Tecnologia e moralità del Cyberspazio: Internet, religione, cinema e videogames.
Una libera riflessione sull’oggi
(di Luigi Marrone)
Una libera riflessione sull’oggi
(di Luigi Marrone)
Saggio pubblicato su Videoludica il 05/05/07 - scaricabile in PDF
Lo sviluppo tecnologico degli ultimi 30 anni ha ridisegnato/ridefinito il rapporto dell’uomo con le macchine nonché il rapporto fra l’uomo e i suoi simili operando trasformazioni ormai da chiunque facilmente ravvisabili: dalle più semplici suggestioni estetiche alle più svariate applicazioni professionali, la tecnologia ha difatti invaso diverse categorie dello scibile umano.
Un aspetto attuale ancora da analizzare verte su quanto la pervasività tecnologica degli ultimi anni abbia finito con l’insinuarsi fra l’uomo e la religione, innestandosi moralmente in quest’ultima categoria sino a ridisegnarne un profilo contemporaneo.
Una delle tesi dalla quale nasce la seguente riflessione tende ad affermare che la sempre più diffusa versatilità tecnologica degli ultimi anni ha progressivamente incrementato la discrezione del tecno-utente nel risolvere in sé la sublimazione di quelle istanze di carattere morale solitamente rimesse all’interesse religioso.
Non è tabù ad esempio affermare che le visite quotidiane su siti dai contenuti espliciti sia testimone lampante di tale tendenza: successivamente alla diffusione di Internet e alla versatilità della Navigazione in Rete, le nuove tecnologie hanno comportato la fruizione di contenuti espliciti su siti adults only di pari passo con la diffusione di navigazioni on line user-friendly, grazie alla possibilità di connessioni sempre più veloci e la riduzione dei costi di periferiche hardware sempre più performanti.
In uno scenario tecno-pervasivo come quello attuale, il Personal Computer può essere oggi considerato il maggiore espediente tecnologico atto a legittimare la consultazione volontaria di contenuti digitali espliciti, a cui vanno ad aggiungersi le varie funzioni di impiego di macchine fotografiche digitali, Webcam e la relativa condivisione di immagini, video e testi attraverso la creazione di Web blog gratuiti, tralasciando inoltre tutti gli altri sistemi di registrazione, archiviazione, trasmissione e condivisione di contenuti digitali.
Qualsiasi utente di Personal Computer ha oggi la possibilità di servirsi dei più disparati sistemi tecnologici per operare su se stesso, in ambito virtuale, una mimesi completa, buona a mascherare la propria identità/immagine durante la fase di ricerca, condivisione e fruizione di contenuti espliciti, in accordo con la salvifica preservazione del proprio anonimato.
La domanda quindi è la seguente:
E’ legittimo supporre che l’assenza e la non identificabilità di un corpo fisico operante in un contesto virtuale video-interagibile finisca col disinibire la pulsione morale dell’utente nel momento in cui si presenta la possibilità di assecondare un determinato desiderio scopico?
Così come affermato dalla Bibbia, il primigenio tentativo di mimesi volontaria dell’uomo risale alle figure bibliche di Adamo ed Eva le quali, successivamente all’aver fruito del frutto proibito della Conoscenza, possono divenire oggi metafora del peccare virtuale (solitamente realizzata nel tentativo di preservare il proprio anonimato agli occhi del mondo off-line).
Traslando tale dinamica in ambito dell’utilizzo delle nuove tecnologie, il Serpente Tentatore può essere oggi rintracciato sotto le forme di un ente psico-tecnologico in grado di insinuarsi nella mente umana attraverso le possibilità di impiego offerte dalla mediazione della Rete e delle tecnologie esistenti.
In uno scenario mediale sempre più pervasivamente scopico, e parlando in modo congenialmente favorevole per le figure bibliche di Adamo ed Eva, il frutto della Conoscenza dato dai contenuti espliciti è divenuto oggi un impercettibile clic di mouse nel mare magnum di milioni di altri utenti, atto a solleticare l’anonimo scrutare mediante l’occulta preservazione dell’identità degli stessi.
Se esiste un calo nella fruizione di riviste cartacee o di ingombranti VHS da celare sotto quotidiani durante il tragitto dal chiosco dei giornali ad un ipotetico luogo di consultazione privato, ciò è principalmente dovuto alle possibilità di mimesi offerta dallo sviluppo tecnologico.
Internet, il cyberspazio o gli spazi virtuali persistenti come Second Life, hanno per loro natura il potere di mirare all’introversione dell’utente, intimandolo a traslare sul piano virtuale quegli atti che in passato avevano da manifestarsi quantomeno sul piano fisico, incensando in tal modo la disinibizione di quel pudore proprio di determinati volontari utenti.
Le tecnologie moderne possono considerarsi quindi omo-sostitutive: Internet ha comportato la diminuzione di soggetti fisici che fungono da intermediari di transazioni, nonché la mancanza del bisogno di spazi fisici nei quali occultare pubblicazioni e/o supporti di visione dai contenuti espliciti.
Il risultato? Sempre meno possibilità all’uomo di essere moralmente testimoniabile dal prossimo, con tutto il conseguente carico di risultanti psico-sociali.
Tornando in ambito religioso, la prerogativa di uno spazio fisico ben determinato (Chiese, sinagoghe, ecc) prima di Internet era condizione inoppugnabile per qualsiasi individuo religiosamente attivo. La nascita di CyberChurch, che mediante WebCam rendono possibile seguire da casa i servizi religiosi comunitari, ha operato una sacralizzazione dello spazio puramente virtuale inoculando la dimensione del sacro all’interno di quella digitale.
La St. John Internet Church ad esempio é una chiesa indipendente che opera unicamente on line, per la quale è possibile svolgere una comunione on line semplicemente utilizzando Internet e la propria tastiera (www.religionnet.com).
Analogamente, presso un sito che si dichiara aderente alla comunità delle Chiese Anglicane (www.theconfessor.co.uk) è possibile confessarsi attraverso internet.
Tuttavia il più completo tentativo di uso del cyberspazio quale spazio per celebrazioni religiose proviene da gruppi che si richiamano alla variegata galassia del neopaganesimo. Sono gruppi che, sotto una vasta serie di definizioni (tecnopagani, tecnosciamani, tecnowicca o altro ancora) sono soprattutto diffusi nell’area nordamericana.
In questa occulta e dinamica contaminazione offerta da un tale scenario è interessante analizzare la funzione ricoperta da uno dei protagonisti delle nuove tecnologie.
Nato nel 1956 da un prototipo ideato da IBM, l’Hard Disk (anche detto disco rigido, Hard Drive) può essere oggi considerato il privilegiato tecno-testimone delle pulsioni morali dell’utente in ambito digitale.
Entità tecno-conservatrice per propria ontologica natura, esso è l’equivalente metaforico di una memoria puramente archiviante. Contenuto in un Case Tower che può assumere svariate dimensioni, l’Hard Disk possiede quella congeniale neutralità, impensabile per qualsiasi essere umano, nel registrare le tracce morali del proprio utente divenendo potenzialmente una fredda e inoppugnabile prova dei suoi orientamenti spirituali.
Formattare un Hard Disk e/o cancellare precisi dati di valore morale equivale oggi ad eliminare dal mondo i segni di un percorso spiritual-digitale, a volte involontario (a causa di virus/spam, ecc), ma molto più spesso contenente i residuati e le tracce di precisi, volontari passaggi di rilevanza morale.
In altri termini, la prassi di formattazione/cancellazione di un Hard Disk equivale all’eliminazione di prove di valore morale, solitamente interessate dalla religione, da una coscienza puramente meccanico-digitale.
In ambito religioso cristiano la confessione, sacramento di penitenza solitamente operato dalla chiesa attraverso i propri rappresentanti, presume generalmente una archiviazione di fatti (dati) di tipo umano per i quali il confessore risulti testimone registrante nella propria memoria dei percorsi morali di un altro essere umano. Durante tale prassi il fatto confessato subisce una sublimazione spirituale nel passaggio dialogico/verbale dal sacerdote al fedele, che presumibilmente, mediante un sincero pentimento, solleva quest’ultimo dal peso morale del proprio peccato.
