendo collassare su se stessa l'intera aspettativa videoludo-ingenerata, nonché la struttura suggestiva sulla quale ci si è sorretti sino a quel punto di gioco.
Ad esempio, quanto é indicativo che i finali di Silent Hill siano, su di un piano meramente “quantitativo”, emotivamente meno potenti o toccanti quanto quelli dei vari Project Zero?
Per quanto sia personalmente affezionato all’orrore di Silent Hill (played 1,2,3), non di rado accuso lo sconforto di constatare l’apertura di un’opera a più finali. Sarà forse il presentire che la globalità dell'esperienza videoludica potrebbe sfuggirmi dopo tutte le eventuali ore al gioco dedicate… un po’ come se non potessi sostanziare dell'opera qualcosa di fondamentale come appunto il suo sacrosanto finale, la sua ultima chiusa congedante.
Senza togliere merito alla bellezza di Silent Hill o alle scelte del multi finale, credo che nelle opere videoludiche caratterizzate dalla pregnanza narrativa di una certa storia a supporto, i finali siano fondamentali quali elementi determinanti per l’intera esperienza di gioco, assolutamente non trascurabili al fine di un giudizio/appeal globale dell’opera. Ma contrariamente a come avviene per i film, la natura del medium videoludico tende spesso a spingere i producer verso la scelta un multifinale, dato che la performabilità, l’agenza permessa da un videogioco dovrebbero idealmente garantire l'illusione di apertura e di libertà a tutti gli effetti, non fossilizzando il tutto su di un solo punto d'arrivo.
A questo si aggiunge un certo bisogno post-moderno di fare cinema / di performare il testo legato alla sfida dell’intelligibilità della trama o al ruolo delle rappresentazioni dell’inconscio in scena (vedi David Lynch), traslato nel fattore rigiocabilità nei videogiochi, possibilità che conducono inevitabilmente le software house all'opzione multifinale.
Se personalmente mi sento a favore di un solo buon finale, quando ad esempio non si tratti di Action-RPG come le opere della BioWare (Il Sentiero della Mano aperta o Palmo Chiuso in Jade Empire, la Forza e il Lato Oscuro in Knight of the old Republics – ossia scelte che fanno dell’antitesi un fondamento ideologico), provo più piacere nel vivere la storia di un gioco secondo una sola direzione, quasi fosse appunto UNA storia, che inizia ed ha 1 epilogo, per il quale si é contribuito a partecipare sino a quando il gioco lo ha permesso, fino a quando la storia è stata finalmente in grado di "camminare da sola", pronta per sfociare nel proprio ending dopo che l’intervento dell’utente ha giustapposto coerentemente tutti gli elementi al suo interno.
Con questo non intendo certo professare la credenza verso un modo meccanicista, razionale o unidirezionale di intendere l'interattività, bensì affermare soltanto che il portato emotivo di un gioco mono-finale, ben implementato, tende ad intridersi di più nell'utente, gratificandolo e toccandolo più energicamente.
Se si vuole, a commuoverlo più profondamente.