28 novembre 2006

Gears of War: Meccanismi di Saccheggio in Singolo Giocatore.

My Opinion
(di Luigi Marrone)
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Può raggiungere quota 150 euro su Ebay, forse anche oltre. Possiedo il board-game Space Crusade dal 1991, scatole miniature e tutto il resto attualmente riposti sopra un armadio, inviolati da anni.
Il disegno del comandante Marcus Fenix sulla cover del gioco mi ricordava troppo il comandante Space Marine sul package cartonato del gioco da tavolo, preludio sintomatico di un'analisi inevitabile. Prima del tuffo analitico é bene spendere 2 parole sull’estetica grafica di Gears of War, elemento d'impatto soverchiante qualsiasi giudizio, una vera occulta pianificata strategia i cui effetti sul gamer diventano una instupidente conseguenza.
Per un possessore di Xbox 360 è difficile oggi esimersi dall’incontro con il tanto strillato primo vero prodotto next-generation, come non ho potuto fare io, ad esempio.
Attualmente in fase di re-play in modalità Difficile dopo il primo giro con la “Casuale” (traduzione italiana dell’americano Casual), vuoi per aumentare gli Achievements Points, vuoi per trovare tutte le 30 piastrine Cog, vuoi per ficcarmi bene nell’anima gli ambienti grafici, Gears Of War si sta lasciando bellamente rigiocare poiché Gears Of War è IL gioco mass-market del momento, Gears of War è IL gioco On Line del momento, Gears of War è IL gioco cazzuto di oggi, nonostante Gears of War sia un metozzo di ibridi cliché che nulla aggiungono narrativamente/fantascientificamente/hollywoodianamente a quanto non si sia già potuto assistere in passato.
Suggestioni d’ambiente da Halo a Doom, Locuste al posto di Covenant e soldati COG (Coalition of Ordered Governments) detti Gears al posto dei marines spaziali della U.A.C, mentre Kojima afferma, non insensatamente, che i videogiochi sono pensati oggi come servizi, idee implementate come un servizio ai videogiocatori: servizi on-line, servizi multiplayer in co-op, servizi igienici… persino la calibrazione della difficoltà rientra nella categoria del servizio. In definitiva, i videogiochi mass-market oggi sono come servizi per l'entertainment, servizi per il divertimento forniti all’utente, che pur NON-chiedendoli esplicitamente se li ritrova, li ottiene dietro corrispettivo.
E’ davvero ciò che si vuole? La qualità dei prodotti videoludici deriva per buona percentuale dalla conseguenza dei mass-market generati dai videoplayers?
Questo non cambia le carte in tavola: in Gears of War si è già stra-visto tutto tutto tutto.
Ma é nella grafica next-gen e nelle meccaniche/gears di gioco che si respira la differenza dal resto del mondo. Cliff Bleszinski detto CliffyB, Lead Designer di Epic Games per Gears of War si ritrova così a giocare a softball sparando e riparandosi per non farsi colpire da colorate palline leggere, decidendo poi di riproporre la medesima sensazione di urgenza di fuoco e copertura in un videogame, implementandola perfettamente. L’apparato conseguente alla post Microsoft analisi del pop-market-appeal mondiale genera Gears of War, dove si finisce col nascondersi, ripararsi, attendere il momento per uscire e poi sbattere nuovamente la schiena al muro, di colonna in colonna, da divano a divano, capriolando a destra e sinistra per uno spettacolo all-action in HD mentre tutto intorno, durante i 5 atti che percorrono la storia, uno spettacolo visivo di scenari esterni ed interni pompano l’immersione virtuale ingenerando a pié sospinto l’idea di stare drogandosi di GenerazioneNuova.
E così l’urgenza action preme contro il tempo, non si ha la ICO calma giusta per ammirare il paesaggio intorno, Dominique, Cole e Beard reclamano pure-action e quindi c’è da avanzare, avanzare e avanzare dentro i 5 Atti dei Vangelo secondo i COG.
Ma dopo qualche giorno la sbronza grafica vola via, immancabilmente. E ci si accorge di quanto Gears of War sia narrativamente caratterizzato da quasi zero momenti memorabili. Tutto il comparto ludo-narrativo è corri/nasconditi/spara/aggira/corri, mentre l’in più fondante, l’anima truffaldina del videogiocare è mera spettacolarizzazione di un gameplay arcade. Sotto i riflettori ci si accorge che la chiave di volta del game design tratta della sinergia fra 2 elementi assoluti: impianto estetico in grado di generare pulsione galvanica al coinvolgimento sensoriale e appeal bellico rozzo, cazzuto e metal nerboruto, buono a creare la colonna portante di un perfetto ludo meccanismo algebrico, un Gear of Ludus.