Nel film The Order di Brian Helgeland (in Italia La Setta Dei Dannati – Twentieth Century Fox - 2003), viene messa in luce la figura del Mangiatore di Peccati (Sin Eater), un uomo immortale in grado di accogliere-archiviare dentro sé i peccati di quelle anime che non possono o non vogliono confessarsi, in tal modo salvandole e liberandole dal giogo della eterna dannazione. La pellicola ipotizza che il Sin Eater, nel momento del rituale di trasmigrazione dei peccati da un’anima X alla propria, riviva interiormente la cronistoria del vissuto morale del “redento”, divenendone pienamente cosciente, quindi testimone, e sgravando globalmente lo stesso dal peso morale del proprio peccaminoso passato.
Condizione sine qua non, imprescindibile affinché la prassi avvenga, è data dall’Assoluzione, vera e propria sentenza che normativamente deve avvenire in presenza fisica del confessante.
C’è da dire che per un Internauta che volesse oggi confessarsi da casa tramite Internet, successivamente alla propria contrizione, viene dato da riempire un modulo nel quale scrivere l’accusa dettagliata e completa dei propri peccati. Per ricevere invece l’Assoluzione vera e propria è normativo recarsi in Chiesa per riceverla direttamente dal confessore.
L’impossibilità di eseguire il suddetto sacramento in assenza di presenza in personam del confessante rende spiritualmente inattiva la Confessione, così come ribadito dal Vaticano.
Tornando a trattare dell’influenza operata dalle nuove tecnologie, non è difficile ipotizzare quanto oggi il Cyberspazio possa aver operato da incentivo nell’incrementare la malafede degli Internauti. L’umana necessità di confessare la peccaminosità di propri atti e pensieri, generata ad esempio dalla dubbia moralità di determinati contenuti visionati, ha subito cambiamenti fondamentali. L’auto giustificazione rimessa ad un Internauta, unico testimone fisico della propria debolezza morale, tende facilmente ad ingannarlo/illuderlo, in totale malafede appunto, che la rispettabilità morale nel mondo Out-Line gli possa essere concessa eliminando le prove del proprio peccaminoso scrutare/operare attraverso un auto assolvimento permessogli dalla cancellazione delle proprie tracce dentro l’unica entità ad egli esterna in grado di testimoniargli contro:
il proprio Hard Disk.
In altri termini, attraverso una prassi di tipo informatico, trattandosi di contenuti eliminabili puramente digitali, che sia facilmente possibile estromettere la propria coscienza/volontà dalle ipotetiche conseguenze legate al peso morale del proprio fruire.
Il pentimento morale viene così sublimato con un atto puramente tecnico, vale a dire la serie di processi informatici che inducono alla cancellazione delle pagine Web visitate, dei blog anonimi dietro i quale si celano i pensieri e/o immagini dell’utente promotore, nonché dei file dai contenuti espliciti, più volte volontariamente fruiti e/o quindi colpevolmente ricercati.
In definitiva, è come se in assenza di una mente umana potenzialmente testimone del proprio agire il virtuale operasse una deligittimazione dei contenuti di coscienza morali, a maggior ragione dato che il supporto di registrazione, entità meccanica, ferro-magnetica e non-spirituale, risulta quale perfetto alibi discolpante.
In tale prospettiva é lecito dunque affermare che la pervasività tecnologica degli ultimi anni, oltre ad aver modificato i rapporti psico-socio-culturali fra gli uomini, ha inoltre operato sensualmente col modificare le relazioni canoniche fra l’Uomo e l’universo normalmente interessato dalla Religione.
Di conseguenza, il rapporto dell’uomo con la sfera del divino.
I Videogiochi sono un CyberSpazio morale?
Attraverso il manga Ghost in The Shell (Shirow Masamune, 1991 Kodansha Ltd., Tokyo), l’autore del fumetto al quale è ispirata l’omonima serie televisiva nonché vari lungometraggi, avanza la volontà di dimostrare che l’anima sarebbe un software, e che la biologia sarebbe solo una forma di tecnologia particolarmente complessa.
Tale pretesa troverebbe il conforto dell’alta informatica, applicata o meno ad aree bio-tecnologiche, per la quale é già stato provato che programmi complessi basati su reti neurali mostrano una tendenza ad evolvere in modo molto simile a quella degli organismi viventi, in armonia con la stessa teoria evoluzionistica di Darwin.
Da ciò si potrebbe affermare che mettere il software sullo stesso piano delle creature viventi sia un passo azzardato, ma per Masamune, essendo tutte le entità viventi codificate dal DNA, esse possono essere liberamente paragonate a softwares, a programmi per computer.
Secondo tale prospettiva infatti il DNA sarebbe nient’altro che un codice sofisticato contenente informazioni sulla struttura degli organismi, cervello incluso.
Nel suggestivo scenario della serie animata, Ghost è il termine colloquiale slang per riferirsi alla mente o all’essenza di un essere. La società futuristica di Ghost in the Shell ha scientificamente ridefinito l'"anima" come quella cosa che differenzia un essere umano da un robot biologico. Indifferentemente da quanto materiale biologico venga rimpiazzato con sostituti meccanici o elettronici, fintantoché un individuo mantiene il suo Ghost mantiene la sua umanità ed individualità.
Nel lungometraggio Ghost In The Shell 2: Innocence (di Mamoru Oshii – 2004, in Italia malamente ribattezzato con L’Attacco dei Cyborg), stando alla visione del regista veniamo ad apprendere come la Rete, la Matrice, il CyberSpazio (inteso come il futuro dell’attuale Internet) siano fondamentalmente un piano spirituale quanto quello “Off line”.
Il film ipotizza che se l'anima è un software, ciò comporta che un qualunque luogo di accumulazione di dati (Internet par excellence, ma anche un semplice Hard Disk) può ospitare un'anima, uno spirito, un fantasma (un Ghost, appunto).
La domanda è la seguente:
Essendo gli spazi videoludici meri spazi virtuali in grado di accogliere gli avatar dei gamers, vale a dire la loro parziale essenza pulsionale traslata/metaforizzata in un corpo/simulacro digitale che ne permette appunto la manifestazione, ed essendo l’anima la sostanza moralmente identificante l’individuo, è dunque lecito considerare moralmente l’agenza del videogiocatore all’interno di un videogioco?
Il videogioco, considerato da una tale prospettiva spirituale, è dunque uno spazio d’agenza morale?
Come detto in precedenza, operare in un contesto fisio-trascendente/fisico-occultante quale Internet, può lasciare naturalmente emergere la parte pulsionale normalmente più inibita dell’utente. A favore della dicotomia corpo-spirito quindi, è come se in assenza di corpo persista solo la componente spirituale più pura dell’uomo, quella essenzialmente e strettamente interessata dalle religioni.
A ben vedere ciò non risulterebbe idiosincratico con l’idea religiosa che il destino spirituale post-mortem dell’uomo, successivamente quindi alla trascendenza del proprio corpo fisico, possa essere determinato dalla natura e dal passato morale dello stesso, ma non è questo il punto di interesse.
Quello che sarebbe invece doveroso chiedersi è se ogni videogioco, comportando/operando essenzialmente una trascendenza del corpo fisico del videogiocatore, non possa risultare quindi un buon indice valutativo degli orientamenti morali dello stesso. Parliamo ad esempio della violenza rintracciabile in un First Person Shooter, dell’uccisione volontaria di un proprio compagno di squadra in un War Game, del divertimento di aprire il fuoco sugli innocenti NPC (Personaggi non giocanti), ecc.
In realtà, riflettendo in qualità di videogiocatore, ciò equivarrebbe a mistificare l’agenza offerta della ludica video-interazione.
