27 dicembre 2006

Nintendo al Cubo

Zelda e Nintendo al Cubo
(di Luigi Marrone)
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Le emozioni che trascendono il silicio di una console, le ore di gioco appassionato trascorse in una simbiosi uomo/macchina che finiscono con l’inscrivere quest’ultima nell’olimpo delle proprie affezioni private…
Esistono videogiocatori la cui folgore SuperNintendo ha lasciato segni indelebili nella memoria, come per altri il Nintendo 64 ha rappresentato il summit del brivido 3D, probabilmente loro prima console favoritrice dell’esperienza.
Zelda Ocarina Of Time è stata la mia prima assoluta esperienza della Leggenda di Zelda.
Correva l’anno 2003 ed era su Nintendo GameCube.
Mio fratello 3 anni e mezzo fa era totalmente intenzionato a non tralasciare le esperienze videoludiche offerte da casa Nintendo, con i principali incentivi chiamati Metroid Prime e Zelda The WindWaker.
Il GameCube è una console fantastica, da prendere ad occhi chiusi, vedrai“ diceva lui.
Doveva essere un acquisto congiunto tra noi fratelli per cui diedi l’ok.
Il Cubo fu preso a Roma, città dove mio fratello studia ancora. Ma se è vero che per l’aura storica degli eventi conta ogni cosa, il nome del negozio era Game 94 in Via del Clementino 95, ed era il 15 Maggio 2003, ore 18.27. Come recita lo scontrino fiscale prima del drastico abbattimento, il prezzo ammontava a 219, ed in bundle con la console v’era Metroid Prime, copertina e manuale in castellano.
The Legend of Zelda: The Wind Waker (Limited Edition) – era stato acquistato due settimane prima per non perdere la versione Limited Version contenente Ocarina Of Time e il Master Quest dello stesso. Era il 2 Maggio 2003, Nova Game s.r.l. in Via Candia 56.
Prima di allora avevo giocato solo con Playstation2, e benché informato sulle varie offerte di gioco l’idea di un’altra console non mi aveva sfiorato minimamente. Sapevo quasi nulla della filosofia Nintendo, e per la verità, al tempo, mi avvicinavo più di quanto si potesse immaginare al prototipo di casual gamer.
GameCube è stata in assoluto la mia prima esperienza con una macchina Nintendo. Ricordo d’esser rimasto affascinato alla vista dei suoi piccoli dischetti, dalla velocità dei caricamenti, e dalla pulizia grafica, dai colori vividi, dalla gioia e dal senso di vita traspirante da quel nero Cubo plugged in allo schermo
Ricordo d’aver pensato che le console hanno un’anima differente le une dalle altre: un sapore, un odore e un fascino che le diversifica reciprocamente. E soprattutto che c'era qualcosa in quel piccolo oggetto Nintendo che sapeva farsi inspiegabilmente avvertire.
Dopo 3 anni di convinvenza sono convinto che si mentirebbe a se stessi nel volersi esimere dalla fatalità Nintendo. Esiste gente al mondo che ne ha le scatole piene di sentire parole quali Nintendo Difference, Magia Nintendo e roba simile. Io sono del parere che l'importanza storica di un'azienda come quella Nintendo, della sua avanguardia e dell'esperienza delle persone che ne fanno parte possano parlare attraverso il silicio, attraverso le emozioni registrate dal videogiocatore.
Pare scontato, ma Nintendo é Nintendo. Ed é fuori dubbio che la storia dell’home entertainment di massa su console è sia prerogativa Nintendo.
E così che nel 2003 ho iniziato a giocare la ri-edizione di Zelda Ocarina Of Time del Nintendo 64 su GameCube: senza sapere nulla di Zelda, senza sapere nulla delle ore di gioco che mi sarebbero aspettate, senza sapere della Leggenda, della Triforza, di Link, Ganondorf o Shigeru Myamoto.
Ho iniziato a giocare con Nintendo da vero casual gamer, con il pensiero proiettato a quando avrei messo piede in Wind Waker dopo il giro di boa di Ocarina Of Time.
Ma Ocarina of Time mi circuiva inesorabilmente, attirandomi con forza, blandendo le mie ore di vita virtuale, lasciandosi lentamente innamorare di sé.
Al termine dell'esperienza, dopo circa un mese di gioco, durante le scene finali avevo le lacrime agli occhi. Goccioloni di emozione assieme a brividi scemi. Per tutto il tempo non avevo giocato a nient’altro, Zelda era divenuta la mia ossessione personale, una questione privata come si dice.
Per tutto il tempo ero sopreso nel sentirmi così rapito. Senza contare che era la prima volta che manifestavo spontanea commozione per un videogioco.
Ero letteralmente commosso per il viaggio, commosso per i simpatici saluti finali di tutti i personaggi incontrati, commosso per la storia, per l’esperienza nel Tempo, commosso per l’edificazione videoludica che avevo ricevuto.
Ero commosso per le notti insonni e le mattine e poi ancora le notti allucinate rapite dalla favola Zelda, dal sentimento, dalle sub-quest, dalla risoluzione dei dungeons…
Sentivo la mole dil lavoro dei game designer, la calda umanità che si era magicamente generata dietro lo sviluppo ludo-narrativo, il magnifico sense of wondering guidato che inspiegabilmente Grand Theft Auto III non mi regalava a tal punto.
Riconobbi Zelda come un mondo vivo, palpitante, colmo di vita digitale.
Mi sentivo commosso come nel congedare una persona cara, umana, in procinto di partire via.
E' pur vero che si trattava di un penoso periodo di vita caratterizzato da una profonda delusione affettiva e lavorativa, ma nient’altro nell’universo mi aveva donato uno svago e una leggerezza al cuore come l’esperienza di Zelda.
Fu davvero come una calda e tonificante magia.
Per tale motivo mi chiedo se tutto questo non significhi forse che il peso della storia Nintendo e dell’essenza Myamoto non faccia sentire la sua voce fra righe del tempo, comunque e ovunque.
Non ho risposta per questo.
Ma dirò che nessun videogiocatore che si consideri davvero tale dovrebbe esimersi dal terminare uno dei capitoli 3D della Zelda Legend: avvertire come l’edificazione videoludica venga trascesa dallo spirito umano generato dal lavoro Nintendo, dentro il cuore della Leggenda di Zelda, esprime un impagabile valore.

Ho acquistato Zelda Twilight Princess su GameCube, dopo aver disdetto la mia prenotazione del Nintendo Wii.
Sentivo di doverlo, al Cubo e a me.

Magia Nintendo.

3 dicembre 2006

Era mio padre. Metal Gear Solid 3: Snake Eater.

Nel tempo dell'Assenza
(di Luigi Marrone)
Ancora vive in me una strana persistenza, alla fine del viaggio. A volte resta la memoria di un colore, un jingle ridondante, un particolare ambientale suggestivo di uno spazio virtuale… A volte sono scorci di un dungeon zeldiano, alcuni spiragli d’esterni/interni della Silent Hill, la spazzatura riversa fra le strade d’una plumbea Coney Island in The Warriors, la febbre virale della Carcer City di Manhunt...
Ambienti digitali poligono-dipendenti/gameplay-contestuali che si intridono nella memoria, vera forza occulta degli ambienti virtuali.
Nel riemergere da Metal Gear Solid 3, nel ritornare alla luce del non-virtuale dopo la verde risonanza aurica del quale il suo universo è cosparso, é stata per me come un’emozione risonante nella dorata filigrana del ricordo.
Un tepore intimo, interiore, fomentato da profonde ed emotive sinestesie regalatemi dalla memoria di un particolare universo endo-psichico, video-ludico e video-emozionale: l’universo del mio passato, operativo in me.
Spesso l’emozione memoria reclama d’essere espressa attraverso libere associazioni, in quanto suggestione personale infusa in quel particolare fervore atto a registrare l’irrazionale, vicino al sentimento: il ricordo della propria adolescenza.

Verde è il fungo luminescente russo e la rana subaspera, la mimetica fogliare e l’acquitrino della palude. Verde é il pitone arboricolo, la raganella e il muschio sulla pelle di THE END, verdi sono le mimetiche e l’uniforme standard dell’ex Green Beret John, i rettili in agguato sugli alberi e le radiotrasmittenti, le divise militari, l’uniforme di EVA, le passerelle antisdrucciolo cigolanti, la copertina e la serigrafia sul CD…
Verde é
METAL GEAR SOLID 3 :
Verde come la memoria che ringiovanisce tornando indietro, come il ricordare l’MSX posseduto da un qualche mio compagno di scuola, sprazzi d’una estate schiumosa di ricordi associati a zone di camping per roulotte, fra materassini gonfiabili e prati verdi, fanghiglia a chiazze melmose schizzate attorno a tubi di gomma scolanti delle docce…
L’emozione e il ricordo.
Il verde in Metal Gear Solid 3: Snake Eater.

SNAKE EATER è suggestione in armonica risonanza con qualcosa di me, il mio io bambino stupefatto davanti un televisore nell’anno 1984 - impressionato dai disegni di copertina sulle scatole contenenti le cartucce di un Commodore Vic 20 - fantasticando su quanto il videogioco potesse avvicinarsi alla realtà, lo scarto fra la realtà di fuori e la realtà di dentro, i ritagli liquidi di luce sul balcone di casa e i pixel schiumanti in brillanti cromatismi sullo schermo TV.
Nella mia sensibilità per il digitale, qualcosa è cominciato cosi.
SNAKE EATER é l’universo parallelo aperto su MSX da Konami a metà degli anni 80, implementato in idee e concetto sino a giungere qui, all’origine di tutto, retrospettiva che legittima e rende giustizia allo spazio bidimensionale ideato da Hideo Kojima attraverso il medium MSX, piattaforma sulla quale il game designer ha dato l’abbrivio all’assalto teso alla comunione mediatica fra cinema e videogame.
Tutta la volontà era lì, dentro un MSX2, ed ora è anche qui, dentro una PLAYSTATION 2: spazzare via un mucchio di pixel affastellati attraverso un proiettile dalla forma di un quadrato bianco, cosi come sgozzare un ammasso di milioni di poligoni vivi trattati in gourad shading - sentendoli urlare mentre il joypad é in vibrazione - osservando sangue schizzare sul vetro interno dello schermo… nulla risulta diverso nel tempo.
Lo scarto rimane prerogativa tecnologica, non delle idee.
Oltre il comparto grafico quindi, oltre la terza dimensione, dolby pro logic II e l’immersione sensoriale, il testo rimane eloquente: Metal Gear Solid è opera potente, riflessiva, buona per tracciare avanguardie videoludiche.
Ma é dentro SNAKE EATER che si vede la sostanza, é vivendo SNAKE EATER che si annusa di cosa è davvero composto il DNA, la guerra, l’odore di terra e sangue e l’armamento pesante METAL GEAR – i tessuti delle uniformi mimetiche di soldati, elettricità ad alto voltaggio, fango e ruggine…
SNAKE EATER dilata l’universo del proprio passato lasciando intuire che non vi è ironia al principio di ciò che si era conosciuto, nonostante le influenze di un cinema d’azione americano così influente su Kojima.
SNAKE EATER ha giocato con la mia memoria nostalgica riesumandone l’inconscio, e l’effetto è stato per me filosoficamente ed emozionalmente intenso.
UNTIL THE END OF THE WORLD di Wim Wenders postula un head-set record-neuronale in grado di registrare l’inconscio proiettando frames d’immagini nella corteccia cerebrale in modo da poter rivedere in low-fi persino i propri sogni passati. In altri termini, riesumare visivamente ciò che era sigillato nella memoria umana, ma che legittimamente le appartiene in quanto parte inconscia ed operativa di lei.
Rivedere quel che si era quindi, riflettendo su quello che si sarebbe potuto essere... diviene un processo languidamente sfinente.
SNAKE EATER permette di partecipare alla causa scatenante le future conseguenze che tutti i veri fan di MGS hanno già conosciuto, ma dentro me il processo è risultato intenso e avvolgente a causa del risveglio di risonanze emotive che successivamente ai vari MGS, e dopo aver sentito storie, vissuto sequestri di scienziati, METAL GEAR RAY, ARSENAL e PATRIOTS e reparti speciali e tutti gli altri intrecci ormai decantati nell'anima, hanno contribuito a relegarmi spiritualmente nel passato.
La magnifica kojimiana caratterizzazione visuale/storico/narrativa, contestuale al gameplay, non ha fatto altro che proiettarmi e guidarmi in un tempo particolare: il tempo della mia assenza, il tempo ancor prima che io nascessi.
La domanda è perché tutto questo mi ha rapito. Forse perché l’aggiornamento tecnologico applicato ad un prodotto videoludico, nel permettere realismo videointerattivo rende visibile ciò che in passato aveva emozionato nel solo immaginarlo. Quella stessa intima emozione passata, decantata da anni nella memoria, viene riformulata e attualizzata al presente, portando con sé un carico di languida melanconia.
L’emozione di chi viveva 20 anni fa l’esperienza Metal Gear su di un MSX, di chi viveva il coinvolgimento ideato da Hideo Kojima nella caratterizzazione dei personaggi e nei loro rapporti, dalle emozioni esperite in-game all’immaginare la personalità di Big Boss, di Solid Snake e di Grey Fox…
Tralasciando gli stereotipi degli action-film/spy-story americani ai quali il Director Kojima si dichiara versato, i personaggi di Metal Gear hanno sempre tentato di uscire dal limbo del mero messaggio ludo inteso in un momento nel quale le copertine delle confezioni dei videogiochi possedevano ancora il carattere di illustrare simbolicamente i contenuti dell’esperienza, di suggerire l’atmosfera e il richiamo ad un particolare immaginario, nonché il compito di farsi latrici nel favorire l’immaginazione di “pensare” il giocato, di “fantasticarne” il realismo ove la cosmesi prodotta dalla tecnologia hardware era lontana dal rappresentarlo.
Le cose oggi si sono rovesciate, in quanto l’aspetto cosmetico di un videogioco può farsi più coinvolgente dell’immaginario suggerito da una cover che lo contiene.
In Snake Eater, l’aggiornamento tecnologico ha richiamato l’emozione del passato: ciò che si è stati, ciò che si è vissuto, ciò che si è esperito, ciò che si è virtualmente sperato un tempo, oggi è stato richiamato al cuore attraverso gli elementi un tempo investiti affettivamente.
Vedere Big Boss...
Attraverso Big Boss vedere Solid Snake...
Poter vedere l’immaginato.

