3 dicembre 2006

Era mio padre. Metal Gear Solid 3: Snake Eater

Nel tempo dell'Assenza
(di Luigi Marrone)
Ancora vive in me una strana persistenza, alla fine del viaggio. A volte resta la memoria di un colore, un jingle ridondante, un particolare ambientale suggestivo di uno spazio virtuale… A volte sono scorci di un dungeon zeldiano, alcuni spiragli d’esterni/interni della Silent Hill, la spazzatura riversa fra le strade d’una plumbea Coney Island in The Warriors, la febbre virale della Carcer City di Manhunt...
Ambienti digitali poligono-dipendenti/gameplay-contestuali che si intridono nella memoria, vera forza occulta degli ambienti virtuali.
Nel riemergere da Metal Gear Solid 3, nel ritornare alla luce del non-virtuale dopo la verde risonanza aurica del quale il suo universo è cosparso, é stata per me come un’emozione risonante nella dorata filigrana del ricordo.
Un tepore intimo, interiore, fomentato da profonde ed emotive sinestesie regalatemi dalla memoria di un particolare universo endo-psichico, video-ludico e video-emozionale: l’universo del mio passato, operativo in me.
Spesso l’emozione memoria reclama d’essere espressa attraverso libere associazioni, in quanto suggestione personale infusa in quel particolare fervore atto a registrare l’irrazionale, vicino al sentimento: il ricordo della propria adolescenza.

Verde è il fungo luminescente russo e la rana subaspera, la mimetica fogliare e l’acquitrino della palude. Verde é il pitone arboricolo, la raganella e il muschio sulla pelle di THE END, verdi sono le mimetiche e l’uniforme standard dell’ex Green Beret John, i rettili in agguato sugli alberi e le radiotrasmittenti, le divise militari, l’uniforme di EVA, le passerelle antisdrucciolo cigolanti, la copertina e la serigrafia sul CD…
Verde é
METAL GEAR SOLID 3 :
Verde come la memoria che ringiovanisce tornando indietro, come il ricordare l’MSX posseduto da un qualche mio compagno di scuola, sprazzi d’una estate schiumosa di ricordi associati a zone di camping per roulotte, fra materassini gonfiabili e prati verdi, fanghiglia a chiazze melmose schizzate attorno a tubi di gomma scolanti delle docce…
L’emozione e il ricordo.
Il verde in Metal Gear Solid 3: Snake Eater.

