24 ottobre 2006

Critici d'Arte. Come guardano ai videogames?

Arte e Videogiochi: il progresso tecnologico e il giudizio della critica non-videoludica alla video-interazione.
(di Luigi Marrone)
Trattazione pubblicata su www.videoludica.com all'indirizzo
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Un luogo ancora da analizzare/immaginare/speculare a fondo, relativamente al dibattito arte e videogiochi sono le motivazioni che sino ad oggi hanno giocato a sfavore dei videogames in merito al loro potersi erigere ad Arte secondo principi estetici paradigmatici definiti, come per altre consolidate forme espressive.
Dando per assunto che "I videogiochi non sono arte semplicemente perché i critici di professione non hanno prodotto (o non hanno voluto produrre) dei sistemi estetici adeguati a rendere conto delle peculiarità del medium e del suo linguaggio" (Bittanti), la domanda che propongo è la seguente :
Potrebbero mai stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati quando il progresso tecnologico tende ad evolvere i paradigmi autoriali sui quali potrebbe definirsi una data espressione artistica compiuta?E ancora:Come possono i critici adeguare determinati principi estetici al medium videoludico essendo costretti a ri-definirli secondo il continuo processo tecnologico che, nel tempo, tende a ridefinire la stessa estetica dei videogiochi e del videogiocare?
Prima di fornire risposte a tali quesiti, sarebbe interessante chiedersi come potrebbe essere percepita la videointerazione ludica, nonché la relativa critica specializzata nel settore, da parte di un sistema critico non-videoludico. Soprattutto se, immaginando tale incontro, e analizzandone la prospettiva analitica da un punto di vista non settoriale, potrebbero generarsi contributi interessanti per la comunità videoludica, per gli studiosi del medium nonché per gli stessi critici che volessero fare del testo videoludico una espressione complessa pari ad altri artefatti culturali.

Si potrebbe immaginare che una delle difficoltà trasformatasi in consolidata ritrosia da parte di molti settori della critica non-videoludica a considerare i videogiochi “Arte” al pari di altre espressioni artistiche, non sia da ricercarsi nella natura del medium in sé, bensì nella considerazione storica che la stessa ha dei videogiochi, a partire dai "pionieri" che hanno scritto la storia iniziale del medium. Pong, Space Invaders, Pac-man… tali forme videoludiche offrivano rappresentazioni stilistiche ridotte all’osso, ognuna fortemente caratterizzata da un minimo comun denominatore: i propri evidenti minumum estetici, dal gameplay al coinvolgimento audiovisivo, e via dicendo.
Al contrario, gli artefatti del cinema, musica, pittura o letteratura ad esempio, non sono stati considerati da parte dei sistemi critici, seppur ne abbiano sofferto, come afflitti da limiti congeniti, nonostante siano stati investiti nel tempo da una evoluzione tecnologica nei supporti di registrazione, produzione, conservazione e quanto altro. Di tali testi specifici vengono analizzati i contenuti, i contesti socio-politici nel quale sono inscritti nonché tanti altri diversi aspetti in relazione fra loro.
Ma ciò che li ha sempre differenziati dagli artefatti videoludici è che essi sono sempre stati riconosciuti quali diretta e sacrosanta espressione dell’uomo/artista in un determinato punto del tempo e dello spazio, in virtù della quale espressione la componente tecnologica non è mai stata considerata limitante, bensì di supporto alla comunque libera visione umana in grado di esprimersi con gli strumenti a disposizione.
Il videogioco, in quanto prodotto totalmente mediato, filtrato, esplicato da un hardware tecnologicamente definito (leggi limitato), potrebbe essere idealmente considerato dalla comunità critica non videoludica quale medium riduttivo, limitante la libertà espressiva dell’uomo, dovendo questi adattarsi alle risorse tecnologiche disponibili ad esaudire la propria visione ideale.
Il problema non si risolve quindi nell’accettare i compromessi legati allo specifico artistico del medium videoludico, bensì attraverso una riflessione sullo stesso comparata ad altre espressioni artistiche compiute, le quali, de facto, non soffrono di tali disagi interpretativi.
In qualità di linguaggio puramente digitale, risultato di programmazione di un codice macchina, il videogioco è a tutt’oggi influenzato dall’hardware che lo supporta, dalla tecnologia che ha il potere di definirlo, nel tempo, addirittura ontologicamente.
Credo sia possibile azzardare l’ipotesi della ridefinizione ontologica del medium videoludico in quanto non vi è nulla a precludere la possibilità che in futuro la tecnologia, attraverso nuove interfacce di connessione uomo-macchina, mediante progressi in campo biomedico legati alla bio-cibernetica, potrà a tal punto stravolgere il modo come intendiamo oggi la “ludica video-interazione” da farci stabilire che le pratiche videoludiche passate, come vengono intese da noi oggi, non possano assolutamente essere definite “video-interazione” ludica. (eXistenZ di David Cronenberg – 1999 – ne è una stordente ipotesi).
Non a caso é sintomatico che dopo più di trent’anni di storia videoludica, con buona pace dei puristi del retrogaming, molti videogames del passato non vengano più giocati in quanto incapaci di intrattenere come un tempo, a causa del progresso tecnologico che ne ha sfiancato il potere di divertimento ludico rispetto a proposte più attuali.
In altri termini, la tecnologia in ambito videoludico ha l’immenso potere di ridefinire nel tempo il piacere di fruire degli elementi propri degli artefatti videoludici, causa trasformazioni/evoluzioni estetiche e strutturali all’interno delle opere ludiche.