Espandere l’immaginazione al passato, tornare sui passi della fantasia immaginativa decantata negli anni addietro, lasciata lì, in una qualche zona interiore che sarebbe dovuta restare circoscritta nel tempo, riprendendola, scotendola… provando l’anacronistico sapore di un tempo (da ieri ad oggi) che non dovrebbe essere trascorso mai.
20 anni.
Dal primo Metal Gear sono invece sono trascorsi 20 anni.

La verità è che il progresso tecnologico videoludico ha il potere di re-immergere l’anima nel ricordo, ristrutturando l’emozione e infischiandosene del tempo trascorso: é così che la tecnologia soprassiede sul tempo, quando ciò che non è stato permesso un tempo può essere sbattuto in faccia all'utente oggi, bellamente, costringendo il videogiocatore a riformulare la propria avatar-immersione passata, l’emozione registrata nella propria memoria videoludica.
Se è vero che “La narrazione non opera nel segno della riproducibilità del passato, ma del valore/significato che l’evento richiamato assume ora che lo stiamo raccontando” (Gianfranco Pecchinenda – Videogiochi e Cultura della simulazione) – giocare Snake Eater oggi ha un valore in più per chi lo ha affrontato nel proprio videoludico passato B-dimensionale, in quanto viene amplificato il rapporto emotivo di identità avanzato dal videogiocatore dal passato, sino ad oggi..

Vivere nel tempo dell’assenza

Filosoficamente, Snake Eater compie poi un altro azzardo, quello di offrire la possibilità di vivere il tempo della nostra assenza, di rivivere sulla nostra/sua pelle ciò che altrimenti non si sarebbe potuto sostanziare mai se non da quanto alitato dagli alisei della leggenda.
Pur essendo frutto di fanta-politica, MGS3 offre difatti la possibilità di vivere una storia nel tempo storico off-line in cui non si era ancora vivi, perlomeno del videogiocatore al di sotto dei 40, offrendo il privilegio di scriverne il modo come sarà registrata in noi, ovvero come sarà ricordata dalle generazioni future. Lapalissiano che per il videogiocatore che ha terminato Snake Eater, rigiocando adesso Metal Gear Solid 1 e udendo il nome di Big Boss potrà pensare “ Io so tutto, so come è andata “.
Ma la verità è che avrebbe potuto non saperlo mai.
Ciò che ho trovato sconvolgente é stata l’espansione fenomenica del passato al passato, come se Snake Eater avesse operato una dilatazione del mio passato e della mia memoria, riscrivendola, permettendomi inoltre, in qualità di videogiocatore, di determinare, di ri-scrivere il modo con il quale una deteminata storia e un determinato contenuto videoludico hanno avuto corso.
Questa è nient'altro che pura potenza del medium videoludico: donare l’impressione di essere un continuum temporale endogeno, virtuale, sub-reale ma parallelo e legittimo quanto l'ordinaria "realtà". L'in più risulta la possibilità di sentire d'esser stati noi a scriverne la storia, giocandola, dispiegandone il relativo universo sino alle battute finali. Il gioco entra così nella memoria intima del videogiocatore, dentro il suo Tempo, ed il prequel di Snake Eater diviene una espansione empirica. Emozione e coinvolgimento sono garantiti dalla partecipazione attiva: un buon videogioco si registra più fortemente in modo empirico nell’uomo di quanto non lo faccia un film. Nell'universo virtuale sono inoltre possibili leggi che al cinema reale sono negate. La possibilità di modellare volti, di rendere credibile mediante cosmesi digitale una fisionomia ringiovanita come un attore in carne ed ossa non potrà mai fare completamente, contribuiscono al continuum fruizionale, dilatando la coerenza e l'assoggettamento emozionale del videogiocatore.
In tale senso, la plausibilità relazionale fra prequel e sequel é garantita dalla maggiore versatilità plasmatrice attuabile in attori virtuali più che in quella del cinema (non machinima).

Ma la storia rimane fatto, e la storia di Snake Eater non è negoziabile: il tentativo di riscriverla genera un Time Paradox assediante il Game Over, interrompendo in tal modo il proseguimento videoludico. L’assenza di Game Over di Snake Eater, che in tal modo diventa un vero e proprio universo digitale autonomo le cui linee generali prologo-epilogo sono virtualmente scritte già da anni a prescindere dalle azioni del videogiocatore, fanno dell’esperienza videoludica un privilegio tempo-trascendente.
Nel tempo narrativo di Snake Eater, il videogiocatore rappresenta un non-nato che sta video-interagendo, un ente spia con funzioni video-interattive.

A pag. 11 della Guida Ufficiale Italiana (Piggyback Interactive 2005) è scritto :
Poiché MGS3 si svolge nel passato, prima degli eventi che hanno animato i precedenti capitoli di Metal Gear, é certo che Snake sia sopravvissuto alla missione, altrimenti il mondo di oggi non potrebbe esistere. Il tuo compito è quello di ricreare gli eventi che sono di fatto già accaduti.

Niente come SNAKE EATER mi ha videoludicamente donato la sensazione d’esser l’assenza spazio/temporale del mio corpo negli anni ’60. Similmente ad un fantasma agognante un corpo, agognando Tempo e desideroso di sostanziare, sentire, annoverare fa i suoi non-sensi gli oggetti fisici e reali, il quale si farebbe pieno di gratitudine verso quelle forze trascendenti che gli hanno temporaneamente permesso d’incarnarsi nella vita passata di qualcuno, dentro SNAKE EATER io assaporo con devozione e gratitudine il corpo di un’opera che in realtà é parte di una vita videoludica che avrei
potuto
non
vivere
mai.
Il privilegio di poter essere presenti all’origine, di potersi fare registratori di un’esperienza del Tempo della propria Assenza, nonostante alla fine venga registrato ciò che nella storia è già accaduto, nonostante la coscienza che tutto è comunque già stato vissuto, esprime un impagabile valore. Ogni singolo accadimento sensoriale, ogni suono, colore, parola in Snake Eater divengono addizione d’una vita passata alla vita presente di me videogiocatore, vero e proprio "incremento temporale virtuale": il gracchio metallico di barili rugginosi fra travi ossidate nel centro di ricerca a Tselinoyarsk, la tecnologia di sonar a batterie e interferenze, la visione di corpi ustionati – terra che s’imbeve di sudore, di passi e sangue, senso di piccolezza nel sentirsi inghiottiti in madre natura amorevole e spietata, la pelle rovente al sole, alla pioggia, agli animali, alle schegge schizzate nella carne e alla terra imbevuta del siero di corpi umani – ogni particolare esperibile è in realtà il dono trascendente che Kojima e Konami, mediante tecnologia PlayStation2, hanno fatto alla nostra memoria, a noi veri appassionati di Metal Gear Solid.

Persistenza della Natura
Del mondo, é la natura alla fine a restare. La natura dal volto non trapassante, dai colori e dalle sfumature che sanno come ritornare sempre. In Snake Eater le armi si faranno obsolete, cosi come invecchiano e muoiono corpi geneticamente modificati, come bruceranno porzioni di foresta diventando radioattive, come i nomi saranno cancellati dal registro dei Vivi.
Ma il sole continuerà a cadere sul mondo, riversandosi negli gli spazi intrisi di invisibili ricordi di cose avvenute, dando luogo a quel senso di nostalgia con il quale si combatte dentro la Russia di MGS3. Ed io penso a quel sole filtrato dalle fronde d’alberi secolari nelle foreste di Tselynoyark, quella stessa pioggia che lava via sangue e animali morti del bosco, e il verde delle foreste, la frescura dei ruscelli… penso alla pienezza di sensazioni con la quale Snake Eater investe ogni momento di gioco, grazie alla fantastica storia e all’anima digitale dei personaggi i quali, investiti da questo nostro sentimento, rendono vivi, umani, memorabili i poligoni.
L’umanità delle storie di Metal Gear trascende il mero dato poligonale per intridersi nella memoria videoludica del gamer. Che la natura dentro l’universo di MGS3 sia poligono digitale è dettaglio inutile: trascesa dall’umanità dei personaggi e dall’intensità delle storie, essa resterà e vincerà sull’uomo e sopra il suo Tempo, ed è probabilmente questo ad emozionare la memoria, nel riviverla: in Natura non esistono ’60 ’70 o ’90, non esistono età bensì soltanto come l’uomo la vive scrivendovi la storia dell’uomo, all'interno.
E' così che ogni filo d'erba, albero, corteccia divengono in realtà vegetazione senza tempo: rivivere il suo respiro al passato rende il tutto un dolce e trasmigrante languore.
Acquattarsi tra le fronde del sottobosco in SNAKE EATER vuol dire acquattarsi fra piante del passato che non sono le stesse di oggi, seppure quaranta anni dopo possano avere la stessa forma, colore, odore e fruscìo. E' questo che fa male nel giocare ad essere la memoria: rivivere negli spazi della natura morente e in rinascita, ma vedendovi agire dentro uomini che hanno creato l’intensità di quella storia umana, uomini che un giorno non esisteranno più.
L’umanità dei personaggi virtuali di MGS3 colpisce dentro intensamente, trascendendo a loro volta la loro natura di poligoni digitali.
Come l’allontanamento dall’età dell’infanzia e del ricordo, dal sacro, dall’avere coscienza di stare giocando col futuro - MGS3 spalanca il concetto di BIG BOSS aperto su MSX nel 1987 creando un link con l’età perduta, ingenerando videoludicamente la pulsione a tornare indietro, a ri-tornare ragazzi per riabbracciare la genuinità di ciò che è ormai diventato memoria.
RetroLiving
E' 1987 adesso, e io ho 9 anni. Classe 4a elementare, e sono in piena esaltazione mediatica. Abbiamo deciso, io ed Emilio, di programmare un videogioco, IL videogioco dei Master of The Universe. Non sappiamo come e dove cominciare, ma io possiedo un Commodore 64 e sono certo di una sola cosa al mondo: che mio padre sarà in grado di riuscirci. Mio padre programmerà il videogioco di He-Man.
Emilio disegna He-man e Skeletor su di un foglio A4, posture frontali e laterali. Mi allunga i fogli, pieno della mia stessa speranza. I disegni sono perfetti.
E’ sera quando mio padre rientra a casa dal lavoro. Aspetto che si sieda per la cena, poi gli mostro i disegni.
“Papà, puoi programmare un gioco con i Masters?“ gli chiedo.
Lui osserva i fogli, poi mi guarda e accarezzandomi mi risponde dolcemente “ Non lo so fare, papino “.

Mio padre.

