25 novembre 2009

Assassin's Creed 2: Rinascimento e (è?) fantascienza.

di Luigi Marrone


Finalmente lo spettacolo estetico incontra l’inappuntabile ritmo di gioco. E assieme arrivano una Italia cruda e senza fronzoli, una vendetta ammantata di profezia e un particolare riguardo alle rivendicate critiche del primo capitolo.
Questo è il Gioco dell’assassino.
Sarà colpa della San Gimignano del 1400, della Venezia assaltata dai Borgia e dalle comparsate storiche che strappano via via più di un sorriso, resta il fatto che tale Assassin’s Creed è ormai consolidato come science fiction contornata di passato, di merletti e psico-poteri ancestrali, di setting storico e scienza digitale assieme.
Ed è cosi che una delle peculiarità del videogioco torna con prepotenza: il viaggio stanziale. Siamo a Damasco, Gerusalemme, Firenze, Venezia… e siamo davanti le nostre console.
Livelli di dettaglio molto alti, scrittura ludo-estetica sopraffine e totalmente intrisa di compagini segrete ammalate di Chiesa, di Vaticano, di religione e simonismi. Il setting italiano risorgimentale lascia basiti. Sensazioni di luce che si posa in calde falde su Firenze, cielo plumbeo e umidità in Forlì. Ma stavolta non è di solo sole che ci si può bagnare. Oltre che nell’Arno si è immersi nel senso esploso del potere , del frutto della Conoscenza che rapisce come fa l’anello di Mordor.
Il leit motiv dell’Assassino è uno: Niente è vero, tutto è lecito
Così Ubisoft può sparare frecce avvelenate in faccia alla Chiesa, alla Creazione, al Cosmo e alla Verità Prima, più che ultima. Tutto è riscritto, la storia di una famiglia fiorentina, la storia dell’Italia rinascimentale, la cosmogenesi del mondo intero. Il frutto della conoscenza è d’oro, o prefabbricato in ottone che piscia fuori luce fluorescente. Non ha importanza. Scalogna e fantascienza convivono, come vive il potere perpetrato nei secoli, nelle dittature, le guerre, nelle scomode invenzioni che avrebbero annientato chi al mondo questo potere lo detiene.
Il messaggio è uno: L’uomo deve essere protetto dalla Luce e dalla Verità. Nikola Tesla vien fatto tacere come il Mahatma Gandhi, affinchè il mondo rivoluzionato dalla coscienza e dalla conoscenza sia fiancheggiato dal controllo e dall’uccisione della verità.
Con la religione l’uomo s’inganna. E’ fuori strada in quanto al proprio creatore.
Al solito, pochi sanno e pochissimi controllano. E la gente intanto muore.
Scende il profeta sulla terra, un cristo ammantato da vesti di Assassino, un fiorentino della famiglia Auditore, e tutto può cambiare. Non c’è più Allah né Budda né Maometto né Gesù. C’è solo Ezio e il Creatore, sotto al Vaticano.
L’idioma toscano fiorentino e la parlata veneziana ovviamente non vi sono. Leonardo Da Vinci è un giovane affabile amico, che parla moderno. Quindi i cantori a rima forzata muniti di mandolino fanno scuotere il capo con un mezzo sorriso. C’è poi la malata ossessione, quella fastidiosa bava hollywoodiana nello scontro finale, tra un Vai a farti fottere e un Rodrigo Borgia, alias Papa Alessandro VI che a 73 anni si muove e combatte come una gazzella cazzuta, quasi una idiosincrasia di fondo debba sempre sgomitare con la sobrietà di certi passaggi giocati che sino a poco prima hanno positivamente sorpreso il racconto ludico.
Fa nulla però. Perché l’action figure di Ezio Auditore è sublime, le corse sui tetti argillosi convivono con musiche gasanti, e per il resto c’è da vivere una avventura, un senso di libertà, di scoperta e complicità dentro una Italia in balìa del Tutto che attualmente non ha eguali.
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E’ il Credo dell’Assassino, questo.
Giocare per credere.
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26 agosto 2009

Demo Play. Una vita con l'autopilota.

di Luigi Marrone.