Come in precedenza affermato, i limiti hardware dietro i videogiochi riducono le facoltà umane d’espressione, in quanto queste, a loro volta, vengono limitate, azzoppate, handicappate dagli inevitabili limiti congeniti della tecnologia che ne è alla base.
Ciò comporta l’idea che sino a quando il vecchio sarà rimpiazzato dal nuovo, vi sarà la diffusa, conscia/inconscia opinione critica che un prodotto videoludico non presenti solide fondamenta né una base certa dalla quale poter analizzare esteticamente il medium in modo paradigmatico, con il conseguente rischio di non poterlo considerare in grado di generare forme artistiche compiute come per altre forme espressive.
Limitando difatti le possibilità dell’uomo, il limite hardware costringe l’uomo a privarsi di una delle caratteristiche che lo rendono uomo/artista in quanto tale: la totale libertà di espressione della propria visione, ovvero di realizzazione della stessa. Per questo il medim videoludico potrebbe difficilmente essere accostato, dal sistema critico, ad altre espressioni artistiche umane.
Per quanto le influenze socio-culturali favoriscano la nascita di intelletti in determinati periodi spazio-temporali, nulla avrebbe vietato ad esempio ad un uomo quale Pablo Picasso, se fosse esistito cento anni prima, di dipingere un quadro cubista, potendo egli disporre della stessa personale, inalienabile visione appartenente a lui come uomo/artista Pablo Picasso, nonché degli stessi strumenti espressivi (tela, colori, pennelli) a disposizione degli artisti del novecento.
Così come nulla ci vieta di pensare che Pablo Picasso abbia invece anticipato i tempi, e che in realtà la sua pittura avrebbe dovuto generarsi solo cinquanta anni dopo, quando il contesto fisico e sociale sarebbe stato idealmente più favorevole.
Ciò che più conta in definitiva, è che Pablo Picasso avrebbe potuto strumentalmente realizzare la propria visione pittorico/stilistica, in quanto possibilitato a prescindere temporalmente.
La visione artistica di un uomo è solitamente quindi un elemento in grado di trascendere il tempo.

Nel 1970 la PlayStation non poteva essere tecnologicamente concepita, e le prime console da gioco ad esempio erano dotate di un hardware ultra-limitato, con gli sviluppatori costretti a conformarsi alle loro prestazioni. Nonostante l’eccitazione per la speranza riposta nel futuro del progresso elettronico, non è tabù affermare che sin dall’inizio il bisogno dei game designer di espandere la propria libertà di visione in ambito videoludico ha dovuto sempre scontrarsi con la tecnologia.