Snake Eater non è il METAL GEAR della tecnologia, delle porte ad apertura fotocellulare, della manipolazione genetica e delle nanomacchine che agiscono nell’apparato endovenoso. Non è il Metal Gear dei campi magnetici che proteggono da missili e proiettili o delle braccia di Lazzaro che opportunamente trapiantate in altri corpi permettono di risuscitarlo in vita.
SNAKE EATER é guerra vissuta fra soldati mortali, dove il John di SNAKE EATER è inflessibilità d’un semplice uomo del reparto FOX, un uomo di poche parole, esperto di tattiche, armi e tutto ciò che è militare, cane da guerra con zero velleità artistiche.
Egli non è il nostro Solid Snake, e lo si avverte non appena se ne viene a contatto. John é un animale da terra e palude, fango e pioggia, carne cruda e battaglia e metallo e adrenalina e coraggio e riflessi e volpe e serpente, il Vero Serpente, Naked Snake, non ci sono dubbi.
La fiducia riposta dal governo è ovvia e naturale in quanto il senza-famiglia John é un universo autonomo, serio verso se stesso, responsabile verso il proprio Paese, responsabile come un padre che abbia qualcuno da sfamare.
Nonostante il proprio lavoro o la propria missione possano consistere nell’essere capaci d’uccidere, sgozzare e strozzare a mani nude per poi cestinare la coscienza con la sicumera d’aver fatto il proprio dovere, la verità é che John si chiede poco o nulla: di cosa pensi della guerra, di come ami, di come imparerà ad odiare… Il nocciolo più intimo, il mistero dietro l’uomo John non si riesce ad intuirlo nemmeno immergendosi in lui.
Come se a quel tempo, nella freddezza e nella crudezza di ciò a cui si può assistere attraverso lui, non vi fosse alcun bisogno di quel moralismo anti-militare che viene fuori dalle coscienze dei vari MGS degli anni ’90: nessuna crisi spirituale, nessuna morale anti-bellica, semplicemente missione come professione, missione come ideale di fedeltà a servizio del proprio Paese, lguerra fredda dell’uomo per il soldato interiormente freddo.
John non può e non si chiede se ciò che sta vivendo sia realtà o finzione, non accusa il minimo di metareferenzialità per l’universo che lo controlla. La Natura é lì, soverchiante, splendente, reale. John é l’uomo che vive nella natura, mimesi del verde, fagocitatore di serpenti capace di procedere solo col proprio trasmettitore schizzato del sangue d’un operativo del KGB sgozzato, imbrattandosene il corpo se può aiutarlo a mimetizzarsi meglio.
Ed è con tali suggestioni che l’universo di Snake Eater si fa più aderente al sentire umano, in quanto spazio antitetico del digitale, similmente al mondo negli anni ’60 assente di effetti Compton, GW o minaccia di censura d’informazioni da parte di PATRIOTS.
No Skull Suit a trattamento endovenoso in Snake Eater: John non ne ha bisogno, e procede solo, senza ironia, responsabilmente verso la propria missione e il proprio destino.
E’ questo che lo rende un soldato perfetto.
E’ per questo che lo sarebbe stato come padre.

Perché il padre è il ritorno all’indagine delle proprie radici, attuata ogni qualvolta la memoria scava all’indietro. Tale é la funzione archetipica e psicologica del padre, in fondo : il legame con la memoria, radicata nel profondo, in grado di legare un figlio alla radice del presente.
Come una fratellanza di sangue.
Nella giovinezza del padre e nel suo Tempo, esistiamo anche noi, i non nati.
Ma già vivi nel suo DNA.
Un legame della Natura, che ora non si potrà più cancellare mai.

29 novembre 2006

Jade Raymond, Beautiful People.

Jade, la bellissima dei Video(giochi)
(di Luigi Marrone)
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E' la più bellissima dei videogiochi. La più francese, la più affascinante. La sua morbidezza impareggiabile, la dolcezza sbarazzina dei suoi occhi come miele di castagno.
La Game Producer Jade Raymond si espone malgrado una Game Industry in cui sviluppatori e game designers raramente escono allo scoperto. Lei invece esce dal college con diploma di merito in Computer Science, ed il suo primo lavoro è programmatrice di giochi alla Sony. Fonda il dipartimento di ricerca e sviluppo per Sony Online, specializzandosi nel design e nella creazioni di giochi online, sino alla fortuna attuale.
Iniziando a lavorare in qualità di produttore presso Electronic Arts, diviene producer di The Sims Online, probabilmente uno dei giochi Online più importanti per EA.
Poi Jade passa a Ubisoft, a Montreal, città dove risiede.
Nonostante non sia scritto da nessuna parte, mi piace immaginare che é stato per l'occasione che Michel Ancel decide di chiamare Jade, in onore della splendida ragazza, la sua foto-reporter protagonista del videogioco Beyond Good & Evil (Ubisoft, 2004).
Ma il vero crack mediatico Jade lo ha compiuto nel 2003, alla Game Developer Award's Ceremony. In qualità di presentatrice e Co-ospite del produttore esecutivo di The Electric Playground, Victor Lucas, le viene per l'occasione chiesto di assumere il posto vacante di presentatrice. La sua bellezza, promossa dalla nuova visibilità mediatica, farà il giro di tutto il mondo.
Il risultato sino ad oggi? Tralasciando il fiorire di forum di fans per i quali Jade esprime la ragazza ideale del videogiocatore, bellissima e appassionata di videogames, Jade promuove la conoscenza di altri game designers e producers intervistandoli durante lo show, incensando una visibilità che al settore, escludendo i Big del Videogioco, é sempre mancata.
Iniziata da dietro le quinte, l’escalation di Jade Raymond é stata veloce e intensa come la comunità dell’entertainment videoludico non ha mai visto. E oltre al godersi la fama di essere un personaggio televisivo, Jade trova anche il tempo di fare ciò che più adora: creare videogiochi.
Attualmente al lavoro in qualità di producer per Assassin’s Creed della Ubisoft (PS3, XBOX360), Jade continua a brillare di luce propria. Essendo sempre la sua presenza mediatica un bel vedere, un dolcissimo video-assistere, la Jade della game industry può essere simbolicamente considerata una controparte soverchiante il femmineo in-game presente nelle attuali opere videoludiche pubblicate: Lara Croft, Samus Aran, Jill Valentine, Fiona Belli, la stessa Jade Di Beyond.
Non foss'altro perché Jade Raymond... ha una grafica migliore.

28 novembre 2006

Gears of War: Meccanismi di Saccheggio in Singolo Giocatore.

My Opinion
(di Luigi Marrone)
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Può raggiungere quota 150 euro su Ebay, forse anche oltre. Possiedo il board-game Space Crusade dal 1991, scatole miniature e tutto il resto attualmente riposti sopra un armadio, inviolati da anni.
Il disegno del comandante Marcus Fenix sulla cover del gioco mi ricordava troppo il comandante Space Marine sul package cartonato del gioco da tavolo, preludio sintomatico di un'analisi inevitabile. Prima del tuffo analitico é bene spendere 2 parole sull’estetica grafica di Gears of War, elemento d'impatto soverchiante qualsiasi giudizio, una vera occulta pianificata strategia i cui effetti sul gamer diventano una instupidente conseguenza.
Per un possessore di Xbox 360 è difficile oggi esimersi dall’incontro con il tanto strillato primo vero prodotto next-generation, come non ho potuto fare io, ad esempio.
Attualmente in fase di re-play in modalità Difficile dopo il primo giro con la “Casuale” (traduzione italiana dell’americano Casual), vuoi per aumentare gli Achievements Points, vuoi per trovare tutte le 30 piastrine Cog, vuoi per ficcarmi bene nell’anima gli ambienti grafici, Gears Of War si sta lasciando bellamente rigiocare poiché Gears Of War è IL gioco mass-market del momento, Gears of War è IL gioco On Line del momento, Gears of War è IL gioco cazzuto di oggi, nonostante Gears of War sia un metozzo di ibridi cliché che nulla aggiungono narrativamente/fantascientificamente/hollywoodianamente a quanto non si sia già potuto assistere in passato.
Suggestioni d’ambiente da Halo a Doom, Locuste al posto di Covenant e soldati COG (Coalition of Ordered Governments) detti Gears al posto dei marines spaziali della U.A.C, mentre Kojima afferma, non insensatamente, che i videogiochi sono pensati oggi come servizi, idee implementate come un servizio ai videogiocatori: servizi on-line, servizi multiplayer in co-op, servizi igienici… persino la calibrazione della difficoltà rientra nella categoria del servizio. In definitiva, i videogiochi mass-market oggi sono come servizi per l'entertainment, servizi per il divertimento forniti all’utente, che pur NON-chiedendoli esplicitamente se li ritrova, li ottiene dietro corrispettivo.
E’ davvero ciò che si vuole? La qualità dei prodotti videoludici deriva per buona percentuale dalla conseguenza dei mass-market generati dai videoplayers?
Questo non cambia le carte in tavola: in Gears of War si è già stra-visto tutto tutto tutto.
Ma é nella grafica next-gen e nelle meccaniche/gears di gioco che si respira la differenza dal resto del mondo. Cliff Bleszinski detto CliffyB, Lead Designer di Epic Games per Gears of War si ritrova così a giocare a softball sparando e riparandosi per non farsi colpire da colorate palline leggere, decidendo poi di riproporre la medesima sensazione di urgenza di fuoco e copertura in un videogame, implementandola perfettamente. L’apparato conseguente alla post Microsoft analisi del pop-market-appeal mondiale genera Gears of War, dove si finisce col nascondersi, ripararsi, attendere il momento per uscire e poi sbattere nuovamente la schiena al muro, di colonna in colonna, da divano a divano, capriolando a destra e sinistra per uno spettacolo all-action in HD mentre tutto intorno, durante i 5 atti che percorrono la storia, uno spettacolo visivo di scenari esterni ed interni pompano l’immersione virtuale ingenerando a pié sospinto l’idea di stare drogandosi di GenerazioneNuova.
E così l’urgenza action preme contro il tempo, non si ha la ICO calma giusta per ammirare il paesaggio intorno, Dominique, Cole e Beard reclamano pure-action e quindi c’è da avanzare, avanzare e avanzare dentro i 5 Atti dei Vangelo secondo i COG.
Ma dopo qualche giorno la sbronza grafica vola via, immancabilmente. E ci si accorge di quanto Gears of War sia narrativamente caratterizzato da quasi zero momenti memorabili. Tutto il comparto ludo-narrativo è corri/nasconditi/spara/aggira/corri, mentre l’in più fondante, l’anima truffaldina del videogiocare è mera spettacolarizzazione di un gameplay arcade. Sotto i riflettori ci si accorge che la chiave di volta del game design tratta della sinergia fra 2 elementi assoluti: impianto estetico in grado di generare pulsione galvanica al coinvolgimento sensoriale e appeal bellico rozzo, cazzuto e metal nerboruto, buono a creare la colonna portante di un perfetto ludo meccanismo algebrico, un Gear of Ludus.
Risultato? In Single Player, alle porte della nuova generazione, ci si può dunque permettere di tralasciare gli impreziosimenti ludici e narrativi grazie al sensuale contraltare della bellezza virtuale degli ambienti.
Gears of War é chiusura ed ermetismo, riparo tattico, ricarica attiva, fuoco!: war zones calcolate ad hoc, battlefields generati dentro congeniali scenari interni ed esterni totalmente obbligati a sfociare verso compartimenti bellici stagni ove a voler tentare il backtracking, superato uno dei tanti Punti di Sosta, ci si accorge che dove prima v’era l’apertura dalla quale si é passati si é ora materializzata una barricata d’assi legnose, porte ermetiche, mucchi gibbosi di rocce occlusive, mentre Gears Of War spintona a procedere, a falciare, a tralasciare obiezioni e appunti sino all’epilogo fra i Pezzo di Merda e i Vaffanculo e i dialoghi rudocazzuti dei soldati della coalizione immersi fino al collo in cliché narrativi, senza mai nessun kojimiano guizzo giocoso, senza nessuna cerebrale sorpresa, no Toyama alternative ending.
Gears of War si celebra chiuso, chiuso e chiuso.
Non prima che siano sfilati in passerella l’oscuro boss finale, il ragno gigante, lo scontro sul treno in corsa, la jeep corazzata per fuggire… essì, queste cosette oggi devono esserci perchéssì.
Si prosegue testardi e imperterriti all’ammazzo&go dentro ambienti grafico-stordenti, perché CliffyB ha viaggiato in Europa con lo sguardo apocalittico, CliffyB mentre era a Londra ha avuto visioni, “epifania” come le chiama lui, la Destroyed Beauty, la Bellezza Distrutta di CliffyB riproposta dappertutto, in varchi di una futura Europa in decadenza, dentro squarci di una Venezia bombardata, nel ventre di un salotto ottocentesco sfregiato dalla guerra, nei rosoni e nelle raggiere frantumate, gli archi e le volte, le cancellate… diomio, è l’Apocalisse.
Gears of War, decadenza di un’incredibile bellezza artistico-architettonica contestualizza ad un 3rd person shooter, ardore grafico che inebria e soggioga le ardenti e scafate comunità, malgrado chiunque potrebbe affermare che i ciechi Berserker sono versioni potenziate e pompate ma molto meno inquietanti dei Garradors di Resident Evil4, che Marcus Fenix spalanca la porta a calci come Leon Kennedy e che l’operatore di camera piazzatogli dietro dalla Epic Games utilizza la medesima inquadratura del cameramen Capcom appollaiato dietro lo stesso Leon…
Il lavoro di saccheggio e rimaneggiamento del cut&paste sconfina oltre il virtuale, la silhouette dei soldati della coalizione ricorda infatti la pesantezza e l’immaginario cazzuto delle miniature del gioco da tavolo Space Crusade (StarQuest in Italia, 1990, Hasbro International - distribuito da MBGiochi in collaborazione con Games WorkShop), così come nel videogioco derivato, prodotto dalla Gremlin Software che ne ha rilasciato una versione per Atari ST, Amiga, Spectrum ZX, Commodore 64 e Amstrad nel 1992, le armi dei Marines Spaziali che al tempo erano Cannone D’Assalto, LanciaRazzi, Fucile al Plasma, Bolter… in Gears Of War divengono Pistola Snub, Fucile d’Assalto Lancer, Fucile Gnasher, Granate e Martello dell’Alba (una sorta di pistola satellite-collegata in grado di sparare dall’alto un micidiale raggio laser).
Gears Of War é That’s America videoludico pout-pourri ultra rimasticato ove tralasciando appeal bellico e coperture pseudo-tattiche degli scenari é già stato detto tutto tutto tutto. Persino il droide astro-meccanico di nome Jack che viene in soccorso a dissaldare porte sa rispondere solo con beep sintetici rubati a C1-P8. E poi ancora risonatori da attivare per scaricare mappe di nascondigli nemici, scontro su treni in corsa, sentinelle anti-uomo come le meduse metallico-tentacolari di Matrix… tutto questo mentre il mondo impatta contro una stupefacente cosmesi, piena di strizzata d’occhi crassa e americana, post Halo e post Doom, costringendo in tal modo a farsi perdonare la manciata di mezz’orette per vederne la fine o l’aggiornamento di texture durante le FMV, eternamente dissimulando l’impietoso saccheggio nascosto dietro lo sbalordimento visivo.
Escludendo l’on line 4VS4, vero e proprio zucchero infinito, vien da pensare che il single player di Resident Evil4 sia necessariamente importante di più.
A mio Electronic Self parere, s’intende.