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Il guanto di sfida è stato gettato. Nintendo è pronta a scontrarsi a viso aperto, in singolar tenzone. Solo che non ci sara alcun duello, perché la sfida è morta sul nascere. Sfida videoludica, (N)intendo. In fondo i monopoli non hanno torto quando affermano la famosa frase “Se non giochi non vinci”. La Nintendo dallo sguardo lungimirante ha fatto sua la provocazione, chiedendosi se non esista un modo per vincere sempre, ma senza giocare.Per impossibile che sia, non è un mistero quanto sia congenito in ogni videogiocatore il desiderio di superare qualsiasi sfida, a dispetto di ogni ostica situazione.




Il colorato mondo di New Super Mario Bros. Wii sarà la svolta, l’esperimento, il banco di prova per la nuova opzione che permetterà senza il minimo sforzo di mettere in autopilota l’idraulico in salopette e la sua schiera di saltellanti amici per vederli combattere, vincere e poi scorrazzare sino alla fine del livello. Nessuna goffagine, nessun contatto depotenziante, niente fatal scivolone: a quanto pare con Demo Play si può non “morire” mai.

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Cosi la mente videoludica fa due più due, richiama a sé i cheat codes, le Vite Infinite, le Munizioni Infinite, il Tempo Infinito… qui però è diverso. Demo Play non è uno (sporco) trucco, anzi, attenzione a definirlo tale. Bisogna piuttosto considerarla come una possibilità, perfettamente legalizzata, di assistere ad un innocuo walktrough, ad un longplay artificiale, ad un pilota automatico di una IA pre-determinata a comando, la quale, tra consigli, aiuti e video esplicativi, può giungere a giocasi la sua bella partita da sola, regalando una performance buona ad ingraziarsi quei gamers refrattari all’apparente sfida impossibile.

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Dai spazientiti giocatori della domenica ai bimbi che strepitano dopo l’ennesima sconfitta per poi mollare, lacrimoni agli occhi, il wiimote in mano al papà -“Mi uccidi tu il drago?”- da quanto emerso dall’ultimo E3 sarà sufficiente attivare Demo Play per risolvere questi problemi.

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Secondo Nintendo la mediazione tra accessibilità e sfida dovrebbe in tal modo esser definitivamente risolta, poiché il bilanciamento della difficoltà in Easy Medium Hard sarà una cosa da riderci su, che è quasi come dire che i videogiochi impossibili da finire hanno i giorni contati.

Tuttavia, in qualità di videogiocatori più o meno scafati, risulta piuttosto difficile esonerarsi da alcuni interrogativi di massima.


E’ naturale ad esempio chiedersi se tutto questo cambierà l’abitudine/attitudine mentale al videogiocare, cosi come altrettanto fisiologico é domandarsi se, per il gamer, possa risultare più gratificante o dequalificante un sostegno così marcato.
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Ciò che risulta inevitabile é l’impossibilità di non pensare che una tale possibilità non vada a minacciare l’intero sistema genetico del videogioco, che fino a prova contraria è quello di immergere l’utente in una realtà altra utilizzando proprio il fattore sfida/scoperta/progressione quale incentivo fondante.

Guardare o giocare, non è forse questo il vero dilemma del gamer? Quando il videogiocatore finisce col sentirsi meno protagonista e più spettatore, quando magicamente tutto si trasforma in un rolling demo da cabinato in attesa di gettone, può e deve il videogioco continuare a chiamarsi tale? Con quale occhio bisognerebbe poi guardare ai walktrough, alle guide strategiche e alle stesse comunità d’appassionati che oggi ancora discutono di strategie di gameplay?
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E’ probabilmente questo l’interrogativo più drammatico insito nelle possibilità schiuse dal Demo Play: la ridefinizione del senso, per non dire del significato stesso del videogiocare: non muore forse l’arte del videogioco quando, volendo raggiungere i titoli di coda, ci è data la possibilità di far fuori buona parte dell’esperienza di sfida?
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A ben rifletterci con Demo Play il problema per gli sviluppatori non è tanto quello di bilanciare tale possibilità all’interno di un videogioco affinché i gamers non ne abusino, quanto la possibilità di mantenere integra l’emozione della gratificazione personale senza minare l’organicità dell’esperienza di gioco.
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Temere il peggio è però un sentimento ovvio, umano, che i videogiocatori peraltro conoscono benissimo. Nintendo ha spinto sull’acceleratore dei giochi per tutta la famiglia, entrando potentemente nelle case di tanti sacrificando qualcosa sull’altare dell’aggiornamento tecnologico.