È possibile supporre che sia stato proprio questo ad aver contribuito a seminare nel tempo, all’interno dei sistemi critici non strettamente interessati alla ludica video-interazione, l’idea del videogioco quale medium stringente, soffocante, limitativo per la totale soddisfazione artistica e la conseguente libertà autoriale dell’uomo.
Se oggi è possibile allontanarsi sempre più dalla vetusta concezione di “limite tecnologico” caratterizzante le macchine dei primi videogiochi, è pur leggittimo concedersi la libertà di presumere che all’alba di possibilità inedite e alla velocità con la quale il medium si sta evolvendo ci si trovi in una scomoda posizione di definizione dello stesso, in quanto non è mai facile definire paradigmaticamente un medium in evoluzione, che pare denigrare il se stesso lasciatosi alle spalle ad ogni passo in avanti compiuto. Per tale motivo viene più facilmente concessa e riconosciuta ai pionieri dei primi videogiochi l’abilità e l’abnegazione nel programmare macchine esigenti piuttosto che il riconoscimento artistico/istituzionale/paradigmatico delle proprie idee.
Da ciò ne conviene che se un quadro innovatore, precursore di un movimento artistico è capace di divenire un artefatto artistico paradigmatico, e di conseguenza valutato unanimemente secondo determinati criteri estetici, è perché l’opera e la visione pioneristica del genio, a prescindere dai suoi strumenti artistici a disposizione o inferenze socio culturali, è libera da vincoli di sorta, senza mediazione se non quella della sensibilità artistica del proprio autore: in altri termini, e ancora, la libertà di visione dell’uomo dovrebbe sempre trascendere il tempo essendone slegato, permettendo in tal modo il libero generarsi di uno specifico paradigma critico convenzionale, non timoroso di stabilirsi secondo stabili e sicure coordinate.
Di conseguenza, e in tutta naturalezza, l’opera artistica viene considerata un’espressione artistica compiuta.

Nel campo videoludico, durante le GDC (Game Developer Conference), è raro non sentire un game designer lamentarsi della difficoltà di approccio delle nuove tecnologie, dei tool di sviluppo per i nuovi sistemi o dei limiti suggeriti dalle caratteristiche tecniche dell’hardware col quale dovrà confrontarsi per attuare la propria visione ed esprimersi. A tutto questo vanno ad aggiungersi le dichiarate insofferenze verso le software house, vere e proprie realtà corporative con tutto il loro carico di analisi di mercato e strategie di marketing, visione economica di produzione e relativa pressione sui team di sviluppo.
Come se non bastasse, le nuove tecnologie di visione legate all’intrattenimento videoludico - dai televisori ad alta definizione sino ai touch sensitive screen del Nintendo DS, ad esempio - non fanno altro che ridisegnare i supporti, le “tele” atte alla visione elettronica, nonché le metodologie interattive mediante le quali i game designer si sono fino a poco tempo fa espressi.
Tale processo evolutivo, schiaffeggiando drasticamente le passate tecnologie visive (la tecnologia CRT - Cathodic Ray Tube, i vecchi Televisori a tubo catodico), stabilisce ormai che chi non possederà l’Alta definizione sarà tagliato fuori dal godere appieno delle nuove console Sony e Microsoft, a prescindere dalla propria competenza in ambito videoludico.
Difficilmente invece un quadro, una canzone, una scultura o un film subiscono nel tempo un rinnovo degli strumenti di fruizione così drasticamente correlati al progresso tecnologico. Inoltre, dove un pittore ad esempio può esprimersi indifferentemente su muro/tela/legno facendo di volta in volta uno specifico di genere a seconda dei differenti supporti per la sua arte (con la critica pronta ad analizzarne indifferentemente il segno, a prescindere dal supporto sul quale è registrato), mutare i supporti elettronici visivi in campo videoludico vuol dire tracciare violentemente il profilo di una nuova estetica visuale, impossibilitando inoltre il dietro-front ideologico in quanto sarebbe la tecnologia dello stesso hardware, anti conservatore per sua natura (tecnologica) a non permetterlo.
Produrrebbe mai la Sony una PlayStation 2.5, visibile su comuni televisori CRT, quando sul mercato è già disponibile PlayStation 3 per l’Alta definizione?
Il segno lasciato da un pittore è invece un indice artistico non differenziale, capace di oscillare secondo sensibilità, esigenza e bisogni dell’artista, ma libero di essere convenzionalmente valutato dalla critica a prescindere dai supporti visivi sui quali l’artista decide di attuarlo.
È sintomatico come difficilmente Sid Maier avvertirebbe nel 2006 il prurito di programmare una versione ridotta all’osso di Civilization su Atari 2600, in quanto la sensibilità, la visione estetica e l’esigenza artistica dei game designer è mutata secondo ciò che la tecnologia ha reso possibile.