17 novembre 2006

Private I/O: l'educazione di ieri. Violenza HD del domani.

L'educazione e la cultura, prima della violenza.
(di Luigi Marrone)
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INPUT.

E’ il 16 Novembre 2006, ore 3.39 am.
Sono reduce dal mio primo personale incontro con il videogioco in alta definizione e devo scriverne, devo confessare.
Un pannello LCD da 32 pollici giace da 3 mesi su di un mobile nella mia stanza, inviolato. Febbre d’offerta e febbre da gioco, il Samsung é entrato in casa mia in sordina, senza mai sfoggiarmi nulla di speciale: pochi DVD, qualche sporadico e curioso collegamento con le mie console X-Box, PS2 e GameCube, ma per il resto avrebbe continuato a restare inviolato, questa è la verità.
Il primo sforzo della nuova generazione qui nella Europa pre-Playstation3 si chiama XBOX 360, e alle 4 del mattino nel buio della mia Room sto richiamando alla mente il suono di ventole dal suo chassis latteo, il calore emanato dal retro della console, l'anello di luce rotante X-box che si stampa fluorescente su schermo all’avvio di sistema, i caratteri alfabetici di una Dashboard ultradefinita, fra le vivide immagini pubblicitarie del servizio Live.
Ma soprattutto é esploso come uno schianto silenzioso lo schiumare nitido e perfetto di colori in alta definizione, senza sbavature, aloni o immagini persistenti… una veemenza stordente, una rivoluzione dell'immagine ad evolvere la percezione videoludica umana.
Non me l'aspettavo davvero.
Impatto totalmente diverso dall’avvento del colore dopo anni di b/n, poiché di gran lunga una botta più stordente. L’alta definizione svela impudentemente quanto limitata fosse la possibilità d’immagine del vecchio TV Cathodic Ray Tube, quasi ad un certo punto si possa temere l'implosione dei bulbi oculari dopo l'ubriacatura di colori. XBOX360 continua a ronzare ad aria calda, pompa elettroavida di 250 watt dalla multipresa, si ritorna agli alimentatori old school, ai miei cari Commodore 64/Amiga, alla persistenza esterna dell'alimentazione come fa Nintendo… ma i cavi americani sono polposi e di calibro non indifferente, adatti a mani americane polpose da hot dog e hamburger, di calibro non indifferente.
Eppure X-360, mero tower case PC fatto console reclama sinuosità e slancio attraverso le morbide concavità fronte/retro: un vezzo alla sorella X-Box n°1.
Da malato di George Romero, per quanto il regista ci tenga a prenderne le distanze dal proprio Dawn of the Dead, giocare Dead Rising in HD mi ha lasciato intuire come potrebbe visualmente presentarsi il futuro dell’intrattenimento elettronico: Video-interagire con controparti digitali foto-reali, ambienti digitali con mimesi totale, avvolgenza di suoni ambientali per suggestive immersioni acustiche in cyberspazi videoludici.
In altri termini, in assenza di Hub, icone, punti o altro, l’evoluzione sarà l’approssimarsi sempre più al reale sino al completo inganno mimetico dell’artefatto videoludico. 100% Camouflage.
Giocare in HD mi ha permesso di formulare il seguente pensiero: se i detrattori e i veri demonizzatori dell’arte videoludica, ossia i generazionali ignoranti, temono in primis le conseguenze del VideogiocoChePareVero, il realismo visivo, il confondersi del piano reale con il virtuale et viceversa, c’è da rendersi conto che dopo il seme dell’Alta Definizione non si tornerà più indietro. Così come da Resident Evil4 non si torna più dietro. No way out da Silent Hill. No backtracking in Gran Theft Auto.
Ipse dixit, giocheremo con controparti digitali foto-reali, ambienti digitali con mimesi totale, avvolgenza di suoni ambientali per coinvolgenti immersioni acustiche nel cyberspazio videoludico.
E’ questa la voglia di futuro, da sempre.
La lesiva simulazione infantile o tardo-adolescenziale di atteggiamenti videoludo-derivati, se fosse anche minimamente vera, dovrebbe bandire Nintendo Wii dal mondo immantinente. La demo di Red Steel lascia intendere che Nunchaku e Wii-remote vanno utilizzati, all'occorrenza, stilizzando i movimenti di una spada per ledere, non per carezzare.
E’ addestramento virtuale per futuri baby-samurai?
Qualcuno farà a fette qualcuno a causa di Red Steel?
Stop.
Ora si profila una nuova minaccia all’orizzonte chiamata violenza psicologica adolescenziale, ossia gratuita ed ingiustificata introduzione della violenza psichica dentro la serenità a-drammatica della vita adolescenziale. Il videogioco può sconvolgere gli equilibri omeostatici nella normale educazione ricevuta da un tardo infante sino a soggiogarlo alla diseducazione morale: alcuni videogiochi rappresentano la volontà degli adulti di contaminare l'innocenza, la genuinità e l'ingenuità dei bambini, per cui zero tolleranza, inizia l'inquisizione, ci si sveglia e si denuncia.
Nel momento in cui scrivo esiste la demonizzazione di un game chiamato Rule of Rose, game ormai da mesi attestato dalle comunità critiche quale prodotto dal profondo insapore videoludico ma che in questi giorni, grazie all’ottuso giornalismo di una ottusa analisi qualunquista di Panorama sta mobilitando anche il Senato italiano in piena crisi ideologica di fronte alla violenza criminale dopo i numeri di Napoli.
La verità é che la questione Rule of Rose rischia di snervare la mia più bella nonché privata passione: quella dell’integrità per l'intimità videoludica, in qualsiasi luogo essa si possa e voglia manifestare.
Private BackTracking.
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Da bimbo, a dieci anni di distanza dell’esplosione del mass-marketing videoludico, i miei genitori, senza invadente invadenza, sapevano come essere presenti in tutti i miei acquisti ludici. E’ stato mio padre a riportare a casa una vecchia imitazione dell'Atari, comprensiva di Pong, senza ch'io avessi chiesto nulla.
Era il 1983 se ben ricordo.
Ma ciò che più fortemente ricordo è che sino a 13 anni sono andato a letto ogni sera alle 22.15, limite orario incontestabile. Ero costretto a video-registrare tutto ciò che ritenevo interessante in TV in quanto i film iniziavano tutti alle 20.30 e terminavano alle 22.30, e salvo alcune rare eccezioni quali Terminator e Robocop, proiettati rispettivamente nel 1987 e nel 1990 e per i quali io e mio fratello dovemmo letteralmente supplicare nostro padre con una settimana di anticipo, in realtà ricordo una folta sequela di film troncati senza mezzi termini a poco meno di 15 minuti dalla fine: The Untouchables, Mad Max, Platoon, Chi è Remo Williams, Ritorno al Futuro, Rambo II, The Running Man…
Ad aumentare il supplizio era che il giorno successivo, durante scuola (elementare soprattutto), i miei compagni di classe, maschi e femmine indistintamente, parlavano del film visto la sera prima, mentre io dovevo tapparmi le orecchie per non ascoltare ciò che nel pomeriggio avrei visionato in videocassetta.
Quei quindici minuti di film ancora da vedere erano preziosi e assolutamente non negoziabili.
Sono trascorsi 20 anni e adesso mi ritrovo alle 4 del mattino, libero di riflettere sul problema, ad utilizzare il blog in modo non proprio impersonale, e ciò che davvero penso è che se davvero oggi manca di peso questa cultura del controllo, con tutta probabilità le motivazioni sarebbero da rintracciarsi nella mancanza di super-visione parentale dei genitori sull’orientamento ludico dei propri figli in adolescenza, nonché nella mancanza dell’informazione trasversale che ad esempio lo strumento internet offre in alternativa alla informazione televisiva.
Le censure videoludiche, l’abolizione della distribuzione, il ritiro dal mercato di prodotti meritori di essere considerati oltraggiosi possono annichilire l’Arte Videoludica a scapito di chi ne sa fruire con competenza. E' questo che va contrastato. Perché sinceramente il mondo non virtuale non subisce alcuna evoluzione spirituale con Grand theft Auto o con Bully, ma nessuno ha mai messo al bando i film di Tinto Brass o quelli di Tarantino che potrebbero incidersi in modo psichicamente violento, compromettendo la sanità di un adolescente.
Il mio parere è che l’educazione vada avanzata in primis dalla famiglia e dalle strutture didattiche, senza che il timore del videogioco corrisponda in ultima analisi alla sentita inadeguatezza nel non saper educare in modo intelligente i propri figli. Non esiste infatti cosa più facile che demonizzare il mondo cercandone il marcio per non puntare l’attenzione sulla propria inadeguatezza a scalfirlo, fosse anche attraverso il proprio figlio, generazione e appendice del proprio sé.
Il videogioco non può e non ha il potere di contaminare a tal punto la psiche, così come non lo ha un film o una rivista pornografica quando vi sono authority del controllo che ne limitano la distribuzione per fasce d’età.
Il videogioco non è condizionamento o controllo del pensiero. Ma la velocità e la mole di informazioni mediatiche dei nostri giorni pretendono una assimilazione cognitiva che viaggi di pari passo con la capacità di assorbirne le tecnologie, ma che non risulti aliena o intellettualmente refrattaria per gli adolescenti, tutt’altro.
A 8 anni passavo ore a programmare il mio Commodore Vic 20. Sapevo generare programmi musicali, piccoli database comprensivi di schede con i dati della mia famiglia, cose di questo genere. Ricordo che volevo creare una azienda software chiamata CompuData, International Computers. Io e mio padre, un giorno assieme in casa, entrambi storditi dal morbillo, ce la ridevamo mentre lui dettava e io digitavo le linee di Zombie sul mio Commodore Vic20, un videogioco pubblicato su di un manuale zeppo di programmi amatoriali, tutti da digitare per l'appunto.
Il Videogioco non era un granché, ma il Private creatosi in soggiorno con mio padre, io 9 e lui 36 lo ricordo ancora oggi come qualcosa di grandioso. Perché il computer era la mia passione, e dalla dimensione intima in quel momento si trasformava in un momento educativo, di scambio tra padre a figlio, momento di appassionata, affettiva condivisione.
Non ero solo con la mia passione.
Il momento di passione ludica condivisa potrebbe risentire di plurime divergenze oggi. La mancanza di competenza e cultura tecnologica/videoludica, che potrebbe tornare utile ad un educatore come lo può essere per un genitore, è scarsa in ambito familiare, in ambito collettivo e addirittura politico. Si demonizza Bully o Grand Theft Auto che invero gira per mesi su tutte le Playstation2 in prova in un Auchan, ma si soprassiede ridendo se personalmente non si é in grado di inviare una mail On the Net.
I bambini sanno che il Videogioco tratta di finzione, ed è per questo che il videogioco diverte. I miei giocattoli preferiti erano i Lego in quanto mi permettevano di simulare il reale con mio fratello, rappresentavano una forma ridotta di Sims reale, in Multiplayer, e possiedo ancora, impolverata su di un armadio, una busta con tutti i manuali e i mattoncini che formano La stazione ferroviaria, l’Ospedale, la Polizia, i Pompieri, il Maneggio, la Stazione di Servizio, il Cottage privato… ma soprattutto possiedo il ricordo di Nonna Margherita che ci allunga i soldi fuori dal negozio per il nostro regalo di Natale, permettendoci in tal modo di annoverare l’Aeroporto in città, vera e propria meta irragiungibile per noi.
Non c’era nulla di male nelle ore che avremmo dedicato a giocare.
Ma Nonna non mi avrebbe dato nulla per acquistare un film di Tinto Brass: la diseducazione era esplicita, chiunque osservando la copertina avrebbe intuito di cosa trattasse.
Oggi invece soldi si allungano per i videogiochi perché é questo che i bimbi riconoscono come divertimento. Ma quanti genitori non strettamente interessati all’ambito videoludico fanno i più elementari sforzi per reperire una gratuita recensione on-line e leggere quale immonda schifezza sia Rule of Rose, comunicando poi con il proprio figlio, ipoteticamente interessato al prodotto, per motivargli il non acquisto con un minimo di senso?
Quanti politici lo fanno con i propri figli?
Quanti educatori?
Crediamo forse che i bambini o gli adolescenti siano degli idioti? Che il videogioco sia un mostro che magicamente possa far crollare anni di rapporto educativo con i propri figli?
E' semplicemente pretestuoso.
La maggior parte del mondo non avrebbe acquistato Rule of Rose comunque.
Ma eventuali restrizioni applicate in ambito di distribuzione videoludica in Italia, di censura o di qualsivoglia menomazione dell’integrità artistica di un prodotto a causa di Rule of Rose, sarebbero inaccettabili.
Per quanto riguarda me e per chi crede all'esistenza di una cultura del videogioco, tutto questo é inaccettabile.
L’integrità della propria passione videoludica, essendo espressione di cultura, va preservata globalmente.
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OUTPUT