SNAKE EATER è suggestione in armonica risonanza con qualcosa di me, il mio io bambino stupefatto davanti un televisore nell’anno 1984 - impressionato dai disegni di copertina sulle scatole contenenti le cartucce di un Commodore Vic 20 - fantasticando su quanto il videogioco potesse avvicinarsi alla realtà, lo scarto fra la realtà di fuori e la realtà di dentro, i ritagli liquidi di luce sul balcone di casa e i pixel schiumanti in brillanti cromatismi sullo schermo TV.
Nella mia sensibilità per il digitale, qualcosa è cominciato cosi.
SNAKE EATER é l’universo parallelo aperto su MSX da Konami a metà degli anni 80, implementato in idee e concetto sino a giungere qui, all’origine di tutto, retrospettiva che legittima e rende giustizia allo spazio bidimensionale ideato da Hideo Kojima attraverso il medium MSX, piattaforma sulla quale il game designer ha dato l’abbrivio all’assalto teso alla comunione mediatica fra cinema e videogame.
Tutta la volontà era lì, dentro un MSX2, ed ora è anche qui, dentro una PLAYSTATION 2: spazzare via un mucchio di pixel affastellati attraverso un proiettile dalla forma di un quadrato bianco, cosi come sgozzare un ammasso di milioni di poligoni vivi trattati in gourad shading - sentendoli urlare mentre il joypad é in vibrazione - osservando sangue schizzare sul vetro interno dello schermo… nulla risulta diverso nel tempo.
Lo scarto rimane prerogativa tecnologica, non delle idee.
Oltre il comparto grafico quindi, oltre la terza dimensione, dolby pro logic II e l’immersione sensoriale, il testo rimane eloquente: Metal Gear Solid è opera potente, riflessiva, buona per tracciare avanguardie videoludiche.
Ma é dentro SNAKE EATER che si vede la sostanza, é vivendo SNAKE EATER che si annusa di cosa è davvero composto il DNA, la guerra, l’odore di terra e sangue e l’armamento pesante METAL GEAR – i tessuti delle uniformi mimetiche di soldati, elettricità ad alto voltaggio, fango e ruggine…
SNAKE EATER dilata l’universo del proprio passato lasciando intuire che non vi è ironia al principio di ciò che si era conosciuto, nonostante le influenze di un cinema d’azione americano così influente su Kojima.
SNAKE EATER ha giocato con la mia memoria nostalgica riesumandone l’inconscio, e l’effetto è stato per me filosoficamente ed emozionalmente intenso.
UNTIL THE END OF THE WORLD di Wim Wenders postula un head-set record-neuronale in grado di registrare l’inconscio proiettando frames d’immagini nella corteccia cerebrale in modo da poter rivedere in low-fi persino i propri sogni passati. In altri termini, riesumare visivamente ciò che era sigillato nella memoria umana, ma che legittimamente le appartiene in quanto parte inconscia ed operativa di lei.
Rivedere quel che si era quindi, riflettendo su quello che si sarebbe potuto essere, diviene un processo languidamente sfinente.
SNAKE EATER permette di partecipare alla causa scatenante le future conseguenze che tutti i veri fan di MGS hanno già conosciuto, ma dentro me il processo è risultato intenso e avvolgente a causa del risveglio di risonanze emotive che successivamente ai vari MGS, e dopo aver sentito storie, vissuto sequestri di scienziati, METAL GEAR RAY, ARSENAL e PATRIOTS e reparti speciali e tutti gli altri intrecci ormai decantati nell'anima, hanno contribuito a relegarmi spiritualmente nel passato.
La magnifica kojimiana caratterizzazione visuale/storico/narrativa, contestuale al gameplay, non ha fatto altro che proiettarmi e guidarmi in un tempo particolare: il tempo della mia assenza, il tempo ancor prima che io nascessi.
La domanda è perché tutto questo mi ha rapito. Forse perché l’aggiornamento tecnologico applicato ad un prodotto videoludico, nel permettere realismo videointerattivo rende visibile ciò che in passato aveva emozionato nel solo immaginarlo. Quella stessa intima emozione passata, decantata da anni nella memoria, viene riformulata e attualizzata al presente, portando con sé un carico di languida melanconia.
L’emozione di chi viveva 20 anni fa l’esperienza Metal Gear su di un MSX, di chi viveva il coinvolgimento ideato da Hideo Kojima nella caratterizzazione dei personaggi e nei loro rapporti, dalle emozioni esperite in-game all’immaginare la personalità di Big Boss, di Solid Snake e di Grey Fox…
Tralasciando gli stereotipi degli action-film/spy-story americani ai quali il Director Kojima si dichiara versato, i personaggi di Metal Gear hanno sempre tentato di uscire dal limbo del mero messaggio ludo inteso in un momento nel quale le copertine delle confezioni dei videogiochi possedevano ancora il carattere di illustrare simbolicamente i contenuti dell’esperienza, di suggerire l’atmosfera e il richiamo ad un particolare immaginario, nonché il compito di farsi latrici nel favorire l’immaginazione di “pensare” il giocato, di “fantasticarne” il realismo ove la cosmesi prodotta dalla tecnologia hardware era lontana dal rappresentarlo.
Le cose oggi si sono rovesciate, in quanto l’aspetto cosmetico di un videogioco può farsi più coinvolgente dell’immaginario suggerito da una cover che lo contiene.
In Snake Eater, l’aggiornamento tecnologico ha richiamato l’emozione del passato: ciò che si è stati, ciò che si è vissuto, ciò che si è esperito, ciò che si è virtualmente sperato un tempo, oggi è stato richiamato al cuore attraverso gli elementi un tempo investiti affettivamente.
Vedere Big Boss...
Attraverso Big Boss vedere Solid Snake...
Poter vedere l’immaginato.

Espandere l’immaginazione al passato, tornare sui passi della fantasia immaginativa decantata negli anni addietro, lasciata lì, in una qualche zona interiore che sarebbe dovuta restare circoscritta nel tempo, riprendendola, scotendola… provando l’anacronistico sapore di un tempo (da ieri ad oggi) che non dovrebbe essere trascorso mai.
20 anni.
Dal primo Metal Gear sono invece sono trascorsi 20 anni.