Tornando a trattare di critica, c’è da dire che i settori specializzati nella critica videoludica non hanno difficoltà ad affermare, in sede di analisi di un dato videogioco, il relativo valore alla luce di come idee, gameplay, grafica e sonoro siano stati implementati in armonia con l’avanguardia tecnologica hardware che ne è alla base. Difficilmente il godimento dato dalla fruizione di ambienti virtuali mossi da motori grafici all’ultimo grido risulta un elemento criticamente sottovalutato.
Ma dovendo esprimere opinioni sui videogiochi passati dello stesso genere, ad esempio Gran Turismo 2 (PlayStation) e Gran Turismo 4 (PlayStation 2), consigliando l’utente su di una scelta d’acquisto, non lesinerebbero nell’avanzare il fatto che GT2 (fig.1) risulti vetusto, sorpassato sotto tutti gli aspetti rispetto a GT4 (fig 2), pur trattandosi entrambi di artefatti dello stesso genere di appartenenza: videogiochi.

(Fig.1)______________________ (Fig.2)

(Fig. 1) Gran Turismo 2 – Polyphony Digital – 1999
(Fig.2) Gran Turismo 4 – Polyphony Digital - 2005

Pur essendo entrambi artefatti creati per intrattenere/divertire/simulare la guida sportiva nella realtà, consigliare di giocare GranTurimo 2 piuttosto che il 4 è impensabile, poiché GT 4 offre/diverte/simula/coinvolge/esalta maggiormente, evolvendo la visione iniziata con il primo Gran Turismo. In definitiva, ad un prodotto tecnologicamente avanzato viene spesso insindacabilmente riconosciuta una preferenza, un valore maggiore rispetto alle offerte precedenti. E si tratta di giudizi di quella stessa critica di settore che dovrebbe stabilire paradigmi critici partendo dai videogiochi realizzati.
A questo punto è possibile chiedersi: muta forse il complessivo giudizio attuale su di un gioco tecnologicamente datato sapendo che il game designer, se non fosse stato limitato dalle risorse hardware disponibili, avrebbe certamente creato qualcosa di migliore?
Assolutamente no.
Il Producer/Director Kazunori Yamauchi di Polyphony Digital, non sente forse d’essersi avvicinato maggiormente alla sua visione videoludica originaria di Gran Turismo grazie a PlaysSation 2 piuttosto che la sua sorella anziana? E se avesse potuto, non sarebbe riuscito a realizzarla prima?
Assolutamente si.
Agli occhi dei videogiocatori di oggi Gran Turismo 2 rimane un gioco graficamente limitato, superato dal punto di vista simulativo, capace di far sorridere non senza una certa ironia nel vederlo “girare” su di una piattaforma obsoleta, dimentichi del tempo nel quale si era creduto fosse il massimo paradigma di simulazione possibile.
Di contro, nessun critico sconsiglierebbe di fruire della Natura morta con vaso di zenzero I di Piet Mondrian – del 1911 (fig.3), solo perché lo stesso autore ha prodotto una Natura morta con vaso di zenzero II del 1912 (fig.4).