7 novembre 2006

Leon.S.Kennedy : le implicazioni del Bello in Resident Evil 4

Leon.S.Kennedy: le implicazioni del Bello in Resident Evil 4
(di Luigi Marrone)
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Queste, non sono le stesse persone.
Eppure hanno lo stesso nome. Ma non una voce a soffermarsi per sollevare un’oncia di constatazione, una parola, un straniamento o una giustificata obiezione.
Si gioca e basta, questo conta.
Ma se Rocky IV lo avesse interpretato Nicolas Cage, quanto pubblico appeal avrebbe perso/acquistato Balboa rispetto a prima?
Nei videogiochi é diverso. I protagonisti mutano faccia e fisico nel tempo, a braccetto con la definizione grafica. A braccetto con l'action hollywoodiano che avranno da affrontare.
Link di Zelda Twilight Princess ha ora un volto digitale foto-reale. Solid Snake. Samus Aran. Lara Croft. James Sunderland. Sam Fisher. Mario.
Anche Leon Scott Kennedy ora non potrà fare più marcia indietro. In ambito videoludico, una volta definito realisticamente un volto, non si apportano modifiche.
Da come si evince, Il character protagonista di Resident Evil 2 e 4, é somaticamente cambiato nel tempo: volto completamente rinnovato, non più emaciato/sbarazzino/adolescente/scavato tossico…
Questo é quanto accaduto a Leon S. Kennedy dopo 6 anni.
Tali cambiamenti formali/sostanziali, così evidenti, vanno giustificati.
Sarebbe interessante analizzare la scelta estetica digitale Capcom secondo questo punto di vista interrogativo, ossia:
cosa avranno mai da dirsi Schifo e Bellezza in Resident Evil4? Cosa da scambiarsi Aberrazione e Candore?
La Risposta potrebbe essere quella di creare una chimica atta a confrontarsi e superarsi vicendevolmente.
RETROFLASH in POETRY.
Così, ad un tratto chiedersi, ossessivamente chiedersi a cosa serve, dove conduce, di quale utilità sia il piacere perverso per il disfacimento - visualizzato ed esperito negli occhi - occhi contagiati alla vista del sangue… chiedersi da dove nasca la nervosa pulsione che conduce alla ricerca di malattie - “ Carne che non conosce dolore. Una forza ben superiore alle capacità umane… Qualcosa nei loro occhi. In mezzo alla loro follia sono riuscito a scorgere un barlume d’umanità “

Quel pallore anemico dell’Avatar – l’affiorare di capillari su liscia pelle nitida, sottile, bianco malata – orbite rosee alonate, iniettate, che lasciano emergere puri occhi di fredda malattia, occhi ormai compromessi al contatto con aberrazioni, decomposizioni, carni genetiche alterate e stomachevoli putrefazioni… L’avatar Leon Kennedy non é customizzabile in quanto incontro supremo e romantico fra bellezza e decomposizione, prodotto dell’iper suscettibilità al putrido - alla morte e alla visione di vermi, allo sporco disfacimento, merda e ruggine e sangue e siero e bava frammista all’istintiva violenza disumana - rantolii alitosi e rivoltante puzzo di un de-criogenizzato Regenerador, agghiacciante mutante.

AGAIN.
La contaminazione della bellezza è dramma, molto più di quanto si possa immaginare. Le morti connaturate al primo Resident Evil erano veemenza contro un Avatar videoludicamente distinto dalla controparte in FMV, dai filmati con attori in carne ed ossa, distanti dal gamer.
Leon S. Kennedy del Resident Evil 4 si presenta alle stampe attraverso la sua controparte digitale, che risulta una e trina : promozionale, FMV e in game.

Indice di qualcosa.

Le morti colpiscono ancora più fortemente. Sono dramma di Game Over indimenticabili. Adoro le morti di Resident evil 4 in quanto sputo in faccia all'invulnerabilità indolente e hollywoodiana dell'Eroe protagonista. Sequenze action drammaticamente spezzate. E' questo il videogioco che mai sarà permesso al cinema.
Io posso veder morire l'Eroe.
Perché non ci sono più Super-Eroi.
In Resident Evil 4 si muore male.

RETROFLASH in POETRY n° 2
Nel momento in cui lo si sente urlare, lamentarsi, inforcato da Ganados, strozzato, assalito dalle motoseghe del Dr.Salvador e le Sorelle Bella, sbalestrato da El Gigante, schizzato in viso dal rigurgito d’acido dei Novistadors, penetrato da frecce o schegge dinamite e grumi/proiettili di rocce, rozzamente decapitato… i suoi gemiti, il sangue dappertutto dopo il passaggio dei laser fra le sue carni… il morso terrificante di un Regenerador, denti aghi a lacerare tessuti.
Dopo il dolore s’avverte qualcosa d’assimilabile all’assenza di speranza. La cruenza di scene di morte in Resident Evil 4 conducono al pensiero che il Tempo degli Eroi è ormai tramontato.
La violenza della morte é il capolinea delle speranze.

" Ma d’un tratto, nonostante i fervidi esempi degli sviluppi dello scempio, sappi che in ogni luogo e in ogni momento, potrei ricordarmi di intuire la nostra Bellezza “








E’ il momento in cui il suo candore diviene svolta messianica, il momento in cui pulsa lo splendore indolente d’una luce candidamente tonitruante : l’evidenza della Bellezza.
L’incontro supremo e grottesco, drammatico e idiosincratico fra bellezza e decomposizione imbastisce speranza nel videogiocatore, allontanando la repulsione verso il simulacro Leon Kennedy e personalizzando il coinvolgimento emotivo.
Scelta del design significante, significativa, operativa nel manipolare/polarizzare dinamiche di gusto più sottili, particolari.
Resident Evil 4 è mainstream, ma gioca alla perfezione con i cliché Hollywoodiani, a creare una ingegnosa chimica dialogica tra orrore e coraggio, tra deforme e simmetria.

RETROFLASH IN POETRY n°3
Da feritoie dentro cascine alle finestre ottocentesche spalancate al plenilunio, odore di muffe, vasche di vermi e legname marcescente di un Pueblo - alle architetture minuziose del castello di Salazar, esse vengono a redimere dappertutto : argani di luce improvvisi fendono l’aria greve e stantia, radiandosi in aloni mesmerici - spandendosi come amebe nell’odore di polvere e carne. Un anelito inconscio di redenzione, sub-liminale, apre improvvisamente uno spazio dentro : la luce è persistenza che ridona vigore, slancio di speranza nello schifo perverso.
Come la bellezza.


Il connubio è compiuto. Il perfetto e fatale meccanismo sa come celebrare l’insperato consenso del coraggio : la luce è Bellezza, la Bellezza è Luce : Armonia irresistibile e irretimento inevitabile, per chiunque e sempre. Di concerto alla decadenza dell’eroe, il connubio detiene la speranza di redimere gli scempi del corpo e della carne. Una Full Motion Video prende piede, autonomia d’una sequenza programmata, ci si accorge che nella malattia Egli è il messianico eroe nel marcio in quanto Bellezza efebica nello schifo più puro.

E mediante la Bellezza, l’autore modello sente il perverso coraggio di non impazzire.

Equilibrio ed armonia delle forme sanno magicamente contrastare le mostruose asimmetrie delle aberrazioni della carne, per loro forza intrinseca, autonoma, benedetta, cosi come invece sono maledette da un male residente le mutazioni post-plagas. Benedizione e maledizione, perfette presenze sincroniche/diacronoche in Resident Evil 4.
La potenza di calcolo poligonale permette fotorealistiche aberrazioni. Dopo il post processing del rendering i GameDesigner lo realizzano, sussultano anche loro.
E’ troppo. La violenza è devastante.
Il character design gioca un ruolo psicologico fondamentale: in bilico antitetico fra armonico e non divene sfida buona a risollevare il morboso dal perverso. Il gioco sottile funziona. Gli elementi magnetizzano gli occhi e l'interesse persuasivo, attirando al brand chi proietta il proprio sé per identificarsi con l’Avatar bellissimo.
Nello schifo, l’Avatar Leon S. Kennedy risplende come diadema, presenza perfetta/contaminabile, armoniosa nella totale disarmonia del disfacimento.
Un circuito funzionante fra video-giocatore e malato vedere è innestato : auto-alimentazione. Nascono Fan-zine su Leon Kennedy, su Ada Wong - i Gamers non possono fare a meno di scivolare nel meccanismo fatale.
Nessuno sfugge alle implicazioni del bello.
Leon Scott Kennedy, da insulsa crisalide, diviene farfalla narcisa.

Piangono i detrattori della grafica bellezza.

1 novembre 2006

Brainstorm. Per una mistica del Videogiocare.

Brainstorm. Per una mistica del Videogiocare.
(di Luigi Marrone)
Saggio pubblicato su www.videoludica.com il 02.11.2006
Canale Cinema TechnoLudico
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Brainstorm – Generazione Elettronica

Titolo originale : Brainstorm
Regia: Douglas Trumbull
Storia : Bruce Joel Rubin

Sceneggiatura : Philip Frank Messina, Robert Stitzel
Fotografia : Richard Yurichich
Costumi : Donfeld W.
Scenografia : John Shore

Musiche : James Horner
Montaggio : Freeman a. Davies Cox, Edward a. Warschilka Shore
Anno : 1981 (USA)
Nazione : Stati Uniti
Produzione : Joel Freedman per JF Production/MGM
Distribuzione : Metro Goldwin Mayer/UA (1984)

Durata : 106 min.
Effetti : Eric Keogh, Martin Shore, Tom Atkinson, Robert Atkinson, Don Baker, Robert Hall, Mark Shore, Alison Atkinson

Cast : Christopher Walken (Dr. Michael Brace) - Natalie Wood (Karen Brace) - Louise Fletcher (Dr. Lillian Reynolds) - Cliff Robertson (Alex Terson) - Jordan Cristopher (Gordy Forbes) - Donald Hotton (Landan Marks) - Alan Fudge (Robert Jenkins) - Joe Dorsey (Hal Abramson) - Bill Morey (James Zimbach) - Jason Lively (Chris Brace) - Darrell Larson (Tecnico Sicurezza) - Stacey Kuhne Adams (Andrea) – John Hugh (Tecnico lab. animali) Keith Colbert (Dr. Ted Harris) - Jerry Bennett (Janet Bock) - Lou Walker (Cuoco).
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Brainstorm è un film importante.
Esteticamente e strutturalmente non un bel film forse, ma è un film importante.
Dedicato alla scomparsa dell’attrice Natalie Wood (Gioventù Bruciata – 1955, Sentieri Selvaggi 1956, West Side Story – 1961) avvenuta poco prima del termine delle riprese, Brainstorm (USA 1981 – di Douglas Trumbull) ha una portata visionaria e una particolare importanza filosofica che a tutt’oggi risultano ineguagliate.
Da un punto strettamente stilistico il film annovera diversi elementi cari all’immaginario Cyberpunk : grafica poligonale segnata da suggestioni cyberspaziali, condizionamento cerebrale, sesso virtuale, sim-stim, hacking e tanto di governo e servizi segreti ad intridersi in meccanismi sociali non del tutto pacifici, regalando in tal modo allo spettatore del 1981 suggestioni totalmente (o quasi) inedite, molto diverse da quelle descritte dalla fantascienza tradizionale.
Sarà forse che l’accostarsi e il rapportarsi a Brainstorm era alquanto difficile nel 1981 per la mancanza di categorie e strumenti cognitivi atti a penetrare il tessuto fertile del suo immaginario, eppure non stupisce affatto che la pellicola all'epoca sia stata accolta tiepidamente nonché poco compresa. (Nota 1)
Se i primi 20 minuti di film sono ricchi di personalità, di pathos e di fascino elettronico-ansiogeno, montaggio e appeal visionario perdono palesemente colpi col passare del tempo, rallentando di molto l’attenzione dello spettatore. Sul teleschermo inoltre, gli effetti speciali realizzati dal regista per una pellicola di 70 mm per il grande schermo sono in gran parte vanificati.
Da un punto di vista retrospettivo il film appare quale primo vero antesignano "consapevole" dei cyber-cinema, vero e proprio rivelatore e anticipatore di idee sulle quali si reggeranno numerose opere a seguire (Tron, Fino alla fine dei mondo, WarGames, Strange Days, Il Tagliaerbe, ecc).