Il videogioco è e rimane pur sempre un universo video-interagibile caratterizzato da proprie regole e da precise strutture di fondo, grazie alle quali all’utente viene rimessa una limitata possibilità di scelta assieme ai limiti di come performarla. Un tentativo di moralizzazione degli atti in game di un videogiocatore potrebbe avere luogo limitatamente a quanto questi possa sentirsi sinceramente e pienamente libero d’esprimere/assecondare le proprie sincere pulsioni attraverso il videogioco stesso. Dovrebbero essere l’intera anima, l’intera coscienza, l’intera presenza del gamer a specchiarsi all’interno dell’universo di gioco stesso, in totale oblio del fatto che si tratti di una realtà simulata.
Risulta tuttavia improbabile che in un First Person Shooter ad esempio, l’uccisione volontaria di un proprio compagno di squadra corrisponda realmente ad un istinto omicida puro, meta-ludico, e che sia indice incontestabile di pura malvagità (intesa in senso spirituale).
In un videogioco difatti il contesto è sempre pretestuoso all’agire, così come del resto il videogioco, pur annoverando in sé una tale possibilità fratricida, è interamente pretesto al videogiocare.
Data l’apparentemente inestirpabile demonizzazione alla quale i videogames sono soggetti, è possibile rielaborare gli assunti di cui sopra per approfondire altri aspetti, quali ad esempio il rapporto fra videogiochi e la sublimazione di pulsioni violente.
In questo caso è interessante riflettere su come la risultante pulsionale morale successiva alla pratica di un videogioco “disturbante” (che presenta quindi contenuti che presentano scene di violenza, linguaggio discriminatorio e volgare, ecc.) sia incomparabile a quella determinata successivamente alla visione di un film che presenti le medesime caratteristiche.
La mia personale opinione è che il videogioco operi socialmente una funzione di sdrammatizzazione e sdoganamento di temi normalmente considerati “espliciti/diseducativi/disturbanti”, molto più di quanto non possa attuare un film, ad esempio.
La visione cinematografica di atti umani rientranti nelle categorie morali del perverso, del trasgressivo, del sessualmente esplicito o del “malvagio” tratta sempre di elementi non-manipolabili dallo spettatore. Il rischio conseguente é dato dalla operatività di tali elementi nella sfera psichica, emotiva e spirituale dell’uomo, il quale non è escluso che possa percepirli, anche inconsciamente, alla stregua di statuti autonomi, di tesi inoppugnabili.
Volente o nolente, qualsiasi film propone una visione dietro la quale il mondo e l’esistenza vengono giudicati attraverso gli accadimenti del film stesso, nonché attraverso le forme che la moralità assume nei fatti narrati.
Il videogioco opera invece attraverso diversi fattori:
- Tensione a rendere l’utente un soggetto attivo verso il fenomeno in esso rappresentato;
- Indurre necessariamente a una pur minima analisi degli elementi testuali atta alla progressione nel gioco stesso;
- Sdrammatizzazione critica del testo (e di conseguenza della realtà off line del quale il gioco eventualemte informa) attraverso il gameplay e/o l’agenza permessa dallo stesso.
Senza nulla togliere al fatto che il videogioco possa informare l’utente dell’esistenza di tematiche presenti nella realtà off-game (moralmente positive o negative che esse siano), l’istigazione a simularle o ad operare in maniera immorale, punto nodale della demonizzazione di cui sopra, non potrebbe essere mai prerogativa di un medium che, al contrario del cinema, concede l’oppugnabilità dell’azione e il controllo della ludo-narrazione.
Controllo e manipolazione di elementi contestuali fanno dei videogames un composto di sub-strutture o sub-tematiche analizzabili/criticabili con più libertà, sicurezza e attività di un testo filmico, incensando notevolmente una conoscenza a-drammatica dei fenomeni di carattere morale.
Senza contare il rapporto mentale che si stabilisce fra Videogiocatore e Videogioco, e come questo influisca sulla cognizione dello stesso.
Anche in Single Player, il videogiocatore sa di non essere mai solo. L’universo con il quale sta video-interagendo è difatti impregnato da uno strutturale determinismo. Il videogiocatore è sempre cosciente del fatto che il Videogioco sta giocando con lui, stabilendo un ideale rapporto dialogico fra le visioni del game designer ed egli stesso.
Ciò che il game designer permette al videogiocatore di fare (come ad esempio la tanto demonizzata possibilità di uccidere una prostituta in Grand Theft Auto III) fa crollare l’aura dell’illecito (e la risultante psicologica) verso un atto moralmente sbagliato, trasformando qualsiasi accadimento in pura informazione di gioco.
L’illecito permesso/commesso nei Videogiochi diviene in tal modo un qualcosa di non morboso, di a-drammatico, in quanto inoltre legalizzato da una comunità di Videogiocatori cosciente di stare compiendo gli stessi atti videoludici, senzientemente.
Si tratta in questo caso di una prospettiva ben differente dalla fruizione privata/occulta e altamente discrezionale di una ricerca di elementi espliciti sul Web tramite Internet.
La sempre più diffusa fruizione di videogiochi On Line in modalità cooperativa (assieme ad altri utenti) nonché la comunicazione vocale fra VideoGiocatori via microfono durante le sessioni in comune, mettono effettivamente in contatto fisico gli utenti, incensando il dialogo critico rispetto alle immagini rappresentate ed elevando ancora più in alto il senso di sfida, dissipando la drammaticità del visualizzato.
E lecito quindi affermare che il videogioco abbia la precisa tendenza ad informare della propria realtà (che prenda a modello/rimandi al reale o meno) ai fini della sfida del gioco stesso, piuttosto che a moralizzarla decisamente, proponedo una visione digitale che ospiti l’utente ad una partecipazione attiva.
Le possibilità di scelta offerte dal gioco, con il proprio carico di relative conseguenze sul piano dello stesso, scongiurano l’assoggettamento al messaggio ludico attraverso una analisi necessariamente critica della propria performance e delle tematiche gioco-contestuali che essa solleva.
L’esito del gioco, che sia un game over o un determinato ending, non è dunque soverchiante quanto la tesi non manipolabile solitamente proposta, anche indirettamente, da un qualsiasi film: passiva partecipazione e attiva com-partecipazione non possono che operare sull’uomo suggestioni e conseguenze estremamente differenti.
Per quanto sopra riportato, in Italia risulta quindi oggi del tutto pretestuoso che, secondo le possibilità e le suggestioni attualmente offerte della video-interazione ludica, la demonizzazione del medium e la conseguente necessità di controllo contenuti e distribuzione venga più urgentemente sentita nei videogiochi stessi piuttosto che nel format di altri medium (cinema e Tv con tutto il loro carico esplicito di cronache e immagini drammatiche in onda ad orari familiari).
Il videogiocatore si diverte nella rappresentazione, o se si preferisce nella illusione dissimulata da rappresentazione. Divertimento e intrattenimento sono le chiavi del gioco, assieme ad una conoscenza a-drammatica permessa dal gioco stesso, per cui è assurdo credere che i messaggi videoludici mirino ad informare che l’uccisione di esseri umani, il consumo di droghe o gli incidenti mortali siano prassi ludiche nella realtà.
E’ inoltre mia convinzione affermare che in assenza dell’influenza sociale/culturale/psicologica degli universi video-ludo-interattivi, molti mostri generati dalla televisione tornerebbero a scuotere la sensibilità psichica degli infanti molto più di quanto non accada adesso (come invece accadeva un tempo), portandoli a credere sul piano reale alla loro operatività (fantomatica o meno), in quanto tutto ciò che rende passiva la fruizione, inibendo il controllo, viene cognitivamente percepito come drammatico, realtà soverchiante in quanto inoppugnabile.
Infine non è mai fuori luogo ricordare che l’inoppugnabilità di un film persiste oltre l’interattività dell’utente, dove il videogioco termina con la scelta di non proseguire il racconto ludo-narrativo, con la fine quindi dell’interattività del videogiocatore.