(fig.3)________________________(fig.4)

(fig.3) – Natura morta con vaso di zenzero I – Piet Mondrian 1911
(fig.4) – Natura morta con vaso di zenzero II - Piet Mondrian 1912


Seppure la seconda produzione dell’artista olandese sembri più povera, più recente cronologicamente ma meno immersiva rispetto allo pseudo-realismo della prima, essa ha potuto godere di una propria autonomia interpretativa, svincolata dalle influenze della convivenza con il segno autoriale grafico antecedente.
Normalmente, gli artefatti artistici non videoludici di uno stesso genere atti a divenire oggetto di critica convivono assieme nel tempo senza calpestarsi i piedi vicendevolmente.
Se è vero che PlayStation 2 può far “girare” Gran Turismo 2 e 4, e che quindi anche questi artefatti possono convivere assieme nel tempo (leggasi giocati) e appartengono al medesimo genere (racing simulativo), difficilmente possedendo entrambi i titoli si tende a giocare con il più datato.
Artefatti artistici quali pittura, musica, scrittura e architettura, visti sotto il profilo critico, convivono assieme senza problemi, e la critica li valuta e ne consiglia la fruizione focalizzandosi sul godimento che questi procurano.
Se i critici videoludici invece difficilmente consiglierebbero di videointeragire con un prodotto datato rispetto ad uno temporalmente più vicino al momento critico attuale è perché lo specifico dell’interattività, delle immagini in movimento, dell’intelligenza artificiale o dell’audio nei videogiochi diviene più coinvolgente con il migliorare della tecnologia che ne è alla base.
In altri termini, la tecnologia infrange lo status quo sul quale potrebbe definitivamente stabilirsi un’espressione artistica autoriale compiuta, con relativo disagio critico legato allo sforzo teso alla ricerca di principi estetici paradigmatici.

Tutto ciò comporta che le opere videoludiche nate in diversi punti temporali dell’evoluzione tecnologica tendono a primeggiare/sopprimersi secondo una selezione naturale il cui elemento selettivo viene inoculato dallo stesso progresso tecnologico, costringendo a proiettare nel tempo, sempre più in là, il definirsi di una data opera artistica compiuta, a scapito di eventuali principi estetici paradigmatici di analisi critica.
Domanda: Come possono stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati pensando alle opere videoludiche che tentano di svilupparsi continuamente, cercando di rincorrere una stabilità dei propri specifici quali ad esempio estetica digitale e interattività?
E ancora:
È legittimo quindi supporre che gli artefatti di un medium in continua evoluzione sappiano far storcere il naso al sistema critico non videoludico, al pensiero di dover istituire principi estetici paradigmatici basati sulla palese verità che il medium ludico video-interattivo non ha alcun pudore ad assimilare, digerire ed infine evacuare se stesso nel tempo?

Si torna quindi al punto iniziale: Potrebbero mai stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati quando il progresso tecnologico tende ad evolvere i paradigmi autoriali sui quali potrebbe definirsi una data espressione artistica compiuta?

La risposta ovvia potrebbe essere soltanto una, ed è naturalmente utopistica: solo quando la tecnologia applicata in ambito videoludico deciderà di arrestarsi, consolidandosi per sempre.
Sarà forse PlayStation 10? X-Box Infinity? Nintendo ForEver?
Qualunque essa potrebbe essere, dovrà risultare assimilabile a una mente, a un intelletto umano virtualmente (in entrambe le accezioni) scevro da inibizioni tecno-dipendenti da suscitare nel game designer l’idea (o l’illusione) d’aver specchiato totalmente, in un dato artefatto, la propria visione senza limiti di sorta.
Ciò che è possibile fantasticare è che con il progressivo aumento della potenza computazionale, disponendo in potenza di risorse di calcolo virtualmente infinite, di tool di sviluppo incontestabili nonché di un hardware non umanamente/totalmente sfruttabile/esauribile, potrebbero crearsi le premesse per una base espressiva completa, totale, libera, scevra da compromessi riguardo la visione autoriale e la sua relativa implementazione in ambito ludo-interattivo.
Accostando un tale mostruoso hardware alle infinite possibilità espressive della mente umana, finalmente liberata dal gioco del limite tecnologico, ciò permetterebbe a qualsiasi sistema critico di stabilire una tassonomia più sicura, stabile, istituzionalizzata, annoverando tranquillamente i videogiochi quali nuovi oggetti d’arte con i propri specifici stabiliti, per i quali l’inesistenza di limiti in grado di soddisfare qualsiasi visione umana risulterà un fattore base sulle quali instaurare tassonomie artistiche video-ludiche più sicure.