La verità è che il progresso tecnologico videoludico ha il potere di re-immergere l’anima nel ricordo, ristrutturando l’emozione e infischiandosene del tempo trascorso: é così che la tecnologia soprassiede sul tempo, quando ciò che non è stato permesso un tempo può essere sbattuto in faccia all'utente oggi, bellamente, costringendo il videogiocatore a riformulare la propria avatar-immersione passata, l’emozione registrata nella propria memoria videoludica.
Se è vero che “La narrazione non opera nel segno della riproducibilità del passato, ma del valore/significato che l’evento richiamato assume ora che lo stiamo raccontando” (Gianfranco Pecchinenda – Videogiochi e Cultura della simulazione) – giocare Snake Eater oggi ha un valore in più per chi lo ha affrontato nel proprio videoludico passato B-dimensionale, in quanto viene amplificato il rapporto emotivo di identità avanzato dal videogiocatore dal passato, sino ad oggi..

Vivere nel tempo dell’assenza

Filosoficamente, Snake Eater compie poi un altro azzardo, quello di offrire la possibilità di vivere il tempo della nostra assenza, di rivivere sulla nostra/sua pelle ciò che altrimenti non si sarebbe potuto sostanziare mai se non da quanto alitato dagli alisei della leggenda.
Pur essendo frutto di fanta-politica, MGS3 offre difatti la possibilità di vivere una storia nel tempo storico off-line in cui non si era ancora vivi, perlomeno del videogiocatore al di sotto dei 40, offrendo il privilegio di scriverne il modo come sarà registrata in noi, ovvero come sarà ricordata dalle generazioni future. Lapalissiano che per il videogiocatore che ha terminato Snake Eater, rigiocando adesso Metal Gear Solid 1 e udendo il nome di Big Boss potrà pensare “ Io so tutto, so come è andata “.
Ma la verità è che avrebbe potuto non saperlo mai.
Ciò che ho trovato sconvolgente é stata l’espansione fenomenica del passato al passato, come se Snake Eater avesse operato una dilatazione del mio passato e della mia memoria, riscrivendola, permettendomi inoltre, in qualità di videogiocatore, di determinare, di ri-scrivere il modo con il quale una deteminata storia e un determinato contenuto videoludico hanno avuto corso.
Questa è nient'altro che pura potenza del medium videoludico: donare l’impressione di essere un continuum temporale endogeno, virtuale, sub-reale ma parallelo e legittimo quanto l'ordinaria "realtà". L'in più risulta la possibilità di sentire d'esser stati noi a scriverne la storia, giocandola, dispiegandone il relativo universo sino alle battute finali. Il gioco entra così nella memoria intima del videogiocatore, dentro il suo Tempo, ed il prequel di Snake Eater diviene una espansione empirica. Emozione e coinvolgimento sono garantiti dalla partecipazione attiva: un buon videogioco si registra più fortemente in modo empirico nell’uomo di quanto non lo faccia un film. Nell'universo virtuale sono inoltre possibili leggi che al cinema reale sono negate. La possibilità di modellare volti, di rendere credibile mediante cosmesi digitale una fisionomia ringiovanita come un attore in carne ed ossa non potrà mai fare completamente, contribuiscono al continuum fruizionale, dilatando la coerenza e l'assoggettamento emozionale del videogiocatore.
In tale senso, la plausibilità relazionale fra prequel e sequel é garantita dalla maggiore versatilità plasmatrice attuabile in attori virtuali più che in quella del cinema (non machinima).

Ma la storia rimane fatto, e la storia di Snake Eater non è negoziabile: il tentativo di riscriverla genera un Time Paradox assediante il Game Over, interrompendo in tal modo il proseguimento videoludico. L’assenza di Game Over di Snake Eater, che in tal modo diventa un vero e proprio universo digitale autonomo le cui linee generali prologo-epilogo sono virtualmente scritte già da anni a prescindere dalle azioni del videogiocatore, fanno dell’esperienza videoludica un privilegio tempo-trascendente.
Nel tempo narrativo di Snake Eater, il videogiocatore rappresenta un non-nato che sta video-interagendo, un ente spia con funzioni video-interattive.

A pag. 11 della Guida Ufficiale Italiana (Piggyback Interactive 2005) è scritto :
Poiché MGS3 si svolge nel passato, prima degli eventi che hanno animato i precedenti capitoli di Metal Gear, é certo che Snake sia sopravvissuto alla missione, altrimenti il mondo di oggi non potrebbe esistere. Il tuo compito è quello di ricreare gli eventi che sono di fatto già accaduti.

