18 maggio 2010

Heavy Rain è un videogioco.

(di Luigi Marrone)

Ho trovato Heavy Rain un modo estremamente curioso e coinvolgente di vivere la scrittura cinematografica. E’ palese come non si tratti affatto di un film, eppure la tanto sbandierata definizione di Film Interattivo che si porta dietro è probabilmente uno dei più diffusi - e comprensibili - equivoci epistemologici di cui è caratterizzato. Heavy Rain viola una fondante assoluta del cinema, ossia la direzione univoca dello svolgimento narrativo stabilita a monte. Il cinema non è composto da svariati segmenti narrativi secondo l’abilità gestuale dell’utente. Per quanto i piani di lettura siano polivalenti, un film è testo predeterminato. Chiamare quindi “film” un testo che invece è determinato dagli input che un utente invia ad un “lettore” che li elabora (Playstation3), è abbastanza lezioso.
Quantic Dream, sviluppatore di Heavy Rain, ribadisce quanto sia consigliabile non tornare sulle proprie scelte, una volta effettuate, lasciando correre i vari episodi della trama sino al relativo finale. Da questo punto di vista Heavy Rain potrebbe essere considerato come un composto di vari “capitoli” che si dispiegano secondo le decisioni dell’utente. Tanti utenti, tanti film.
Ma un “film” che proceda secondo lo schiacciare certi pulsanti a tempo non dovrebbe basarsi sull’abilità nello schiacciare gli stessi. Soprattutto quando il controllo è talvolta impreciso e non perfettamente calibrato da pregiudicare un certo segmento narrativo, e di conseguenza l’intero sviluppo della trama.
Più volte ho voluto “ricaricare” una sequenza perché non me la sono sentita di destinare un personaggio alla morte solo perché il pulsante corretto da premere è comparso sullo schermo all'ultimo momento. Tale problema, mi son reso conto poi, era dovuto all’accesso della Playstation all'hard disk, il quale “caricava” la scena in "streaming" con ritardo, creando una inspiegabile latenza fatale. A volte invece un dito mi è scivolato sul pulsante sbagliato del pad, interrompendo cosi il segnale di input che determinava il buon esito della scena.
Non vi è alcuna relazione logica tra abilità gestuale e sviluppo narrativo. Pretestuoso sarebbe credere di potersi sentire ugualmente responsabili di un certo evento scriptato quando è stato determinato da un errore del sistema di gioco. Mai si è visto un film appagare meglio chi ha dita più lunghe, sottili e articolate rispetto a chi ha mani corte, grandi e tozze. Tale discriminante fisica non può e non deve penalizzare il godimento ludico. 

Di contro, dopo aver stabilito la paradossalità di considerare Heavy Rain un film, è con altrettanta paradossalità che si deve affermare quanto sia ciò che più si avvicina alla definizione letterale di Videogioco: un giocare con la pura immagine video.
L’interazione non è ortodossa, ma è quanto di più logico l’intrattenimento videoludico offerto da Playstation 3 e le sue relative interfacce di controllo possa presentare. Data l’ambizione artistica sarebbe di certo risultato più congeniale un Nintendo Wii in alta definizione. Ma in attesa di Playstation Move, bisogna accontentarsi.
In Heavy Rain lo “schiacciare tasti” e il movimento gestuale del Dualshock3 con tecnologia Sixaxis determinano l’esito di un’azione cinematografica, una cut-scene. Nel suo centro più caldo Heavy Rain è quindi per la maggior parte una sorta di strepitoso laser game, il cui primo movente non è il piacere di premere i bottoni giusti (anch’esso ludicamente rilevante), bensì provare il godimento di una scrittura cinematografica in armonia con gli input gestuali dell’utente. Il culmine di tale processo è raggiunto in alcuni momenti di passaggio tra interazione e scene predeterminate. La mimesi tra azione e cut scene è raffinata a regola d’arte, un lavoro di mascherata dissolvenza che spesso finisce con l’ingannare il giocatore: lo sto movendo io il personaggio o sta andando da solo?

Si potrebbe quasi affermare che in Heavy Rain l’utente ricopre uno pseudo-ruolo di regista o di un non meglio precisato sceneggiatore. E questa è di per sé un bella prospettiva.
L’esperimento che ne consegue va assolutamente vissuto, vista anche la determinazione con la quale Quantic Dream si è ostinata a voler ridefinire alcune idiosincrasie tra cinema e videogioco. Se poi si giunge alla fine del viaggio sentendosi più spettatori che videogiocatori, non ha alcuna importanza.
Heavy Rain suscita emozioni sincere, toccanti.
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Più d’ogni altra cosa, è questo che alla fine conta.
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4 maggio 2010

Morte ai Videogiochi: Speciale su Everyeye.it

(dli Luigi Marrone)

Nicolò Pellegatta ha da poco pubblicato sul portale Everyeye.it un articolo di cui al titolo sopra.
Trattazione polivalente, corredata di alcune mie citazioni e consigli di lettura per un approccio ancora più accademico, Pellegatta sviscera con approccio serio e deciso alcune delle problematiche più diffuse che gravitano attorno alla questione morte nei/dei videogiochi.
Di seguito un breve estratto.


"All'interno del colorito mondo videoludico la morte non è mai definitiva. La sconfitta è sempre accompagnata da tre puntini di sospensione e mai da un secco punto e a capo.

Buona parte dei giochi cercano di assolvere il compito di promuovere il momento trascorso in compagnia di esso e mai di svilirlo (pena la rescissione del lucroso contratto con gli sviluppatori).

Ma la questione dell'impossibilità di giungere a una morte certa è un affare serio, per quanto all'apparenza inattaccabile e inconfutabile.

(...)
Il concetto di morte nei videogame è diverso da morte dei videogame, e la distinzione non andrebbe nemmeno spiegata: certo è che la sconfitta e la dipartita (momentanea) di un personaggio digitale la si può collegare a un generale impoverimento e appiattimento del senso di sfida nelle sfide proposte al giocatore."


Per la lettura completa dell'articolo cliccare qui.
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