Dopo aver bruciato col proprio causal appeal l’intera concorrenza, la stessa non è certamente rimasta a guardare, e la rincorsa alla rimediazione sensoriale è appena iniziata, sia con Project Natal che il Motion Controller di Sony (Wand), e si fa sempre più fatica a prevedere l’originalità e l’esclusività delle applicazioni motion sensitive nel prossimo futuro.

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Ma se si comincia con il Demo Play di New Super Mario Bros. Wii, per poi giungere a Pikmin, e poi Zelda, e poi Metroid, sino ad approdare ai giochi per DS magari, non è tanto assurdo pensare che una simile feature potrebbe raggiungere i lidi di Sony e Microsoft sino a diventare, come il pulsante “Pausa”, uno standard nella grammatica del videogioco. Anzi, nel momento in cui scrivo la notizia é attuale. Si tratta del prossimo Bayonetta di Sega, col suo Very Easy Automatic Play. E’ sufficiente schiacciare i pulsanti che compaiono su schermo, come un Quick Time Events, e il gioco è fatto, o meglio, si è fatto da solo.

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E' cosi che muoiono le distinzioni teorizzate dal compianto Bruno Fraschini nel suo Le Affinità Elettive – il linguaggio del cinema nei videogiochi (2004), mutuate a loro volta dalle analisi delle categorie di testo presentate da Umberto Eco. Niente più co-autorialità del testo videoludico, niente più regia e assolutamente nessun senso d’interpretazione.

Muore il creatore modello (game designer) che “chiede” ad un giocatore modello di “collaborare” affinché il testo possa esser completato/attualizzato. Con Demo Play la creatura prende vita, si muove da sola, guarda in faccia il giocatore sconfitto e s’alza in piedi con un sorriso cinico, spocchioso, forte della propria matrice di regole pre-stabilite, certa di soverchiare tutto e tutti tagliando via l’imprevedibilità di un gameplay puramente umano.

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Continua il succitato Bruno:

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Provate a fare un esperimento: registrate una partita ad uno dei titoli appena menzionati su una videocassetta e mostratela ad un amico. L’effetto che susciterete sarà minimo, se non nullo. Le stesse immagini che emozionano il giocatore annoiano lo spettatore e questo perché, quando si partecipa ad un videogame, non si sta semplicemente osservando. Anche se un’elaborata messa in discorso può sembrare l’aspetto cruciale per riuscire a suscitare specifiche emozioni nel giocatore, non è affatto così. Nel videogioco cinematografico è ancora la possibilità di interagire, la componente essenziale, come in qualsiasi videogame”.

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Come in un qualsiasi videogame, afferma Bruno.

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Metal Gear Solid, Ikaruga o Super Mario… la differenza è più sottile di quanto si possa immaginare.

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Quello che è certo è che attivando Demo Play è il protagonista a sopravvivere.

Non il videogiocatore.

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5 marzo 2009

Business e Gaming. Gioco e social network nella rete d’impresa.

Cronaca saliente di un incontro.
(di Luigi Marrone)


Commissionata da Sony Computer Entertaiment Italia (SCEI) e affidata alla Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza Università di Roma, Business e gaming. Gioco e social network nella rete d’impresa è la prima ricerca che si pone come obiettivo l’indagine delle dinamiche relative alle relazioni sociali mediate dagli ambienti di rete, legate ai siti di social network e alla partecipazione interattiva legata alle simulazioni videoludiche.
La ricerca, legata soprattutto ai fini del mondo dell’impresa, ha fatto chiarezza sui propri punti metodologici mediante la presentazione avvenuta Mercoledi 4 Marzo presso il centro Congressi d’Ateneo della università La Sapienza di Roma, alla quale erano presenti come spettatori il sottoscritto e il giornalista Lorenzo Antonelli (collaboratore di AIOMI, Associazione Italiana Opere Multimediali Interattive).
Fra gli invitati in conferenza stampa nella prima fase della giornata figuravano Mario Morcellini (preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione), Gaetano Ruvolo (General Manager SCEI), Gianfranco Pecchinenda (preside della Facoltà di Sociologia dell’Università di Napoli Federico II) e Marco Mele (giornalista de Il Sole 24 Ore).
Il motivo principale dell’indagine della Facoltà è stato quello di comprendere come sia possibile incrementare il marketing attraverso le modalità di raccolta fondi in rete (fundraising online) e la ricerca di lavoro (recruiting aziendale).
Ma cosa c’entra infine il videogioco con questa ricerca?
Tutto, a detta di Sony e dei ricercatori coinvolti.
L’attività ludica viene difatti confermata come “porta di ingresso” per le analisi del rapporto tra il mondo di impresa e le nuove modalità di interazione in rete, e i censimenti svolti sui siti di social networking nazionali e internazionali, con risultati ancora da pervenire, sottolineano tale centralità.
Il videogioco, incensando immedesimazione e coinvolgimento, favorisce l’interiorizzazione di contenuti aumentando l’efficacia della sensibilizzazione. E’ inoltre strumento di e-recruiting, valutazione del personale attraverso l’analisi di capacità cognitive, strategiche ed esperenziali (business game aziendali) e di recruitement tool per il reclutamento e l’addestramento virtuale (America’s Army).
Viste le personalità presenti alla conferenza, in qualità di "protagonisti" del discorso culturale sul videogioco, è interessante effettuare una breve cronaca circostanziata dei singoli interventi individuali. E’ da premettere che la conferenza stampa ha avuto esiti abbastanza contraddittori in merito agli interventi sollevati, non tanto per ciò che concerne l’argomento principale quanto piuttosto per la mancanza di coerenza tra i vari ruoli professionali ricoperti dai presenti