Ogni gamer può scegliere di interrompere la sessione ludica, operando in tal modo la propria autorità a dispetto della operatività fenomenica del gioco. La sfida lanciata dal gioco e gli obiettivi da raggiungere controbilanciano abbondantemente la drammaticità della narrazione, e smettendo di giocare il racconto ludico in tal modo non progredisce: il fenomeno corrisponderà virtualmente ad un non-accadimento, in quanto ogni videogiocatore sa che l’esito dipenderà solo dalla propria volontà di superare la sfida
Di davvero drammatico, per il vero videogiocatore, persiste solo la cocente disdetta di non aver portato a termine la sfida.
Il vero videogiocatore riprende un gioco lasciato a metà per tentare di “finire il gioco”, per quanto cruente possano essere le immagini in esso rappresentate, non per assistere ad un finale cinematografico che legittimi tutta la sua ludo-narrazione.
In definitiva qualsiasi obiettivo ludico è quello di superare la sfida proposta dal gioco, e questo è anche il maggior incentivo dei videogiochi per i quali l’agenza permessa dagli stessi rende protagonisti in un mondo salvificamente referenziale, dove il senso di autorità soverchia il dispotismo di un qualsiasi testo esclusivamente narrante.
Per tornare ad un paragone con l’impiego morale delle nuove tecnologie, il ruolo del videogiocatore nel gioco si fa voce dell’identità virtuale dell’utente stesso, una identità puramente funzionale al divertimento, non di una mimesi totale degna di trasformarsi in un alibi deresponsabilizzante.
Si tratta di due istanze ampiamente definite, ma per i motivi di cui sopra, altamente differenti.
Lo sviluppo tecnologico degli ultimi 30 anni ha ridisegnato/ridefinito il rapporto dell’uomo con le macchine nonché il rapporto fra l’uomo e i suoi simili operando trasformazioni ormai da chiunque facilmente ravvisabili: dalle più semplici suggestioni estetiche alle più svariate applicazioni professionali, la tecnologia ha difatti invaso diverse categorie dello scibile umano.
Un aspetto attuale ancora da analizzare verte su quanto la pervasività tecnologica degli ultimi anni abbia finito con l’insinuarsi fra l’uomo e la religione, innestandosi moralmente in quest’ultima categoria sino a ridisegnarne un profilo contemporaneo.
Una delle tesi dalla quale nasce la seguente riflessione tende ad affermare che la sempre più diffusa versatilità tecnologica degli ultimi anni ha progressivamente incrementato la discrezione del tecno-utente nel risolvere in sé la sublimazione di quelle istanze di carattere morale solitamente rimesse all’interesse religioso.
Non è tabù ad esempio affermare che le visite quotidiane su siti dai contenuti espliciti sia testimone lampante di tale tendenza: successivamente alla diffusione di Internet e alla versatilità della Navigazione in Rete, le nuove tecnologie hanno comportato la fruizione di contenuti espliciti su siti adults only di pari passo con la diffusione di navigazioni on line user-friendly, grazie alla possibilità di connessioni sempre più veloci e la riduzione dei costi di periferiche hardware sempre più performanti.
In uno scenario tecno-pervasivo come quello attuale, il Personal Computer può essere oggi considerato il maggiore espediente tecnologico atto a legittimare la consultazione volontaria di contenuti digitali espliciti, a cui vanno ad aggiungersi le varie funzioni di impiego di macchine fotografiche digitali, Webcam e la relativa condivisione di immagini, video e testi attraverso la creazione di Web blog gratuiti, tralasciando inoltre tutti gli altri sistemi di registrazione, archiviazione, trasmissione e condivisione di contenuti digitali.
Qualsiasi utente di Personal Computer ha oggi la possibilità di servirsi dei più disparati sistemi tecnologici per operare su se stesso, in ambito virtuale, una mimesi completa, buona a mascherare la propria identità/immagine durante la fase di ricerca, condivisione e fruizione di contenuti espliciti, in accordo con la salvifica preservazione del proprio anonimato.
La domanda quindi è la seguente:
E’ legittimo supporre che l’assenza e la non identificabilità di un corpo fisico operante in un contesto virtuale video-interagibile finisca col disinibire la pulsione morale dell’utente nel momento in cui si presenta la possibilità di assecondare un determinato desiderio scopico?
Così come affermato dalla Bibbia, il primigenio tentativo di mimesi volontaria dell’uomo risale alle figure bibliche di Adamo ed Eva le quali, successivamente all’aver fruito del frutto proibito della Conoscenza, possono divenire oggi metafora del peccare virtuale (solitamente realizzata nel tentativo di preservare il proprio anonimato agli occhi del mondo off-line).
Traslando tale dinamica in ambito dell’utilizzo delle nuove tecnologie, il Serpente Tentatore può essere oggi rintracciato sotto le forme di un ente psico-tecnologico in grado di insinuarsi nella mente umana attraverso le possibilità di impiego offerte dalla mediazione della Rete e delle tecnologie esistenti.
In uno scenario mediale sempre più pervasivamente scopico, e parlando in modo congenialmente favorevole per le figure bibliche di Adamo ed Eva, il frutto della Conoscenza dato dai contenuti espliciti è divenuto oggi un impercettibile clic di mouse nel mare magnum di milioni di altri utenti, atto a solleticare l’anonimo scrutare mediante l’occulta preservazione dell’identità degli stessi.
Se esiste un calo nella fruizione di riviste cartacee o di ingombranti VHS da celare sotto quotidiani durante il tragitto dal chiosco dei giornali ad un ipotetico luogo di consultazione privato, ciò è principalmente dovuto alle possibilità di mimesi offerta dallo sviluppo tecnologico.
Internet, il cyberspazio o gli spazi virtuali persistenti come Second Life, hanno per loro natura il potere di mirare all’introversione dell’utente, intimandolo a traslare sul piano virtuale quegli atti che in passato avevano da manifestarsi quantomeno sul piano fisico, incensando in tal modo la disinibizione di quel pudore proprio di determinati volontari utenti.
Le tecnologie moderne possono considerarsi quindi omo-sostitutive: Internet ha comportato la diminuzione di soggetti fisici che fungono da intermediari di transazioni, nonché la mancanza del bisogno di spazi fisici nei quali occultare pubblicazioni e/o supporti di visione dai contenuti espliciti.
Il risultato? Sempre meno possibilità all’uomo di essere moralmente testimoniabile dal prossimo, con tutto il conseguente carico di risultanti psico-sociali.
Tornando in ambito religioso, la prerogativa di uno spazio fisico ben determinato (Chiese, sinagoghe, ecc) prima di Internet era condizione inoppugnabile per qualsiasi individuo religiosamente attivo. La nascita di CyberChurch, che mediante WebCam rendono possibile seguire da casa i servizi religiosi comunitari, ha operato una sacralizzazione dello spazio puramente virtuale inoculando la dimensione del sacro all’interno di quella digitale.
La St. John Internet Church ad esempio é una chiesa indipendente che opera unicamente on line, per la quale è possibile svolgere una comunione on line semplicemente utilizzando Internet e la propria tastiera (www.religionnet.com).
Analogamente, presso un sito che si dichiara aderente alla comunità delle Chiese Anglicane (www.theconfessor.co.uk) è possibile confessarsi attraverso internet.
Tuttavia il più completo tentativo di uso del cyberspazio quale spazio per celebrazioni religiose proviene da gruppi che si richiamano alla variegata galassia del neopaganesimo. Sono gruppi che, sotto una vasta serie di definizioni (tecnopagani, tecnosciamani, tecnowicca o altro ancora) sono soprattutto diffusi nell’area nordamericana.
In questa occulta e dinamica contaminazione offerta da un tale scenario è interessante analizzare la funzione ricoperta da uno dei protagonisti delle nuove tecnologie.
Nato nel 1956 da un prototipo ideato da IBM, l’Hard Disk (anche detto disco rigido, Hard Drive) può essere oggi considerato il privilegiato tecno-testimone delle pulsioni morali dell’utente in ambito digitale.
Entità tecno-conservatrice per propria ontologica natura, esso è l’equivalente metaforico di una memoria puramente archiviante. Contenuto in un Case Tower che può assumere svariate dimensioni, l’Hard Disk possiede quella congeniale neutralità, impensabile per qualsiasi essere umano, nel registrare le tracce morali del proprio utente divenendo potenzialmente una fredda e inoppugnabile prova dei suoi orientamenti spirituali.