Ma perché Brainstorm è così importante ?
In Brainstorm alcuni ricercatori realizzano un casco iper-tecnologico che permette di immergere sensorialmente un individuo nei dati psico-fisici percepiti in tempo reale o registrati precedentemente da un altro soggetto (munito di casco a sua volta), uomo o animale che sia. Tatto, sapore, vista, odore, udito, impulsi nervosi, sensazioni… la mente del soggetto ricevente tramuta il playback di dati registrati in dati propri, creando un vero e proprio circuito di feedback simulativo con immersività al 100%, ben oltre qualsiasi manifestazione telepatica.
Diversamente dai videogiochi, non è possibile influire sul playback in quanto non esiste alcun tipo di interazione ma solo la possibilità di rivivere l’esperienza sensoriale pre-registrata, con aderenza totale. Brainstorm lascia intendere che una simile applicazione in ambito didattico, nonché per edificanti esperienze virtuali, potrebbe eventualmente trovare brillanti utilizzi.
Ma oltre all’interesse del governo e dei servizi segreti militari pronti a sfruttare per scopi bellici la portata del ritrovato tecnologico, prima di estromettere i ricercatori dal continuare gli studi, questi scoprono che il casco può registrare i ricordi coscienti nonché l’inconscio di chi lo indossa, contemplando persino le affezioni patologiche (come si scoprirà quando il ritrovato tecnologico cadrà in mano all’equipe di ricerca dei servizi segreti) : rimozioni, traumi, ossessioni, psicosi, schizofrenia… in altri termini, é possibile registrare cavie umane inducendo loro il manifestarsi di sintomi patologici per vivere direttamente il loro punto di vista sensoriale, visionario, emotivo e psicofisico.
Prima del consolidarsi del dispotismo governativo, Lillian Reynolds (Louise Fletcher), scienziata chiave del progetto, accanita fumatrice e donna dalla facile irascibilità, è vittima di un attacco di cuore nel suo laboratorio, mentre sta lavorando sola, di notte, all’ottimizzazione del progetto.
Prima di morire, durante una scena altamente drammatica, Lillian riesce a trascinarsi sino alla postazione di registrazione del collega Michael Brace (Cristopher Walken), indossare il casco (nel frattempo miniaturizzato sino alle dimensioni di una fascia per capelli) e registrarsi su di un nastro magnetico a lettura ottica.(Nota 2)
Il nastro registra quindi la sua agonia e la sua morte sino a “fine pellicola”.
La visione di questo nastro, vero e proprio testamento spirituale della ricercatrice, dapprima suscita nel collega Michael attimi drammatici in quanto gli ripropone psicofisicamente l’insufficienza cardiaca e l’agonia degli ultimi momenti di vita della scienziata. Successivamente, apportando dovute modifiche all’hardware del sistema e inibendo gli impulsi sensoriali deleteri lasciando solo quelli visivi e uditivi, il nastro/testamento permette al Dr.Brace di viaggiare e assistere al passato e ai ricordi della donna, sbrogliando la matassa di rapporti nodosi del film e valorizzando retrospettivamente la ricercatrice quale figura chiave dell’intera ricerca (con tutte le dovute opposizioni umane da lei incontrate per attuarla).
Ma ben più importante è il miracolo memorizzato dal progetto Brainstorm : il nastro ha difatti registrato un vero e proprio viaggio post-mortem della donna, comprensivo del distacco dello spirito dal suo corpo e trasmigrazione spirituale di presunta espiazione che dall’Inferno conduce alla visione del Paradiso.
Il Dr. Brace, interrotto bruscamente all’inizio dall’esperienza sensoriale mistica, farà di tutto per recuperare e visionare completamente il nastro, soprattutto dopo esser stato tagliato fuori dalle ricerche.
Negli ultimi minuti di film, Michael Brace vivrà questo viaggio trasmigrante dello spirito della Dr.ssa Reynolds sospeso in una estasi sensoriale psico-mistica ed uscendone infine spiritualmente e definitivamente illuminato.
Brainstorm (in Italia Brainstorm – Generazione Elettronica), pur annoverando elementi cari all’universo Cyberpunk, è un film che viaggia oltre il genere, in primis perché la tecnologia diviene espediente, non l’ideologia : la funzionalità dell’helmet realizzato dai ricercatori si trasforma infine in un miracoloso supporto tecno/mistico per la Visione Ultima, ben lungi dal rappresentare un palliativo per una seducente poetica pessimista ed esistenzialista.
La tensione congenita all’universo Cyberpunk, letterario o cinematografico che sia, il quale in genere ipotizza società dove il pessimismo filosofico/esistenziale viene solitamente a specchiarsi nella convivenza con androidi i quali, similmente agli uomini, non hanno alcuna certezza delle proprie origini e del loro futuro (malgrado il loro determinismo tecnologico), in Brainstorm viene definitivamente risolta.
Dio esiste.
Dio c’é.
Lo Spirito può disincarnarsi dal corpo per trascendere la materia.
Inferno e Paradiso sono ambienti spiritualmente palpabili.
E Last but not least, Brainstorm avanza l’ipotesi che mediante scienza e ricerca tecnologica è possibile trascendere il mondo materiale sino alla visione del Divino.

Ma per altri aspetti determinanti, Brainstorm è un film filosoficamente importante da un punto di vista strettamente video-ludico.
A proposito dello stato di trance del videogiocatore immerso in una esperienza virtuale, Ivan Fulco scrive ne Lo zero ludico – Decostruzione del videogioco e fondamenti della pulsione ludica (Per una cultura dei Videogames. Teorie e prassi del videogiocare. A cura di Matteo Bittanti. Unicopli. 2002/2004) – (parentesi e corsivi miei) :
Quello che conta è che in quel momento, dopo la decisione di proseguire (nel videogioco), il giocatore è quasi felice. Per un breve istante può anche credere di vincere nel gioco della vita. Almeno fino a rendersi conto che non si tratta altro che di un videogame “.
Rielaborando il pensiero di Fulco in modo polisemico e speculativo, ci si chiede :
E se questa felicità in ultima analisi non fosse altro che il sintomatico e inconsapevole esplicitarsi di una pulsione mistica appartenente a tutti i fruitori di realtà virtuali, videogiocatori compresi, ossia quella di raggiungere una ideale la fonte di energia del Tutto ?
E ancora : E se questa complice e inconsapevole pulsione insita in ogni gamers fosse assimilabile all’esperienza panica legata alla possibilità di incontrare il Divino ?
La forma mentis del videogiocatore attento alle vibrazioni del mondo videoludico tende a sensibilizzarsi osmoticamente con l’universo d’informazioni che lo circonda. Le riviste di settore hanno la tendenza e il potere di strutturare l’apparato filosofico e per certi versi metafisico del lettore.
In Videogiochi e Cultura della Simulazione. La Nascita dell’Homo Game. (Editori La Terza Ed.2004), Gianfranco Pecchinenda, nel paragrafo 5.2 denominato Corrispondenze, scrive (testo fra parentesi mio) :
Se però si analizza la struttura della maggior parte delle riviste (che trattano temi videoludici) è possibile notare quello che probabilmente rappresenta uno dei motivi principali che si trova alla base della crescente espansione del mercato dei videogiochi : il meccanismo della corrispondenza, basato sull’idea che il mondo in cui viviamo, e gli eventi mondani che in esso si verificano, non sarebbero altro che una manifestazione inferiore corrispondente ad un macrocosmo di ordine superiore, di carattere trascendente”.
I videogiochi e il loro universo virtuale interessano, blandiscono, ammaliano il videogiocatore, ingenerando l’idea di rimandare ad un altro mondo dal carattere trascendente.
La fascinazione di alcune produzioni rientranti nel genere survival horror (solitamente giocati in single player, muniti di cuffia audio e favore complice della notte) quali ad esempio la serie Silent Hill (Konami, 1999) e Forbidden Siren (2004, SCEI) per citarne alcune, ingenerano un interesse filosofico/speculativo per l’esistenza nonché per le tematiche orfiche dell’esistere molto più lungimirante di quanto si possa immaginare. La ricerca di simbolismi testuali e non, le analisi di carattere antropologico/teologico/culturale nonché l’interpretazione metafisica dei comparti ludonarrativi, differenti per ogni videogiocatore, sono eventi naturalmente generati dal genere di appartenenza. Forum di esegesi per tali artefatti, assieme ad altre produzioni videoludiche fortemente autoriali ma per motivi estremamente differenti, sono spesso annoverabili, in ambito videoludico, quali i più lunghi e prolifici testi speculativi on the net, nella quale le trattazioni rilasciate dagli utenti possono assumere una tale forza autoriale autonoma da annoverarsi quale vera e propria trattazione culturale di interesse generale per tematiche vertenti su Aldilà, Religione e Divinità.
I videogiocatori affrontano tali esperienze con una predisposizione mistica o pseudo-mistica, secondo la quale viene incosciamente postulata la realtà del divino e per la quale lo spirito del gamer sente di conquistare una possibile risoluzione del sé o dell’esistere in generale.
Tale tensione verso il trascendente è un fattore di primo piano per l’acquisto di un prodotto di tale genere, di concerto con la possibilità di trattarne e discuterne poi le suggestoni in una comunity con i medesimi interessi e le stesse pulsioni : quelle di affrontare viaggi nei quali esiste la possibilità videoludica di dare un senso all’esistere, di tentare una spiegazione alla cosmo-genesi o di interpretare i rapporti fra Uomo e Divinità.
E’ lecito quindi supporre che tale fascinazione genera un alto coinvolgimento e senso di partecipazione al gioco in quanto inconsciamente frammista al timore panico, esasperato dallo schianto emotivo con il deforme e l’aberrazione presenti nei survival horror, di imbattersi nel Divino.
Tornando a trattare del film di Trumbull, se la tecnologia rende possibili spazi di visione corpo-trascese chiamate Realtà Virtuali/Matrice/CyberSpazio/VideoGames, in Brainstorm la tecnologia permette all’uomo la Visione Ultima, probabilmente la più fondante e importante : la visione del divino.
Nel seminale romanzo cyberpunk Neuromancer (in Italia Neuromante. W. Gibson, 1984) Case, un hacker mercenario, viene privato della possibilità di connettersi al cyberspazio e condannato alla prigione materiale del suo corpo di carne. Egli soffre per il fatto di essere abilitato a percepire solo la realtà materiale, ad essere semplicemente un uomo non-connesso con lo spazio trascendente chiamato Cyberspazio. L’eccitazione tutta hacker insita nell’immaginario decadente Cyberpunk, ovvero quella di disincarnarsi e smarrirsi nell’Ignoto del Cyberspazio in luogo dei dati della realtà materiale, in Brainstorm viene definitivamente risolta.
Non è mistero infatti che ogni realtà virtuale é rappresentazione elettronica di un ambiente fisio-trasceso, ma ben più filosoficamente stimolante è ammettere che l’attrazione, l’eccitazione, la curiosità per l’Altrove permesso dagli spazi videoludici nasconde la fascinazione per la possibilità di incontrare e di restare illuminati da qualcosa che sia lo scopo ultimo dell’esistenza.
Immergersi in videogames vuol dire sempre immergersi in realtà fisio-trascese, universi elettronici di carne-assenti. L’eccitazione e la voglia di videogiocare trasformano la prima partita ad un nuovo Videogame in un viaggio inizialmente carico di mistica tensione verso l’Ignoto (VideoLudico).
L’accanimento del Dr. Brace in Brainstorm, il suo spasmodico bisogno di terminare la visione del nastro trascendente che lo condurrà all’illuminazione, esplicita la pulsione inconscia di un qualsiasi uomo-videogiocatore appassionato di tecnologie atte ad esperienze di realtà virtuali : viaggiare per giungere alla scaturigine dell’Ignoto dello spazio virtuale, al fine di giungere alla visione della Verità Ultima, del significato probabile e assoluto della propria esistenza.
In Michael Brace, l’eccitazione di esperire la realtà (virtuale) dentro un nuovo software, tipica del videogiocatore, si tramuta in eccitazione di esperire la realtà (spirituale) dentro una mente umana.
Scrivendo viceversa, vuol dire che il processo è il medesimo. Lo spasmo del videogiocatore che acquista un nuovo software e non vede l’ora di smarrirvisi dentro al più presto, la trance videoludica o l’annullamento della realtà ordinaria durante il finale di un buon videogame, sono stati assimilabili allo giungere della verità di quel particolare universo videoludico.
L’eccitazione mistica del Dr.Brace é generata dalla medesima cosa : giungere alla fine di un viaggio all’interno di un universo trascendente, lo spirito della Dr.ssa Reynolds, con una portata filosofica innegabilmente più fondante e spaventosa, quindi. In entrambi i casi, l’eccitazione voyeristica e la tensione scopica remano a favore di un viaggio illuminante. La smania di (video)vedere di Michael Brace non è altro che eccitazione per un viaggio nella mente e nello spirito umano, in luogo di uno spazio creato da un software videoludico, smania per la quale Scienza e Tecnologia si fanno medium per la risoluzione del significato ultimo dell’esistenza, punto nodale dei problemi filosofici.
Per una Filosofia del Videogiocare, infine.
L’attrazione, l’entusiasmo, l’aspettativa per l’Altrove permesso degli spazi Videoludici è con tutta probabilità specchio dell’inconscia tensione verso un possibile, latente Aldilà. Il videogiocatore si immerge in cyberspazi per sostanziare altre vite, altre possibilità fantastiche : egli tenta il disincarnarsi dal proprio corpo per immergersi in altri schemi sensoriali, altri punti prospettici, percezioni e facoltà virtuali di altre entità digitali.
In altri termini, il videogiocatore si immerge in cyberspazi videoludici per trasmigrare la propria anima in ambienti che fisio-trascendono i dati della realtà sensoriale non “in- game”.
Ogni volta quindi, l’eccitazione dei videogiocatori per nuove esperienze immersive in cyberspazi videoludici potrebbe essere paragonabile ad una occulta tensione mistica, in quanto comportante l’abbandono del proprio corpo e la tendenza all’oblio del dato materico della realtà ordinaria a favore di una con-fusione spirituale con l’ambiente virtuale da vivere/esperire/rendere complice col proprio sé.
La pulsione al videogiocare esplicita quindi la tensione all’abbandono del proprio corpo per immergersi in un contesto disincarnato rispetto alla propria realtà materiale.