Niente come SNAKE EATER mi ha videoludicamente donato la sensazione d’esser l’assenza spazio/temporale del mio corpo negli anni ’60. Similmente ad un fantasma agognante un corpo, agognando Tempo e desideroso di sostanziare, sentire, annoverare fa i suoi non-sensi gli oggetti fisici e reali, il quale si farebbe pieno di gratitudine verso quelle forze trascendenti che gli hanno temporaneamente permesso d’incarnarsi nella vita passata di qualcuno, dentro SNAKE EATER io assaporo con devozione e gratitudine il corpo di un’opera che in realtà é parte di una vita videoludica che avrei
potuto
non
vivere
mai.
Il privilegio di poter essere presenti all’origine, di potersi fare registratori di un’esperienza del Tempo della propria Assenza, nonostante alla fine venga registrato ciò che nella storia è già accaduto, nonostante la coscienza che tutto è comunque già stato vissuto, esprime un impagabile valore. Ogni singolo accadimento sensoriale, ogni suono, colore, parola in Snake Eater divengono addizione d’una vita passata alla vita presente di me videogiocatore, vero e proprio "incremento temporale virtuale": il gracchio metallico di barili rugginosi fra travi ossidate nel centro di ricerca a Tselinoyarsk, la tecnologia di sonar a batterie e interferenze, la visione di corpi ustionati – terra che s’imbeve di sudore, di passi e sangue, senso di piccolezza nel sentirsi inghiottiti in madre natura amorevole e spietata, la pelle rovente al sole, alla pioggia, agli animali, alle schegge schizzate nella carne e alla terra imbevuta del siero di corpi umani – ogni particolare esperibile è in realtà il dono trascendente che Kojima e Konami, mediante tecnologia PlayStation2, hanno fatto alla nostra memoria, a noi veri appassionati di Metal Gear Solid.

Persistenza della Natura
Del mondo, é la natura alla fine a restare. La natura dal volto non trapassante, dai colori e dalle sfumature che sanno come ritornare sempre. In Snake Eater le armi si faranno obsolete, cosi come invecchiano e muoiono corpi geneticamente modificati, come bruceranno porzioni di foresta diventando radioattive, come i nomi saranno cancellati dal registro dei Vivi.
Ma il sole continuerà a cadere sul mondo, riversandosi negli gli spazi intrisi di invisibili ricordi di cose avvenute, dando luogo a quel senso di nostalgia con il quale si combatte dentro la Russia di MGS3. Ed io penso a quel sole filtrato dalle fronde d’alberi secolari nelle foreste di Tselynoyark, quella stessa pioggia che lava via sangue e animali morti del bosco, e il verde delle foreste, la frescura dei ruscelli… penso alla pienezza di sensazioni con la quale Snake Eater investe ogni momento di gioco, grazie alla fantastica storia e all’anima digitale dei personaggi i quali, investiti da questo nostro sentimento, rendono vivi, umani, memorabili i poligoni.
L’umanità delle storie di Metal Gear trascende il mero dato poligonale per intridersi nella memoria videoludica del gamer. Che la natura dentro l’universo di MGS3 sia poligono digitale è dettaglio inutile: trascesa dall’umanità dei personaggi e dall’intensità delle storie, essa resterà e vincerà sull’uomo e sopra il suo Tempo, ed è probabilmente questo ad emozionare la memoria, nel riviverla: in Natura non esistono ’60 ’70 o ’90, non esistono età bensì soltanto come l’uomo la vive scrivendovi la storia dell’uomo, all'interno.
E' così che ogni filo d'erba, albero, corteccia divengono in realtà vegetazione senza tempo: rivivere il suo respiro al passato rende il tutto un dolce e trasmigrante languore.
Acquattarsi tra le fronde del sottobosco in SNAKE EATER vuol dire acquattarsi fra piante del passato che non sono le stesse di oggi, seppure quaranta anni dopo possano avere la stessa forma, colore, odore e fruscìo. E' questo che fa male nel giocare ad essere la memoria: rivivere negli spazi della natura morente e in rinascita, ma vedendovi agire dentro uomini che hanno creato l’intensità di quella storia umana, uomini che un giorno non esisteranno più.
L’umanità dei personaggi virtuali di MGS3 colpisce dentro intensamente, trascendendo a loro volta la loro natura di poligoni digitali.
Come l’allontanamento dall’età dell’infanzia e del ricordo, dal sacro, dall’avere coscienza di stare giocando col futuro - MGS3 spalanca il concetto di BIG BOSS aperto su MSX nel 1987 creando un link con l’età perduta, ingenerando videoludicamente la pulsione a tornare indietro, a ri-tornare ragazzi per riabbracciare la genuinità di ciò che è ormai diventato memoria.
RetroLiving
È il 1987 adesso, e io ho 9 anni. Classe 4a elementare, e sono in piena esaltazione mediatica. Abbiamo deciso, io ed Emilio, di programmare un videogioco, IL videogioco dei Master of The Universe. Non sappiamo come e dove cominciare, ma io possiedo un Commodore 64 e sono certo di una sola cosa al mondo: che mio padre sarà in grado di riuscirci. Mio padre programmerà il videogioco di He-Man.
Emilio disegna He-man e Skeletor su di un foglio A4, posture frontali e laterali. Mi allunga i fogli, pieno della mia stessa speranza. I disegni sono perfetti.
E’ sera quando mio padre rientra a casa dal lavoro. Aspetto che si sieda per la cena, poi gli mostro i disegni.
“Papà, puoi programmare un gioco con i Masters?“ gli chiedo.
Lui osserva i fogli, poi mi guarda e accarezzandomi mi risponde dolcemente “ Non lo so fare, papino “.