Formattare un Hard Disk e/o cancellare precisi dati di valore morale equivale oggi ad eliminare dal mondo i segni di un percorso spiritual-digitale, a volte involontario (a causa di virus/spam, ecc), ma molto più spesso contenente i residuati e le tracce di precisi, volontari passaggi di rilevanza morale.
In altri termini, la prassi di formattazione/cancellazione di un Hard Disk equivale all’eliminazione di prove di valore morale, solitamente interessate dalla religione, da una coscienza puramente meccanico-digitale.
In ambito religioso cristiano la confessione, sacramento di penitenza solitamente operato dalla chiesa attraverso i propri rappresentanti, presume generalmente una archiviazione di fatti (dati) di tipo umano per i quali il confessore risulti testimone registrante nella propria memoria dei percorsi morali di un altro essere umano. Durante tale prassi il fatto confessato subisce una sublimazione spirituale nel passaggio dialogico/verbale dal sacerdote al fedele, che presumibilmente, mediante un sincero pentimento, solleva quest’ultimo dal peso morale del proprio peccato.
Nel film The Order di Brian Helgeland (in Italia La Setta Dei Dannati – Twentieth Century Fox - 2003), viene messa in luce la figura del Mangiatore di Peccati (Sin Eater), un uomo immortale in grado di accogliere-archiviare dentro sé i peccati di quelle anime che non possono o non vogliono confessarsi, in tal modo salvandole e liberandole dal giogo della eterna dannazione. La pellicola ipotizza che il Sin Eater, nel momento del rituale di trasmigrazione dei peccati da un’anima X alla propria, riviva interiormente la cronistoria del vissuto morale del “redento”, divenendone pienamente cosciente, quindi testimone, e sgravando globalmente lo stesso dal peso morale del proprio peccaminoso passato.
Condizione sine qua non, imprescindibile affinché la prassi avvenga, è data dall’Assoluzione, vera e propria sentenza che normativamente deve avvenire in presenza fisica del confessante.
C’è da dire che per un Internauta che volesse oggi confessarsi da casa tramite Internet, successivamente alla propria contrizione, viene dato da riempire un modulo nel quale scrivere l’accusa dettagliata e completa dei propri peccati. Per ricevere invece l’Assoluzione vera e propria è normativo recarsi in Chiesa per riceverla direttamente dal confessore.
L’impossibilità di eseguire il suddetto sacramento in assenza di presenza in personam del confessante rende spiritualmente inattiva la Confessione, così come ribadito dal Vaticano.
Tornando a trattare dell’influenza operata dalle nuove tecnologie, non è difficile ipotizzare quanto oggi il Cyberspazio possa aver operato da incentivo nell’incrementare la malafede degli Internauti. L’umana necessità di confessare la peccaminosità di propri atti e pensieri, generata ad esempio dalla dubbia moralità di determinati contenuti visionati, ha subito cambiamenti fondamentali. L’auto giustificazione rimessa ad un Internauta, unico testimone fisico della propria debolezza morale, tende facilmente ad ingannarlo/illuderlo, in totale malafede appunto, che la rispettabilità morale nel mondo Out-Line gli possa essere concessa eliminando le prove del proprio peccaminoso scrutare/operare attraverso un auto assolvimento permessogli dalla cancellazione delle proprie tracce dentro l’unica entità ad egli esterna in grado di testimoniargli contro:
il proprio Hard Disk.
In altri termini, attraverso una prassi di tipo informatico, trattandosi di contenuti eliminabili puramente digitali, che sia facilmente possibile estromettere la propria coscienza/volontà dalle ipotetiche conseguenze legate al peso morale del proprio fruire.
Il pentimento morale viene così sublimato con un atto puramente tecnico, vale a dire la serie di processi informatici che inducono alla cancellazione delle pagine Web visitate, dei blog anonimi dietro i quale si celano i pensieri e/o immagini dell’utente promotore, nonché dei file dai contenuti espliciti, più volte volontariamente fruiti e/o quindi colpevolmente ricercati.
In definitiva, è come se in assenza di una mente umana potenzialmente testimone del proprio agire il virtuale operasse una deligittimazione dei contenuti di coscienza morali, a maggior ragione dato che il supporto di registrazione, entità meccanica, ferro-magnetica e non-spirituale, risulta quale perfetto alibi discolpante.
In tale prospettiva é lecito dunque affermare che la pervasività tecnologica degli ultimi anni, oltre ad aver modificato i rapporti psico-socio-culturali fra gli uomini, ha inoltre operato sensualmente col modificare le relazioni canoniche fra l’Uomo e l’universo normalmente interessato dalla Religione.
Di conseguenza, il rapporto dell’uomo con la sfera del divino.
I Videogiochi sono un CyberSpazio morale?
Attraverso il manga Ghost in The Shell (Shirow Masamune, 1991 Kodansha Ltd., Tokyo), l’autore del fumetto al quale è ispirata l’omonima serie televisiva nonché vari lungometraggi, avanza la volontà di dimostrare che l’anima sarebbe un software, e che la biologia sarebbe solo una forma di tecnologia particolarmente complessa.
Tale pretesa troverebbe il conforto dell’alta informatica, applicata o meno ad aree bio-tecnologiche, per la quale é già stato provato che programmi complessi basati su reti neurali mostrano una tendenza ad evolvere in modo molto simile a quella degli organismi viventi, in armonia con la stessa teoria evoluzionistica di Darwin.
Da ciò si potrebbe affermare che mettere il software sullo stesso piano delle creature viventi sia un passo azzardato, ma per Masamune, essendo tutte le entità viventi codificate dal DNA, esse possono essere liberamente paragonate a softwares, a programmi per computer.
Secondo tale prospettiva infatti il DNA sarebbe nient’altro che un codice sofisticato contenente informazioni sulla struttura degli organismi, cervello incluso.
Nel suggestivo scenario della serie animata, Ghost è il termine colloquiale slang per riferirsi alla mente o all’essenza di un essere. La società futuristica di Ghost in the Shell ha scientificamente ridefinito l'"anima" come quella cosa che differenzia un essere umano da un robot biologico. Indifferentemente da quanto materiale biologico venga rimpiazzato con sostituti meccanici o elettronici, fintantoché un individuo mantiene il suo Ghost mantiene la sua umanità ed individualità.
Nel lungometraggio Ghost In The Shell 2: Innocence (di Mamoru Oshii – 2004, in Italia malamente ribattezzato con L’Attacco dei Cyborg), stando alla visione del regista veniamo ad apprendere come la Rete, la Matrice, il CyberSpazio (inteso come il futuro dell’attuale Internet) siano fondamentalmente un piano spirituale quanto quello “Off line”.
Il film ipotizza che se l'anima è un software, ciò comporta che un qualunque luogo di accumulazione di dati (Internet par excellence, ma anche un semplice Hard Disk) può ospitare un'anima, uno spirito, un fantasma (un Ghost, appunto).
La domanda è la seguente:
Essendo gli spazi videoludici meri spazi virtuali in grado di accogliere gli avatar dei gamers, vale a dire la loro parziale essenza pulsionale traslata/metaforizzata in un corpo/simulacro digitale che ne permette appunto la manifestazione, ed essendo l’anima la sostanza moralmente identificante l’individuo, è dunque lecito considerare moralmente l’agenza del videogiocatore all’interno di un videogioco?
Il videogioco, considerato da una tale prospettiva spirituale, è dunque uno spazio d’agenza morale?
Come detto in precedenza, operare in un contesto fisio-trascendente/fisico-occultante quale Internet, può lasciare naturalmente emergere la parte pulsionale normalmente più inibita dell’utente. A favore della dicotomia corpo-spirito quindi, è come se in assenza di corpo persista solo la componente spirituale più pura dell’uomo, quella essenzialmente e strettamente interessata dalle religioni.