A questo punto è doveroso interrogarsi su tale quesito : L’eccitazione, la felicità donata dal disincarnarsi che spesso si prova immersi in un ambiente virtuale ludo-interattivo, tratta forse del preannuncio dell’ineluttabile abbandono del proprio corpo, un giorno, per una nuova sensorialità orientata alla visione di una Divinità ?

Il videogiocare felice, ricco di pathos, emotivo e pieno di sensazioni, comportando il potenziale dislocamento dal proprio essere verso un Altrove (VideoLudico), é assimilabile quindi ad una tensione mistica, trasmigrante verso l’Infinito, per la quale la Felicità è sinonimo di compenetrazione e confusione con Esso.
In altre parole, Avatar e Divinità che diventano davvero un’unica cosa.

Consapevolmente o meno, Brainstorm può informare di tutto questo, nel suo finale.
Per una mistica del videogiocare, Brainstorm andrebbe visionato.
Note
*Data la massiccia line-up di tecnologie e pseudo-tecnologie in mostra, Douglas Trumbull, esperto in effetti speciali, per rendere più immersivo il film avrebbe desiderato filmare parti di Brainstorm in Showscan, ossia Widescreen 60 frame-per-second, ma i costi di retrofitting dei teatri dove il film sarebbe stato proiettato sarebbero risultati proibitivi.
Se la versione Showscan fosse stata realizzata, ciascun frame non “Brainstorm” sarebbe quindi stato stampato due volte per generare un normale rate di film a 30 fps, adatto a supplire alla riprese non-widescreen. L'intenzione era di generare un punto di vista, presumibilmente soggettivo, che potesse avvicinarsi a quello che i personaggi sullo schermo stavano osservando.

** In realtà il nastro magnetico utilizzato in Brainstorm é tutt’altro che un particolare formato in commercio nel 1981. Si tratta di una varietà di nastro decorativo argentato/dorato fatta da 3M, venduto soltanto nelle larghezze di 4 pollici, costringendo gli addetti a sfilarlo manualmente sino ad adattarlo nelle macchine da nastro da 2 pollici. Per aumentare i riflessi luminosi, i nastri venivano trattati più volte con una sabbiatrice, avanti e indietro, risultato che sbalordì per i vividi riflessi luminosi che il al nastro proiettava. “Una di quelle cose che sono apparse meglio in pellicola quando abbiamo finito di girare” ha commentato Douglas Trumbull.
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24 ottobre 2006

Critici d'Arte. Come guardano ai videogames?

Arte e Videogiochi: il progresso tecnologico e il giudizio della critica non-videoludica alla video-interazione.
(di Luigi Marrone)
Trattazione pubblicata su www.videoludica.com all'indirizzo
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Un luogo ancora da analizzare/immaginare/speculare a fondo, relativamente al dibattito arte e videogiochi sono le motivazioni che sino ad oggi hanno giocato a sfavore dei videogames in merito al loro potersi erigere ad Arte secondo principi estetici paradigmatici definiti, come per altre consolidate forme espressive.
Dando per assunto che "I videogiochi non sono arte semplicemente perché i critici di professione non hanno prodotto (o non hanno voluto produrre) dei sistemi estetici adeguati a rendere conto delle peculiarità del medium e del suo linguaggio" (Bittanti), la domanda che propongo è la seguente :
Potrebbero mai stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati quando il progresso tecnologico tende ad evolvere i paradigmi autoriali sui quali potrebbe definirsi una data espressione artistica compiuta?E ancora:Come possono i critici adeguare determinati principi estetici al medium videoludico essendo costretti a ri-definirli secondo il continuo processo tecnologico che, nel tempo, tende a ridefinire la stessa estetica dei videogiochi e del videogiocare?
Prima di fornire risposte a tali quesiti, sarebbe interessante chiedersi come potrebbe essere percepita la videointerazione ludica, nonché la relativa critica specializzata nel settore, da parte di un sistema critico non-videoludico. Soprattutto se, immaginando tale incontro, e analizzandone la prospettiva analitica da un punto di vista non settoriale, potrebbero generarsi contributi interessanti per la comunità videoludica, per gli studiosi del medium nonché per gli stessi critici che volessero fare del testo videoludico una espressione complessa pari ad altri artefatti culturali.

Si potrebbe immaginare che una delle difficoltà trasformatasi in consolidata ritrosia da parte di molti settori della critica non-videoludica a considerare i videogiochi “Arte” al pari di altre espressioni artistiche, non sia da ricercarsi nella natura del medium in sé, bensì nella considerazione storica che la stessa ha dei videogiochi, a partire dai "pionieri" che hanno scritto la storia iniziale del medium. Pong, Space Invaders, Pac-man… tali forme videoludiche offrivano rappresentazioni stilistiche ridotte all’osso, ognuna fortemente caratterizzata da un minimo comun denominatore: i propri evidenti minumum estetici, dal gameplay al coinvolgimento audiovisivo, e via dicendo.
Al contrario, gli artefatti del cinema, musica, pittura o letteratura ad esempio, non sono stati considerati da parte dei sistemi critici, seppur ne abbiano sofferto, come afflitti da limiti congeniti, nonostante siano stati investiti nel tempo da una evoluzione tecnologica nei supporti di registrazione, produzione, conservazione e quanto altro. Di tali testi specifici vengono analizzati i contenuti, i contesti socio-politici nel quale sono inscritti nonché tanti altri diversi aspetti in relazione fra loro.
Ma ciò che li ha sempre differenziati dagli artefatti videoludici è che essi sono sempre stati riconosciuti quali diretta e sacrosanta espressione dell’uomo/artista in un determinato punto del tempo e dello spazio, in virtù della quale espressione la componente tecnologica non è mai stata considerata limitante, bensì di supporto alla comunque libera visione umana in grado di esprimersi con gli strumenti a disposizione.
Il videogioco, in quanto prodotto totalmente mediato, filtrato, esplicato da un hardware tecnologicamente definito (leggi limitato), potrebbe essere idealmente considerato dalla comunità critica non videoludica quale medium riduttivo, limitante la libertà espressiva dell’uomo, dovendo questi adattarsi alle risorse tecnologiche disponibili ad esaudire la propria visione ideale.
Il problema non si risolve quindi nell’accettare i compromessi legati allo specifico artistico del medium videoludico, bensì attraverso una riflessione sullo stesso comparata ad altre espressioni artistiche compiute, le quali, de facto, non soffrono di tali disagi interpretativi.
In qualità di linguaggio puramente digitale, risultato di programmazione di un codice macchina, il videogioco è a tutt’oggi influenzato dall’hardware che lo supporta, dalla tecnologia che ha il potere di definirlo, nel tempo, addirittura ontologicamente.
Credo sia possibile azzardare l’ipotesi della ridefinizione ontologica del medium videoludico in quanto non vi è nulla a precludere la possibilità che in futuro la tecnologia, attraverso nuove interfacce di connessione uomo-macchina, mediante progressi in campo biomedico legati alla bio-cibernetica, potrà a tal punto stravolgere il modo come intendiamo oggi la “ludica video-interazione” da farci stabilire che le pratiche videoludiche passate, come vengono intese da noi oggi, non possano assolutamente essere definite “video-interazione” ludica. (eXistenZ di David Cronenberg – 1999 – ne è una stordente ipotesi).
Non a caso é sintomatico che dopo più di trent’anni di storia videoludica, con buona pace dei puristi del retrogaming, molti videogames del passato non vengano più giocati in quanto incapaci di intrattenere come un tempo, a causa del progresso tecnologico che ne ha sfiancato il potere di divertimento ludico rispetto a proposte più attuali.
In altri termini, la tecnologia in ambito videoludico ha l’immenso potere di ridefinire nel tempo il piacere di fruire degli elementi propri degli artefatti videoludici, causa trasformazioni/evoluzioni estetiche e strutturali all’interno delle opere ludiche.

Come in precedenza affermato, i limiti hardware dietro i videogiochi riducono le facoltà umane d’espressione, in quanto queste, a loro volta, vengono limitate, azzoppate, handicappate dagli inevitabili limiti congeniti della tecnologia che ne è alla base.
Ciò comporta l’idea che sino a quando il vecchio sarà rimpiazzato dal nuovo, vi sarà la diffusa, conscia/inconscia opinione critica che un prodotto videoludico non presenti solide fondamenta né una base certa dalla quale poter analizzare esteticamente il medium in modo paradigmatico, con il conseguente rischio di non poterlo considerare in grado di generare forme artistiche compiute come per altre forme espressive.
Limitando difatti le possibilità dell’uomo, il limite hardware costringe l’uomo a privarsi di una delle caratteristiche che lo rendono uomo/artista in quanto tale: la totale libertà di espressione della propria visione, ovvero di realizzazione della stessa. Per questo il medim videoludico potrebbe difficilmente essere accostato, dal sistema critico, ad altre espressioni artistiche umane.
Per quanto le influenze socio-culturali favoriscano la nascita di intelletti in determinati periodi spazio-temporali, nulla avrebbe vietato ad esempio ad un uomo quale Pablo Picasso, se fosse esistito cento anni prima, di dipingere un quadro cubista, potendo egli disporre della stessa personale, inalienabile visione appartenente a lui come uomo/artista Pablo Picasso, nonché degli stessi strumenti espressivi (tela, colori, pennelli) a disposizione degli artisti del novecento.
Così come nulla ci vieta di pensare che Pablo Picasso abbia invece anticipato i tempi, e che in realtà la sua pittura avrebbe dovuto generarsi solo cinquanta anni dopo, quando il contesto fisico e sociale sarebbe stato idealmente più favorevole.
Ciò che più conta in definitiva, è che Pablo Picasso avrebbe potuto strumentalmente realizzare la propria visione pittorico/stilistica, in quanto possibilitato a prescindere temporalmente.
La visione artistica di un uomo è solitamente quindi un elemento in grado di trascendere il tempo.

Nel 1970 la PlayStation non poteva essere tecnologicamente concepita, e le prime console da gioco ad esempio erano dotate di un hardware ultra-limitato, con gli sviluppatori costretti a conformarsi alle loro prestazioni. Nonostante l’eccitazione per la speranza riposta nel futuro del progresso elettronico, non è tabù affermare che sin dall’inizio il bisogno dei game designer di espandere la propria libertà di visione in ambito videoludico ha dovuto sempre scontrarsi con la tecnologia.

È possibile supporre che sia stato proprio questo ad aver contribuito a seminare nel tempo, all’interno dei sistemi critici non strettamente interessati alla ludica video-interazione, l’idea del videogioco quale medium stringente, soffocante, limitativo per la totale soddisfazione artistica e la conseguente libertà autoriale dell’uomo.
Se oggi è possibile allontanarsi sempre più dalla vetusta concezione di “limite tecnologico” caratterizzante le macchine dei primi videogiochi, è pur leggittimo concedersi la libertà di presumere che all’alba di possibilità inedite e alla velocità con la quale il medium si sta evolvendo ci si trovi in una scomoda posizione di definizione dello stesso, in quanto non è mai facile definire paradigmaticamente un medium in evoluzione, che pare denigrare il se stesso lasciatosi alle spalle ad ogni passo in avanti compiuto. Per tale motivo viene più facilmente concessa e riconosciuta ai pionieri dei primi videogiochi l’abilità e l’abnegazione nel programmare macchine esigenti piuttosto che il riconoscimento artistico/istituzionale/paradigmatico delle proprie idee.
Da ciò ne conviene che se un quadro innovatore, precursore di un movimento artistico è capace di divenire un artefatto artistico paradigmatico, e di conseguenza valutato unanimemente secondo determinati criteri estetici, è perché l’opera e la visione pioneristica del genio, a prescindere dai suoi strumenti artistici a disposizione o inferenze socio culturali, è libera da vincoli di sorta, senza mediazione se non quella della sensibilità artistica del proprio autore: in altri termini, e ancora, la libertà di visione dell’uomo dovrebbe sempre trascendere il tempo essendone slegato, permettendo in tal modo il libero generarsi di uno specifico paradigma critico convenzionale, non timoroso di stabilirsi secondo stabili e sicure coordinate.
Di conseguenza, e in tutta naturalezza, l’opera artistica viene considerata un’espressione artistica compiuta.