Mio padre.

Snake Eater non è il METAL GEAR della tecnologia, delle porte ad apertura fotocellulare, della manipolazione genetica e delle nanomacchine che agiscono nell’apparato endovenoso. Non è il Metal Gear dei campi magnetici che proteggono da missili e proiettili o delle braccia di Lazzaro che opportunamente trapiantate in altri corpi permettono di risuscitarlo in vita.
SNAKE EATER é guerra vissuta fra soldati mortali, dove il John di SNAKE EATER è inflessibilità d’un semplice uomo del reparto FOX, un uomo di poche parole, esperto di tattiche, armi e tutto ciò che è militare, cane da guerra con zero velleità artistiche.
Egli non è il nostro Solid Snake, e lo si avverte non appena se ne viene a contatto. John é un animale da terra e palude, fango e pioggia, carne cruda e battaglia e metallo e adrenalina e coraggio e riflessi e volpe e serpente, il Vero Serpente, Naked Snake, non ci sono dubbi.
La fiducia riposta dal governo è ovvia e naturale in quanto il senza-famiglia John é un universo autonomo, serio verso se stesso, responsabile verso il proprio Paese, responsabile come un padre che abbia qualcuno da sfamare.
Nonostante il proprio lavoro o la propria missione possano consistere nell’essere capaci d’uccidere, sgozzare e strozzare a mani nude per poi cestinare la coscienza con la sicumera d’aver fatto il proprio dovere, la verità é che John si chiede poco o nulla: di cosa pensi della guerra, di come ami, di come imparerà ad odiare… Il nocciolo più intimo, il mistero dietro l’uomo John non si riesce ad intuirlo nemmeno immergendosi in lui.
Come se a quel tempo, nella freddezza e nella crudezza di ciò a cui si può assistere attraverso lui, non vi fosse alcun bisogno di quel moralismo anti-militare che viene fuori dalle coscienze dei vari MGS degli anni ’90: nessuna crisi spirituale, nessuna morale anti-bellica, semplicemente missione come professione, missione come ideale di fedeltà a servizio del proprio Paese, lguerra fredda dell’uomo per il soldato interiormente freddo.
John non può e non si chiede se ciò che sta vivendo sia realtà o finzione, non accusa il minimo di metareferenzialità per l’universo che lo controlla. La Natura é lì, soverchiante, splendente, reale. John é l’uomo che vive nella natura, mimesi del verde, fagocitatore di serpenti capace di procedere solo col proprio trasmettitore schizzato del sangue d’un operativo del KGB sgozzato, imbrattandosene il corpo se può aiutarlo a mimetizzarsi meglio.
Ed è con tali suggestioni che l’universo di Snake Eater si fa più aderente al sentire umano, in quanto spazio antitetico del digitale, similmente al mondo negli anni ’60 assente di effetti Compton, GW o minaccia di censura d’informazioni da parte di PATRIOTS.
No Skull Suit a trattamento endovenoso in Snake Eater: John non ne ha bisogno, e procede solo, senza ironia, responsabilmente verso la propria missione e il proprio destino.
E’ questo che lo rende un soldato perfetto.
E’ per questo che lo sarebbe stato come padre.

Perché il padre è il ritorno all’indagine delle proprie radici, attuata ogni qualvolta la memoria scava all’indietro. Tale é la funzione archetipica e psicologica del padre, in fondo : il legame con la memoria, radicata nel profondo, in grado di legare un figlio alla radice del presente.
Come una fratellanza di sangue.
Nella giovinezza del padre e nel suo Tempo, esistiamo anche noi, i non nati.
Ma già vivi nel suo DNA.
Un legame della Natura, che ora non si potrà più cancellare mai.

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