A ben vedere ciò non risulterebbe idiosincratico con l’idea religiosa che il destino spirituale post-mortem dell’uomo, successivamente quindi alla trascendenza del proprio corpo fisico, possa essere determinato dalla natura e dal passato morale dello stesso, ma non è questo il punto di interesse.
Quello che sarebbe invece doveroso chiedersi è se ogni videogioco, comportando/operando essenzialmente una trascendenza del corpo fisico del videogiocatore, non possa risultare quindi un buon indice valutativo degli orientamenti morali dello stesso. Parliamo ad esempio della violenza rintracciabile in un First Person Shooter, dell’uccisione volontaria di un proprio compagno di squadra in un War Game, del divertimento di aprire il fuoco sugli innocenti NPC (Personaggi non giocanti), ecc.
In realtà, riflettendo in qualità di videogiocatore, ciò equivarrebbe a mistificare l’agenza offerta della ludica video-interazione.
Il videogioco è e rimane pur sempre un universo video-interagibile caratterizzato da proprie regole e da precise strutture di fondo, grazie alle quali all’utente viene rimessa una limitata possibilità di scelta assieme ai limiti di come performarla. Un tentativo di moralizzazione degli atti in game di un videogiocatore potrebbe avere luogo limitatamente a quanto questi possa sentirsi sinceramente e pienamente libero d’esprimere/assecondare le proprie sincere pulsioni attraverso il videogioco stesso. Dovrebbero essere l’intera anima, l’intera coscienza, l’intera presenza del gamer a specchiarsi all’interno dell’universo di gioco stesso, in totale oblio del fatto che si tratti di una realtà simulata.
Risulta tuttavia improbabile che in un First Person Shooter ad esempio, l’uccisione volontaria di un proprio compagno di squadra corrisponda realmente ad un istinto omicida puro, meta-ludico, e che sia indice incontestabile di pura malvagità (intesa in senso spirituale).
In un videogioco difatti il contesto è sempre pretestuoso all’agire, così come del resto il videogioco, pur annoverando in sé una tale possibilità fratricida, è interamente pretesto al videogiocare.
Data l’apparentemente inestirpabile demonizzazione alla quale i videogames sono soggetti, è possibile rielaborare gli assunti di cui sopra per approfondire altri aspetti, quali ad esempio il rapporto fra videogiochi e la sublimazione di pulsioni violente.
In questo caso è interessante riflettere su come la risultante pulsionale morale successiva alla pratica di un videogioco “disturbante” (che presenta quindi contenuti che presentano scene di violenza, linguaggio discriminatorio e volgare, ecc.) sia incomparabile a quella determinata successivamente alla visione di un film che presenti le medesime caratteristiche.
La mia personale opinione è che il videogioco operi socialmente una funzione di sdrammatizzazione e sdoganamento di temi normalmente considerati “espliciti/diseducativi/disturbanti”, molto più di quanto non possa attuare un film, ad esempio.
La visione cinematografica di atti umani rientranti nelle categorie morali del perverso, del trasgressivo, del sessualmente esplicito o del “malvagio” tratta sempre di elementi non-manipolabili dallo spettatore. Il rischio conseguente é dato dalla operatività di tali elementi nella sfera psichica, emotiva e spirituale dell’uomo, il quale non è escluso che possa percepirli, anche inconsciamente, alla stregua di statuti autonomi, di tesi inoppugnabili.
Volente o nolente, qualsiasi film propone una visione dietro la quale il mondo e l’esistenza vengono giudicati attraverso gli accadimenti del film stesso, nonché attraverso le forme che la moralità assume nei fatti narrati.
Il videogioco opera invece attraverso diversi fattori:
- Tensione a rendere l’utente un soggetto attivo verso il fenomeno in esso rappresentato;
- Indurre necessariamente a una pur minima analisi degli elementi testuali atta alla progressione nel gioco stesso;
- Sdrammatizzazione critica del testo (e di conseguenza della realtà off line del quale il gioco eventualemte informa) attraverso il gameplay e/o l’agenza permessa dallo stesso.
Senza nulla togliere al fatto che il videogioco possa informare l’utente dell’esistenza di tematiche presenti nella realtà off-game (moralmente positive o negative che esse siano), l’istigazione a simularle o ad operare in maniera immorale, punto nodale della demonizzazione di cui sopra, non potrebbe essere mai prerogativa di un medium che, al contrario del cinema, concede l’oppugnabilità dell’azione e il controllo della ludo-narrazione.
Controllo e manipolazione di elementi contestuali fanno dei videogames un composto di sub-strutture o sub-tematiche analizzabili/criticabili con più libertà, sicurezza e attività di un testo filmico, incensando notevolmente una conoscenza a-drammatica dei fenomeni di carattere morale.
Senza contare il rapporto mentale che si stabilisce fra Videogiocatore e Videogioco, e come questo influisca sulla cognizione dello stesso.
Anche in Single Player, il videogiocatore sa di non essere mai solo. L’universo con il quale sta video-interagendo è difatti impregnato da uno strutturale determinismo. Il videogiocatore è sempre cosciente del fatto che il Videogioco sta giocando con lui, stabilendo un ideale rapporto dialogico fra le visioni del game designer ed egli stesso.
Ciò che il game designer permette al videogiocatore di fare (come ad esempio la tanto demonizzata possibilità di uccidere una prostituta in Grand Theft Auto III) fa crollare l’aura dell’illecito (e la risultante psicologica) verso un atto moralmente sbagliato, trasformando qualsiasi accadimento in pura informazione di gioco.
L’illecito permesso/commesso nei Videogiochi diviene in tal modo un qualcosa di non morboso, di a-drammatico, in quanto inoltre legalizzato da una comunità di Videogiocatori cosciente di stare compiendo gli stessi atti videoludici, senzientemente.
Si tratta in questo caso di una prospettiva ben differente dalla fruizione privata/occulta e altamente discrezionale di una ricerca di elementi espliciti sul Web tramite Internet.
La sempre più diffusa fruizione di videogiochi On Line in modalità cooperativa (assieme ad altri utenti) nonché la comunicazione vocale fra VideoGiocatori via microfono durante le sessioni in comune, mettono effettivamente in contatto fisico gli utenti, incensando il dialogo critico rispetto alle immagini rappresentate ed elevando ancora più in alto il senso di sfida, dissipando la drammaticità del visualizzato.
E lecito quindi affermare che il videogioco abbia la precisa tendenza ad informare della propria realtà (che prenda a modello/rimandi al reale o meno) ai fini della sfida del gioco stesso, piuttosto che a moralizzarla decisamente, proponedo una visione digitale che ospiti l’utente ad una partecipazione attiva.
Le possibilità di scelta offerte dal gioco, con il proprio carico di relative conseguenze sul piano dello stesso, scongiurano l’assoggettamento al messaggio ludico attraverso una analisi necessariamente critica della propria performance e delle tematiche gioco-contestuali che essa solleva.
L’esito del gioco, che sia un game over o un determinato ending, non è dunque soverchiante quanto la tesi non manipolabile solitamente proposta, anche indirettamente, da un qualsiasi film: passiva partecipazione e attiva com-partecipazione non possono che operare sull’uomo suggestioni e conseguenze estremamente differenti.
Per quanto sopra riportato, in Italia risulta quindi oggi del tutto pretestuoso che, secondo le possibilità e le suggestioni attualmente offerte della video-interazione ludica, la demonizzazione del medium e la conseguente necessità di controllo contenuti e distribuzione venga più urgentemente sentita nei videogiochi stessi piuttosto che nel format di altri medium (cinema e Tv con tutto il loro carico esplicito di cronache e immagini drammatiche in onda ad orari familiari).
Il videogiocatore si diverte nella rappresentazione, o se si preferisce nella illusione dissimulata da rappresentazione. Divertimento e intrattenimento sono le chiavi del gioco, assieme ad una conoscenza a-drammatica permessa dal gioco stesso, per cui è assurdo credere che i messaggi videoludici mirino ad informare che l’uccisione di esseri umani, il consumo di droghe o gli incidenti mortali siano prassi ludiche nella realtà.