Nel campo videoludico, durante le GDC (Game Developer Conference), è raro non sentire un game designer lamentarsi della difficoltà di approccio delle nuove tecnologie, dei tool di sviluppo per i nuovi sistemi o dei limiti suggeriti dalle caratteristiche tecniche dell’hardware col quale dovrà confrontarsi per attuare la propria visione ed esprimersi. A tutto questo vanno ad aggiungersi le dichiarate insofferenze verso le software house, vere e proprie realtà corporative con tutto il loro carico di analisi di mercato e strategie di marketing, visione economica di produzione e relativa pressione sui team di sviluppo.
Come se non bastasse, le nuove tecnologie di visione legate all’intrattenimento videoludico - dai televisori ad alta definizione sino ai touch sensitive screen del Nintendo DS, ad esempio - non fanno altro che ridisegnare i supporti, le “tele” atte alla visione elettronica, nonché le metodologie interattive mediante le quali i game designer si sono fino a poco tempo fa espressi.
Tale processo evolutivo, schiaffeggiando drasticamente le passate tecnologie visive (la tecnologia CRT - Cathodic Ray Tube, i vecchi Televisori a tubo catodico), stabilisce ormai che chi non possederà l’Alta definizione sarà tagliato fuori dal godere appieno delle nuove console Sony e Microsoft, a prescindere dalla propria competenza in ambito videoludico.
Difficilmente invece un quadro, una canzone, una scultura o un film subiscono nel tempo un rinnovo degli strumenti di fruizione così drasticamente correlati al progresso tecnologico. Inoltre, dove un pittore ad esempio può esprimersi indifferentemente su muro/tela/legno facendo di volta in volta uno specifico di genere a seconda dei differenti supporti per la sua arte (con la critica pronta ad analizzarne indifferentemente il segno, a prescindere dal supporto sul quale è registrato), mutare i supporti elettronici visivi in campo videoludico vuol dire tracciare violentemente il profilo di una nuova estetica visuale, impossibilitando inoltre il dietro-front ideologico in quanto sarebbe la tecnologia dello stesso hardware, anti conservatore per sua natura (tecnologica) a non permetterlo.
Produrrebbe mai la Sony una PlayStation 2.5, visibile su comuni televisori CRT, quando sul mercato è già disponibile PlayStation 3 per l’Alta definizione?
Il segno lasciato da un pittore è invece un indice artistico non differenziale, capace di oscillare secondo sensibilità, esigenza e bisogni dell’artista, ma libero di essere convenzionalmente valutato dalla critica a prescindere dai supporti visivi sui quali l’artista decide di attuarlo.
È sintomatico come difficilmente Sid Maier avvertirebbe nel 2006 il prurito di programmare una versione ridotta all’osso di Civilization su Atari 2600, in quanto la sensibilità, la visione estetica e l’esigenza artistica dei game designer è mutata secondo ciò che la tecnologia ha reso possibile.

Tornando a trattare di critica, c’è da dire che i settori specializzati nella critica videoludica non hanno difficoltà ad affermare, in sede di analisi di un dato videogioco, il relativo valore alla luce di come idee, gameplay, grafica e sonoro siano stati implementati in armonia con l’avanguardia tecnologica hardware che ne è alla base. Difficilmente il godimento dato dalla fruizione di ambienti virtuali mossi da motori grafici all’ultimo grido risulta un elemento criticamente sottovalutato.
Ma dovendo esprimere opinioni sui videogiochi passati dello stesso genere, ad esempio Gran Turismo 2 (PlayStation) e Gran Turismo 4 (PlayStation 2), consigliando l’utente su di una scelta d’acquisto, non lesinerebbero nell’avanzare il fatto che GT2 (fig.1) risulti vetusto, sorpassato sotto tutti gli aspetti rispetto a GT4 (fig 2), pur trattandosi entrambi di artefatti dello stesso genere di appartenenza: videogiochi.

(Fig.1)______________________ (Fig.2)

(Fig. 1) Gran Turismo 2 – Polyphony Digital – 1999
(Fig.2) Gran Turismo 4 – Polyphony Digital - 2005

Pur essendo entrambi artefatti creati per intrattenere/divertire/simulare la guida sportiva nella realtà, consigliare di giocare GranTurimo 2 piuttosto che il 4 è impensabile, poiché GT 4 offre/diverte/simula/coinvolge/esalta maggiormente, evolvendo la visione iniziata con il primo Gran Turismo. In definitiva, ad un prodotto tecnologicamente avanzato viene spesso insindacabilmente riconosciuta una preferenza, un valore maggiore rispetto alle offerte precedenti. E si tratta di giudizi di quella stessa critica di settore che dovrebbe stabilire paradigmi critici partendo dai videogiochi realizzati.
A questo punto è possibile chiedersi: muta forse il complessivo giudizio attuale su di un gioco tecnologicamente datato sapendo che il game designer, se non fosse stato limitato dalle risorse hardware disponibili, avrebbe certamente creato qualcosa di migliore?
Assolutamente no.
Il Producer/Director Kazunori Yamauchi di Polyphony Digital, non sente forse d’essersi avvicinato maggiormente alla sua visione videoludica originaria di Gran Turismo grazie a PlaysSation 2 piuttosto che la sua sorella anziana? E se avesse potuto, non sarebbe riuscito a realizzarla prima?
Assolutamente si.
Agli occhi dei videogiocatori di oggi Gran Turismo 2 rimane un gioco graficamente limitato, superato dal punto di vista simulativo, capace di far sorridere non senza una certa ironia nel vederlo “girare” su di una piattaforma obsoleta, dimentichi del tempo nel quale si era creduto fosse il massimo paradigma di simulazione possibile.
Di contro, nessun critico sconsiglierebbe di fruire della Natura morta con vaso di zenzero I di Piet Mondrian – del 1911 (fig.3), solo perché lo stesso autore ha prodotto una Natura morta con vaso di zenzero II del 1912 (fig.4).



(fig.3)________________________(fig.4)

(fig.3) – Natura morta con vaso di zenzero I – Piet Mondrian 1911
(fig.4) – Natura morta con vaso di zenzero II - Piet Mondrian 1912


Seppure la seconda produzione dell’artista olandese sembri più povera, più recente cronologicamente ma meno immersiva rispetto allo pseudo-realismo della prima, essa ha potuto godere di una propria autonomia interpretativa, svincolata dalle influenze della convivenza con il segno autoriale grafico antecedente.
Normalmente, gli artefatti artistici non videoludici di uno stesso genere atti a divenire oggetto di critica convivono assieme nel tempo senza calpestarsi i piedi vicendevolmente.
Se è vero che PlayStation 2 può far “girare” Gran Turismo 2 e 4, e che quindi anche questi artefatti possono convivere assieme nel tempo (leggasi giocati) e appartengono al medesimo genere (racing simulativo), difficilmente possedendo entrambi i titoli si tende a giocare con il più datato.
Artefatti artistici quali pittura, musica, scrittura e architettura, visti sotto il profilo critico, convivono assieme senza problemi, e la critica li valuta e ne consiglia la fruizione focalizzandosi sul godimento che questi procurano.
Se i critici videoludici invece difficilmente consiglierebbero di videointeragire con un prodotto datato rispetto ad uno temporalmente più vicino al momento critico attuale è perché lo specifico dell’interattività, delle immagini in movimento, dell’intelligenza artificiale o dell’audio nei videogiochi diviene più coinvolgente con il migliorare della tecnologia che ne è alla base.
In altri termini, la tecnologia infrange lo status quo sul quale potrebbe definitivamente stabilirsi un’espressione artistica autoriale compiuta, con relativo disagio critico legato allo sforzo teso alla ricerca di principi estetici paradigmatici.

Tutto ciò comporta che le opere videoludiche nate in diversi punti temporali dell’evoluzione tecnologica tendono a primeggiare/sopprimersi secondo una selezione naturale il cui elemento selettivo viene inoculato dallo stesso progresso tecnologico, costringendo a proiettare nel tempo, sempre più in là, il definirsi di una data opera artistica compiuta, a scapito di eventuali principi estetici paradigmatici di analisi critica.
Domanda: Come possono stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati pensando alle opere videoludiche che tentano di svilupparsi continuamente, cercando di rincorrere una stabilità dei propri specifici quali ad esempio estetica digitale e interattività?
E ancora:
È legittimo quindi supporre che gli artefatti di un medium in continua evoluzione sappiano far storcere il naso al sistema critico non videoludico, al pensiero di dover istituire principi estetici paradigmatici basati sulla palese verità che il medium ludico video-interattivo non ha alcun pudore ad assimilare, digerire ed infine evacuare se stesso nel tempo?

Si torna quindi al punto iniziale: Potrebbero mai stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati quando il progresso tecnologico tende ad evolvere i paradigmi autoriali sui quali potrebbe definirsi una data espressione artistica compiuta?

La risposta ovvia potrebbe essere soltanto una, ed è naturalmente utopistica: solo quando la tecnologia applicata in ambito videoludico deciderà di arrestarsi, consolidandosi per sempre.
Sarà forse PlayStation 10? X-Box Infinity? Nintendo ForEver?
Qualunque essa potrebbe essere, dovrà risultare assimilabile a una mente, a un intelletto umano virtualmente (in entrambe le accezioni) scevro da inibizioni tecno-dipendenti da suscitare nel game designer l’idea (o l’illusione) d’aver specchiato totalmente, in un dato artefatto, la propria visione senza limiti di sorta.
Ciò che è possibile fantasticare è che con il progressivo aumento della potenza computazionale, disponendo in potenza di risorse di calcolo virtualmente infinite, di tool di sviluppo incontestabili nonché di un hardware non umanamente/totalmente sfruttabile/esauribile, potrebbero crearsi le premesse per una base espressiva completa, totale, libera, scevra da compromessi riguardo la visione autoriale e la sua relativa implementazione in ambito ludo-interattivo.
Accostando un tale mostruoso hardware alle infinite possibilità espressive della mente umana, finalmente liberata dal gioco del limite tecnologico, ciò permetterebbe a qualsiasi sistema critico di stabilire una tassonomia più sicura, stabile, istituzionalizzata, annoverando tranquillamente i videogiochi quali nuovi oggetti d’arte con i propri specifici stabiliti, per i quali l’inesistenza di limiti in grado di soddisfare qualsiasi visione umana risulterà un fattore base sulle quali instaurare tassonomie artistiche video-ludiche più sicure.

A quel punto probabilmente si ricomincerà a rivalutare, con rinnovata attenzione, il genio di molte passate opere videoludiche, ma non come è avvenuto per tanti quadri, musica o libri pionieristici che al loro tempo sono stati ripugnati dal sistema critico data l’avanguardia visionaria che essi rappresentavano, bensì come tentativi sperimentali in ambito elettronico di pseudo artisti tesi ad approcciare con le risorse disponibili per ottenere un risultato interattivo quantomeno compiuto, ma dietro il quale la visione autoriale è risultata sempre azzoppata, limitata.
Basti pensare che ciò che viene ben riaccolto e osannato dalla critica dopo anni di processi, di stroncatura e censura, come avviene appunto per quadri, libri o cinema, non accade invece per i videogiochi. A prescindere da quanto i critici di professione siano in grado di applicare “principi paradigmatici” nel valutare artisticamente un artefatto artistico, nel primo caso la visione del fruitore, attualizzata nel proprio contesto socio-politico, diviene “pronta” nell’inglobare e assimilare la visione preconizzatrice dell’autore, senza che questo venga minimamente sfiorato da una delegittimazione nella sua libertà visionaria.
I videogiochi recenti devono necessariamente essere fruiti al momento tecnologico attuale, performati da piattaforme presenti nel mercato, dietro un marketing asfissiante ad hoc, e facendo proprio dell’invasività del progresso tecnologico un motivo di distinzione, celando molto spesso, dietro tale progresso, la tendenza al mero aggiornamento di un prodotto secondo i gusti dei possessori delle piattaforme (I videogiochi sono servizi – possiedono un carattere artistico – sono un medium eccessivamente mainstream… Kojima) – riproponendo spesso visioni artistiche proposte solo pochi mesi prima, offrendo sì al fruitore un incremento qualitativo da assimilare, ma spesso solo e puramente sotto il profilo estetico.

Sino a quando l’arte video-interattiva dovrà esprimersi facendo i conti con i progressi della tekné, la scienza tecnologica (ignorando che questa parola esprimeva un tempo una prassi affine all’arte) senza trascenderla come invece la mente umana può artisticamente attuare su di un muro anche con una pezzetto di selce appuntita, il problema potrebbe continuare a sussistere.
L’aggiornamento tecnologico rende esteticamente vetusto ogni hardware/tavolozza di possibilità precedenti, pressando affinché siano spostati i principi estetici paradigmatici autoriali sempre un po’ più in là, con conseguente necessità di ridefinizione del medium, lasciando scoprire di volta in volta quanto asfissiata dalle risorse disponibili fosse la visione del game designer/artista della precedente generazione.
Dovrebbero essere gli stessi game-designer ad affermare dopo la pubblicazione delle proprie opere “Ecco, sono soddisfatto! Era esattamente quello che volevo realizzare, esteticamente e strutturalmente!", infischiandosene di quali possano essere al momento i giudizi estetici paradigmatici in voga o quanto la propria possa essere una espressione artistica compiuta.

Ma quale vero game-designer, in cuor suo, non si è mai rammaricato del fatto che, se solo avesse potuto aggiungere quel TOT in più avrebbe tentato di spostare la propria visione un po’ più in là?