Essendo stato il tema della Comunicazione e dell’identità sociale a catalizzare l’interesse principale, l’apprezzatissimo Gianfranco Pecchinenda, autore dello splendido Videogiochi e Cultura della Simulazione. La nascita dell’”homo game” ha rimarcato la difficoltà da parte del videogioco di emergere come oggetto culturale. Lo stesso professore, esperto nell’indagine dell’identità culturale del gamer a contatto con l’oggetto videoludico, ha puntato l’attenzione su come sia oggi diffusa l’insistenza di analizzare il fenomeno sociale del videogioco in modo troppo deterministico e drammatico (cause sociali di violenza, tempo di fruizione rubato alla vita reale, ecc) senza riflettere a dovere sulla trasformazione dell’identità sociale e culturale del soggetto dopo il passaggio all’interno dell’avatar (e di se stesso) permesso dalla vita-altra del videogioco. Puntando l’attenzione sul concetto di “Responsabilità sociale” e sul conflitto generazionale fra gli attori di un tempo e quelli di oggi, l’intervento del professore è stato tra i più lungimiranti dell’intera giornata.
Memorabile la sua chiusura con la consapevole affermazione “Il videogioco è qualcosa di serio”.

Gaetano Ruvolo, General Manager SCEI, è stato invece direttamente interpellato da un ragazzo presente in sala il quale, presentandosi quale videogiocatore/utente di PS3 ha gentilmente evitato, quasi fosse tabù, di nominare Microsoft quale diretto concorrente di live social networking.
Il ragazzo ha chiesto come mai Sony, visto il tanto parlare durante la presentazione della centralità della Sony stessa sul ruolo del social networking in Italia (Home) e della comunicazione fra gli utenti iscritti su PSN, non snellisca i protocolli di comunicazione sullo stesso PlayStation Network. L’intervento, del tutto comprensibile e dovuto, era mirato a notificare quanto sia ridicolo oggi non poter comunicare tra videogiocatori che giocano su piattaforme differenti e, implicitamente, a non poter comunicare agevolmente mediante chat private con altri utenti/amici su PSN (PS3 difatti non permette la chat vocale se non si sta giocando in co-op nello stesso gioco e senza dover necessariamente uscire dal gioco per entrare in una chat room privata, come avviene fluidamente invece grazie al Live di Xbox360, ad esempio).
Messo di fronte ai limiti di Playstation3 su questo versante, Gaetano Ruvolo da principio non ha aperto alcun spiraglio di mediazione sulla questione, bensì ha perentoriamente trattato della “Diffusione a lungo raggio del sistema PS3 rispetto agli investimenti” adducendo che le Imprese sono fondate sulla legge del profitto per il quale Sony ha da sempre posto la tecnologia (DVD, Blu Ray, multimedialità, ecc) a proprio favore quale distinguo rispetto al mercato.
Si è trattata di una risposta completamente fuori misura rispetto alla circostanziata domanda su limiti congeniti della comunicazione on line su Playstation3.