Risultato? In Single Player, alle porte della nuova generazione, ci si può dunque permettere di tralasciare gli impreziosimenti ludici e narrativi grazie al sensuale contraltare della bellezza virtuale degli ambienti.
Gears of War é chiusura ed ermetismo, riparo tattico, ricarica attiva, fuoco!: war zones calcolate ad hoc, battlefields generati dentro congeniali scenari interni ed esterni totalmente obbligati a sfociare verso compartimenti bellici stagni ove a voler tentare il backtracking, superato uno dei tanti Punti di Sosta, ci si accorge che dove prima v’era l’apertura dalla quale si é passati si é ora materializzata una barricata d’assi legnose, porte ermetiche, mucchi gibbosi di rocce occlusive, mentre Gears Of War spintona a procedere, a falciare, a tralasciare obiezioni e appunti sino all’epilogo fra i Pezzo di Merda e i Vaffanculo e i dialoghi rudocazzuti dei soldati della coalizione immersi fino al collo in cliché narrativi, senza mai nessun kojimiano guizzo giocoso, senza nessuna cerebrale sorpresa, no Toyama alternative ending.
Gears of War si celebra chiuso, chiuso e chiuso.
Non prima che siano sfilati in passerella l’oscuro boss finale, il ragno gigante, lo scontro sul treno in corsa, la jeep corazzata per fuggire… essì, queste cosette oggi devono esserci perchéssì.
Si prosegue testardi e imperterriti all’ammazzo&go dentro ambienti grafico-stordenti, perché CliffyB ha viaggiato in Europa con lo sguardo apocalittico, CliffyB mentre era a Londra ha avuto visioni, “epifania” come le chiama lui, la Destroyed Beauty, la Bellezza Distrutta di CliffyB riproposta dappertutto, in varchi di una futura Europa in decadenza, dentro squarci di una Venezia bombardata, nel ventre di un salotto ottocentesco sfregiato dalla guerra, nei rosoni e nelle raggiere frantumate, gli archi e le volte, le cancellate… diomio, è l’Apocalisse.
Gears of War, decadenza di un’incredibile bellezza artistico-architettonica contestualizza ad un 3rd person shooter, ardore grafico che inebria e soggioga le ardenti e scafate comunità, malgrado chiunque potrebbe affermare che i ciechi Berserker sono versioni potenziate e pompate ma molto meno inquietanti dei Garradors di Resident Evil4, che Marcus Fenix spalanca la porta a calci come Leon Kennedy e che l’operatore di camera piazzatogli dietro dalla Epic Games utilizza la medesima inquadratura del cameramen Capcom appollaiato dietro lo stesso Leon…
Il lavoro di saccheggio e rimaneggiamento del cut&paste sconfina oltre il virtuale, la silhouette dei soldati della coalizione ricorda infatti la pesantezza e l’immaginario cazzuto delle miniature del gioco da tavolo Space Crusade (StarQuest in Italia, 1990, Hasbro International - distribuito da MBGiochi in collaborazione con Games WorkShop), così come nel videogioco derivato, prodotto dalla Gremlin Software che ne ha rilasciato una versione per Atari ST, Amiga, Spectrum ZX, Commodore 64 e Amstrad nel 1992, le armi dei Marines Spaziali che al tempo erano Cannone D’Assalto, LanciaRazzi, Fucile al Plasma, Bolter… in Gears Of War divengono Pistola Snub, Fucile d’Assalto Lancer, Fucile Gnasher, Granate e Martello dell’Alba (una sorta di pistola satellite-collegata in grado di sparare dall’alto un micidiale raggio laser).
Gears Of War é That’s America videoludico pout-pourri ultra rimasticato ove tralasciando appeal bellico e coperture pseudo-tattiche degli scenari é già stato detto tutto tutto tutto. Persino il droide astro-meccanico di nome Jack che viene in soccorso a dissaldare porte sa rispondere solo con beep sintetici rubati a C1-P8. E poi ancora risonatori da attivare per scaricare mappe di nascondigli nemici, scontro su treni in corsa, sentinelle anti-uomo come le meduse metallico-tentacolari di Matrix… tutto questo mentre il mondo impatta contro una stupefacente cosmesi, piena di strizzata d’occhi crassa e americana, post Halo e post Doom, costringendo in tal modo a farsi perdonare la manciata di mezz’orette per vederne la fine o l’aggiornamento di texture durante le FMV, eternamente dissimulando l’impietoso saccheggio nascosto dietro lo sbalordimento visivo.
Escludendo l’on line 4VS4, vero e proprio zucchero infinito, vien da pensare che il single player di Resident Evil4 sia necessariamente importante di più.
A mio Electronic Self parere, s’intende.

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