E’ inoltre mia convinzione affermare che in assenza dell’influenza sociale/culturale/psicologica degli universi video-ludo-interattivi, molti mostri generati dalla televisione tornerebbero a scuotere la sensibilità psichica degli infanti molto più di quanto non accada adesso (come invece accadeva un tempo), portandoli a credere sul piano reale alla loro operatività (fantomatica o meno), in quanto tutto ciò che rende passiva la fruizione, inibendo il controllo, viene cognitivamente percepito come drammatico, realtà soverchiante in quanto inoppugnabile.
Infine non è mai fuori luogo ricordare che l’inoppugnabilità di un film persiste oltre l’interattività dell’utente, dove il videogioco termina con la scelta di non proseguire il racconto ludo-narrativo, con la fine quindi dell’interattività del videogiocatore.
Ogni gamer può scegliere di interrompere la sessione ludica, operando in tal modo la propria autorità a dispetto della operatività fenomenica del gioco. La sfida lanciata dal gioco e gli obiettivi da raggiungere controbilanciano abbondantemente la drammaticità della narrazione, e smettendo di giocare il racconto ludico in tal modo non progredisce: il fenomeno corrisponderà virtualmente ad un non-accadimento, in quanto ogni videogiocatore sa che l’esito dipenderà solo dalla propria volontà di superare la sfida
Di davvero drammatico, per il vero videogiocatore, persiste solo la cocente disdetta di non aver portato a termine la sfida.
Il vero videogiocatore riprende un gioco lasciato a metà per tentare di “finire il gioco”, per quanto cruente possano essere le immagini in esso rappresentate, non per assistere ad un finale cinematografico che legittimi tutta la sua ludo-narrazione.
In definitiva qualsiasi obiettivo ludico è quello di superare la sfida proposta dal gioco, e questo è anche il maggior incentivo dei videogiochi per i quali l’agenza permessa dagli stessi rende protagonisti in un mondo salvificamente referenziale, dove il senso di autorità soverchia il dispotismo di un qualsiasi testo esclusivamente narrante.
Per tornare ad un paragone con l’impiego morale delle nuove tecnologie, il ruolo del videogiocatore nel gioco si fa voce dell’identità virtuale dell’utente stesso, una identità puramente funzionale al divertimento, non di una mimesi totale degna di trasformarsi in un alibi deresponsabilizzante.
Si tratta di due istanze ampiamente definite, ma per i motivi di cui sopra, altamente differenti.
2 commenti:
In risposta alla “libera riflessione sull’oggi” di Luigi Marrone
Di Mikele Mineo
La riflessione di Marrone sulle implicazioni morali di internet e del cyber-spazio rappresentano un inizio di una riflessione oggettivamente necessaria e oramai doverosa.
Credo che quantomeno un po’ tutti ci siamo chiesti prima o poi “è giusto questo?”, o più semplicemente abbiamo sentito un “ma dove andremo a finire?”.
Alla seconda domanda non credo di poter dare risposte, evitando così paranoiche veggenze apocalittiche. Ma la prima domanda apre orizzonti di riflessioni alquanto promettenti.
Da sempre il genere umano si chiede perché; da sempre ricerchiamo giustificazioni alle nostre azioni. Da sempre una nuova tecnologia impone una nuova visione dei rapporti interpersonali, il che impone regolamentazioni e precetti, da qui la necessaria costruzione di strutture o sovrastrutture, religiose o laico-statali, che di per loro rappresentano sublimazioni de-responsabilizzanti del proprio ego.
Si direbbe: niente di nuovo sotto il sole.
Già. Strutturalmente, si potrebbe dire che ogni processo umano sia un risultato di dinamiche che possono accomodarsi sotto l’ombrello protettivo di “cultura”. Detto ciò si apre il problema etico, ovvero “è giusto questo, secondo la mia cultura?”. La risposta è: “dipende”.
Dipende dalla cultura che si pone il problema. In altre parole una nuova tecnologia presuppone dunque una nuova visione della realtà, il che è legato a doppio filo con il concetto di cultura. Ed è questa l’epoca di transizione in cui viviamo; transizione che per limiti contingenti non può dare certezze sul futuro, e non può permettersi di cassare integralmente la stadio culturale pre-esistente. È innegabile che l’elemento vojeristico, elemento basilare dei contenuti hard-core, sia parte della cultura pre-esistente, se non universalmente umano.
“Vedevamo” le sculture classiche, “vedevamo” i dipinti dei grandi maestri, “vediamo” film, tv, teatro; tutto questo è comunicazione di una cultura, o una visione della cultura.
E i contenuti espliciti? È arte? È cultura? E poi, cosa fare? Ci cospargiamo il capo di cenere e recitiamo il mea culpa? Non credo. Tacciamo il fenomeno di immoralità? Potremmo, ma ci allontaneremmo da due considerazioni necessarie.
Prima di tutto prendere atto che si tratta di messe in scena di atti di adulti consenzienti, quindi eticamente direttamente correlato al Libero Arbitrio.
In secondo luogo, come lo stesso Marrone afferma e per le valide ragioni elencate nel suo saggio, la quantità di accessi quotidiani a siti espliciti è ragguardevole. Questo vorrebbe dire che una moltitudine in tutto il mondo è a digiuno di etica? Forse, ma anche questo sarebbe limitativo.
Se ammettiamo che i contenuti sono consenzienti, quindi osservanti del Libero Arbitrio, escludiamo il concetto di violenza del messaggio, isolando quella vera minoranza non-etica che dalla violenza, e quindi dalla infrazione del Libero Arbitrio, trae ludibrio e soddisfazione.
La transizione è allora identificabile con il traghettamento dei contenuti hard-core da “sub-cultura” a “cultura”; operazione che a ben vedere è già in atto a vari livelli.
È questa una operazione voluta “dall’alto”, ossia dai vari mezzi di informazione? O voluta “dal basso”, ovvero i consumatori di tal prodotto? È evidente che ci troviamo di fronte al cane che si morde la coda.
È etico produrre servizi giornalistici o film riguardanti set di materiale hard-core? L’alternativa è, per la cultura in cui viviamo, la censura.
È etico astenerci dal consumo di un prodotto che, pur repellente, rappresenta una visione di cultura? L’alternativa è arrogarci il diritto di escludere un qualcosa dal gotha della “cultura”.
O forse quei limiti che l’etica ci imponeva non sono più tali, bensì frontiere? Cosa successe quando fu introdotto il concetto di prospettiva? Cosa successe quando arrivò il colore in televisione?
Quindi è l’etica, ovvero una visione culturale integralmente umana, al nostro servizio o siamo noi al servizio di una nostra struttura? Quindi vogliamo che la cultura tenda ad includere elementi e concetti, o ad escluderli?
E qui il riferimento ad Adamo ed Eva si rende cogente. Il mito lo conosciamo tutti, anche se le interpretazioni differiscono.
Non è un caso che la mela fosse sull’albero della conoscenza; mangiandola, l’uomo e la donna si sarebbero appropriati di un frutto della conoscenza. Il monito sarebbe chiaro: guai a chi cerca la conoscenza; vi dono l’Eden, purché rimaniate felicemente ignoranti.
È chiaro che se questo rappresenta un peccato, addirittura originale, ciò ci emarginerebbe dalla cultura in quanto conoscenza, e non è un mistero che sia ciò che è successo per qualche millennio nella società umana. Attraverso la conoscenza, da secoli il mondo occidentale tenta di emanciparsi da quel peccato originale ridefinendo man mano le frontiere dell’etica.
E ritorniamo al quesito di sopra. Siamo noi al servizio dell’etica o è l’etica, in quanto nostra “creatura” poiché elemento culturale e quindi umano, al nostro sevizio?
Hic et nunc, l’accesso alla conoscenza passa attraverso l’accesso alla rete. E lo sdoganamento da parte di quello “scenario mediale sempre più pervasivamente scopico” dell’hard-core si ritrova concettualmente in quel filone di emancipazione culturale e umano.