A quel punto probabilmente si ricomincerà a rivalutare, con rinnovata attenzione, il genio di molte passate opere videoludiche, ma non come è avvenuto per tanti quadri, musica o libri pionieristici che al loro tempo sono stati ripugnati dal sistema critico data l’avanguardia visionaria che essi rappresentavano, bensì come tentativi sperimentali in ambito elettronico di pseudo artisti tesi ad approcciare con le risorse disponibili per ottenere un risultato interattivo quantomeno compiuto, ma dietro il quale la visione autoriale è risultata sempre azzoppata, limitata.
Basti pensare che ciò che viene ben riaccolto e osannato dalla critica dopo anni di processi, di stroncatura e censura, come avviene appunto per quadri, libri o cinema, non accade invece per i videogiochi. A prescindere da quanto i critici di professione siano in grado di applicare “principi paradigmatici” nel valutare artisticamente un artefatto artistico, nel primo caso la visione del fruitore, attualizzata nel proprio contesto socio-politico, diviene “pronta” nell’inglobare e assimilare la visione preconizzatrice dell’autore, senza che questo venga minimamente sfiorato da una delegittimazione nella sua libertà visionaria.
I videogiochi recenti devono necessariamente essere fruiti al momento tecnologico attuale, performati da piattaforme presenti nel mercato, dietro un marketing asfissiante ad hoc, e facendo proprio dell’invasività del progresso tecnologico un motivo di distinzione, celando molto spesso, dietro tale progresso, la tendenza al mero aggiornamento di un prodotto secondo i gusti dei possessori delle piattaforme (I videogiochi sono servizi – possiedono un carattere artistico – sono un medium eccessivamente mainstream… Kojima) – riproponendo spesso visioni artistiche proposte solo pochi mesi prima, offrendo sì al fruitore un incremento qualitativo da assimilare, ma spesso solo e puramente sotto il profilo estetico.

Sino a quando l’arte video-interattiva dovrà esprimersi facendo i conti con i progressi della tekné, la scienza tecnologica (ignorando che questa parola esprimeva un tempo una prassi affine all’arte) senza trascenderla come invece la mente umana può artisticamente attuare su di un muro anche con una pezzetto di selce appuntita, il problema potrebbe continuare a sussistere.
L’aggiornamento tecnologico rende esteticamente vetusto ogni hardware/tavolozza di possibilità precedenti, pressando affinché siano spostati i principi estetici paradigmatici autoriali sempre un po’ più in là, con conseguente necessità di ridefinizione del medium, lasciando scoprire di volta in volta quanto asfissiata dalle risorse disponibili fosse la visione del game designer/artista della precedente generazione.
Dovrebbero essere gli stessi game-designer ad affermare dopo la pubblicazione delle proprie opere “Ecco, sono soddisfatto! Era esattamente quello che volevo realizzare, esteticamente e strutturalmente!", infischiandosene di quali possano essere al momento i giudizi estetici paradigmatici in voga o quanto la propria possa essere una espressione artistica compiuta.

Ma quale vero game-designer, in cuor suo, non si è mai rammaricato del fatto che, se solo avesse potuto aggiungere quel TOT in più avrebbe tentato di spostare la propria visione un po’ più in là?

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