Se dopo l’utente è garantito strutturalmente dall’anonimato, questo è un diritto inalienabile sancito dal concetto di privacy, concetto culturale e quindi etico; relativamente recente, la privacy è una parte della esplicazione della libertà personale, quindi del Libero Arbitrio, e quindi ancora orbitante attorno ad un concetto “old school” dell’etica.
Sempre strutturalmente, più che “omo-sostitutiva”, ritengo quindi la tecnologia digitale un ambito dove si ridefinisce una frontiera etica, superando il limite fisico delle tre dimensioni, della compresenza fisica di più agenti, ed altressì pienamente coerente con una definizione etica della conoscenza
Mikele Mineo
di System "agnus-tycho" Shocko
Molto molto interessante, ti rispondo senza infamie e senza lodi, ma proponendoti un paio di punti di vista al volo, scusa la forma nervosa e la confusione ma vado molto di corsa:
il paravento, il confessionale, lo schermo del pc...
dietro la parrocchia il prete stupra secula seculorum, nel cuore del veicolo moralizzatore cova indisturbato il peggio - da sempre
anzi, oggi capita che venga ogni tanto pescato un dischetto incriminante, un hardisk pieno di minorenni sbatacchiati, prova concentrata...
l'estromissione della coscienza è un meccanismo antico e automatico, una mano lava l'altra etc, fino alla rimozione vera e propria... oggi le macchine lo incarnano e lo agevolano, modificano l'uso di vecchi oggetti, e compiono o fanno compiere un ulteriore salto nel virtuale, ma questi salti abbiamo cominciato a farli da secoli, frapponendo tra l'uomo e il sentimento una marea di oggetti, forme e formalità, abiti ecostumi etc. par(a)venti appunto, ma è del tutto un passo ulteriore verso -quella- direzione?
A volte, al contrario, l'internauta è alleviato dalla paranoia (ne paga altre) della confusione, del confondere il senso di colpa (che appunto non c'è, inizialmente è solo desiderio) con l'occhio accusatore di un prossimo che è infastidito dai tuoi desideri, non dai tuoi peccati in quanto tali, dato che il peccato è un problema di latitudine storicogeografica, infastidito invece da te vivente, come lo è dai tuoi bisogni, dai tuoi sentimenti etc.
In rete quindi c'è chi si nasconde ma anche chi si espone come mai sarebbe possibile altrimenti, e pesa molto anche il "panottico"... internet è un occhio che tutto vede in entrambe le direzioni, così diffonde paranoia, l'anonimato lo si paga sempre a costo di dover bruciare tracce mai del tutto dissolte, in quanto invisibili da subito, con programmi complicatissimi per un normale segaiolo di ieri, che poteva invece sbarazzarsi delle sue riviste con re"al"tiva facilità, la difficoltà era solo affettiva, e resta tale. Cioè: liberarsi delle tracce del consumo è un conto, ma l'oggetto? Liberarsi di un film pornografico è affettivamente sopportabile? Perché un parroco si fa beccare pur di non sbarazzarsi del suo database di adorabili fantolini?
Poi penso all'uomo massa di canetti, o dal sommo musil che così bene ha definito la "massa" nel suo uomo senza qualità... ma oggi la "massa" non è più concepibile, è una categoria ormai consunta inutile all'interpretazione sociologica... Ma lasciamo stare il resto, pensando ad internet: il singolo è diventato l'uomo massa! Senza bisogno di contatto corporeo con la massa, cioè si sente libero di dare sfogo al peggio come farebbe solo alla partita allo stadio spalleggiato da duemila trogloditi, e invece è totalmente solo-in pubblico. Né solo, Né in pubblico, è quindi il nessuno, nessun pubblico pubblico di se stesso.
Musil ha chiarito magistralmente anche il rapporto corpo-anima, e cioè, almeno per lui, il corpo è l'anima, l'anima vive dei sentimenti filtrati dal corpo... quindi la dimensione spirituale è determinata dal comportamento, è sempre presente e sempre assente anch'essa, sia che ci troviamo allo stadio, sia in chiesa... sia appunto davanti al pc, essa cambia come cambia il corpo. Quindi senzaltro l'"anima" davanti al vg cambia, ma il sentimento religioso è la stessa cosa?
Il "problema" spirituale, l'assenza, la morte, l'oltre... cose che non trovano mai soluzione nel non-oltre, solo nuove crisi e nuovi ambiti di crisi. La percezione intima e diretta dello spirito non viene che o da una totale demenza o da uno sforzo razionale monumentale (il peso della chiesa sulle spalle o un'infilata di anni di formule matematico-meditative per la conoscenza), tutto il resto nel mezzo è indifferenza, impercezione, si dice spirito ma dal punto di vista religioso (rilegatio-ricongiungimento, ricordiamo) è solo un pigro riferirsi al problema della scadenza della rata dell'assicurazione vita... è un discorso troppo lungo e mi vengono in mente da Sant'Agostino a Kierkegaard, non ne potrei mai venir fuori... è come il problema della violenza, e la religione è sempre stata una circolo violento sia fisico che "spirituale"...
Diciamo allora intanto: le critiche rivolte ai vg in quanto diseducativi sono ridicole, e riflettono la mente di una società che ha perduto le proprie facoltà educative e quindi cerca di prendersela con qualche simulacro. Questo non per dire che i vg non dis-educhino, possono devastare interi panorami psichici come arricchirne altri, questo però dipende dai singoli fruitori, e in giro per natura ci sono molti più coglioni che attenti. Non so chi dei due più manipolabile... ma è così che il mondo si tiene in equilibrio, fossero tutti attenti, cadrebbero come una statua da una corda sospesa...
Quindi, sul rapporto tra istinto omicida giocato o reale...
Il gioco è sempre una trasposizione dell'istinto omicida, del quale non sembra si possa fare a meno, ma il gioco incarna appunto la qualità umana del sublimare le proprie pulsioni (che appunto non sono istinti premappati come per le formiche, sono pulsioni ben più autogestibili).
Il videogioco è essenzialmente un gioco, e fin qui... e il gioco è sempre una trasposizione delle prove che la realtà più "seria" impone all'uomo, ne è da un lato una riformulazione liberatoria dall'altro una nuova esperienza con vincoli del tutto nuovi.
E' ovvio.
In realtà i vg sono al 99% (ovviamente non si dovrebbe parlare di Vg in senso lato) feccia superficiale, ossia sedimento del fondo portato in superficie, acritico sfogo delle membra cerebrali... più o meno come una partita di calcio.
Ovviamente la partita di calcio non contempla ammazzamenti, tantomeno gratutiti, ma se consideriamo che lo sport oggi non è sangue solo per censura già avvenuta... mi viene sempre in mente un gioco che si fa ancora su un isolotto scozzese, in un villaggio isolato. Ogni anno tra i ragazzi estraggono una specie di lotteria e al perdente viene negata la parola di tutti gli altri per un anno intero. Un gioco crudelissimo che vede isolata nel silenzio una vittima per un tempo enorme, gioco che però viene da una ancor più crudele antica tradizione, infatti, fino a poco più di soli cento anni fa, l'estrazione finiva con la morte del perdente che veniva assassinato a pietrate, tutti d'accordo.
Rituale-rilegarsi al circolo-violenza-morte-(trascendenza)... avoglia! non si finirebbe più.
Insomma con i vg stiamo (ancora) recuperando qualche sfogo mai sopito che la legge ci ha impedito nel mondo fisico, e che comunque appunto abbiamo sempre rimediato, con surrogati della fantasia o dell'arte...
Sulla forza del medium... da un lato un programma tv è inesorabilmente incontrollabile (ma anche un libro può sfondare una vita, con la differenza che i libri potenti chiedendoti molto possono molto e quindi a volte possono anche molto bene), dall'altro lato il controllo che esercitiamo sul vg lo esercitiamo su noi stessi egualmente, quindi il vincolo è possibilmente maggiore... quanto è più facile spegnere la tv, che desolazione invece spegnere un vg nel cuore della notte, che vuoto insonne che ti lascia, si direbbe appunto che si è mangiato tutto il tuo spirito, quel che era dentro te.
di System "agnus-thyco" Shocko
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