Per il giornalista de Il Sole 24 Ore Marco Mele invece, “Il videogioco non è un medium”, bensì un dispositivo per l’intrattenimento al quale viene riconosciuta una piena identità in seno al discorso delle modalità di trasmissione di informazioni, in grado di emozionare e stimolare l’utente. Oltre alla discutibile interpretazione del giornalista, peraltro non chiaramente argomentata a dovere, per lo stesso Mele oggi si sta vivendo una crisi di sistemi di rappresentazioni del reale, per il quale l’incapacità di rinnovo culturale dei media generalisti si ripercuote sulla difficoltà del videogioco di emergere quale oggetto culturale. Lo stesso Mele ha poi ripreso il discorso evitato dal General Manager SCEI Ruvolo, affermando ironicamente, rivolgendosi al ragazzo che aveva posto in precedenza la questione, di poter ora tranquillamente nominare anche Microsoft visto che lo stesso Ruvolo aveva lasciato la sala.
A detta del giornalista, Sony “ha paura” di aprire le frontiere della libera comunicazione su PSN la quale potrebbe risultare controproducente per l’azienda stessa in quanto gli utenti Playstation potrebbero consigliarsi più facilmente su come “copiarsi giochini” e fomentare in tal modo il fenomeno della pirateria come accaduto in passato.
Ogni contrarietà in merito a tale intervento è del tutto legittima.

Nel pomeriggio l’incontro si è spostato nell’Aula Wolf della stessa Università, orfana di Gianfranco Pecchinenda, ancora in lista di partecipazione ma purtroppo in ripartenza.

Il primo ad intervenire durante il seminario di approfondimento è stato Luca Giuliano, professore di Strategie di narrazione ipertestuale presso la stessa Università, il quale ha enucleato, a partire dai primordi sino al presente, le varie tappe di sviluppo delle forme di narrazione ipertestuale presente nelle realtà virtuali e non, con ovvi riferimenti al videogioco. Il percorso, che ha interessato anche la nascita del concetto di cyberspazio, ha lasciato fuori ben poche cose, chiamando in causa libri (William Gibson su tutti), film (ad es. Brainstorm di Douglas Trumbull) e naturalmente videogiochi (da Colossal Cave Adventure a World of Warcraft). L’intervento del professore è risultato fresco e piacevole, l’unico supportato iconograficamente da una presentazione proiettata su schermo ricca di riferimenti iconografici e testuali che ha agevolato di non poco gli argomenti esposti. L’unico momento discutibile da parte del professore Giuliano, probabilmente influenzato dalla presenza in aula del direttore di Marketing di SCEI Andrea Cuneo, è stato quello di insistere sulla centralità di Playstation 3 quale unica piattaforma che faccia convergere l’idea di social network, l’idea di “Facebook” e l’idea di condivisione di contenuti personali al servizio di utenti limitati in passato dalla propria incapacità congenita di comunicare interpersonalmente.
E' ovvio che si tratta di una posizione ampiamente puntualizzabile.

E' interessante infine riportare l'intervento di Alberto Mattiacci, professore di Marketing presso la stessa Sapienza. Interpellato sulla questione dello sviluppo dei videogiochi in Italia, il professore ha rimarcato quale causa principale l’assenza di managerialità nel gestire l’impresa da parte dei "creativi" eventuali sviluppatori, lamentando una vera e propria “paura” da parte di chi potrebbe lavorare allo sviluppo dei videogiochi in Italia di pianificare un'impresa, generare profitti e strategie di marketing temendo di restare incastrati nelle maglie della fiscalità eccessiva e delle relative conseguenze finanziarie. Invitando a pensare più ottimisticamente rispetto alla attuale crisi, secondo il professore Mattiacci in Italia si tiene più all’integrità della propria figura creativa che al compromesso di una attività imprenditoriale che tenga di conto le finalità economiche di un dato progetto.
Andrea Cuneo, direttore di Marketing di Sony Computer Entertainment Italia summenzionato, è intervenuto su tale argomento affermando per esperienza quanto gli sviluppatori italiani, o gli aspiranti tali, non sappiano adattarsi nello sviluppare piccoli progetti su commissione per poi dedicarsi a latere a progetti personali più creativamente stimolanti.
Viene cosi sollevata una domanda diretta, ovvero come poter cercare fondi di finanziamento in Italia e mettere su ad esempio una società a responsabilità limitata che si occupi della questione imprenditoriale di un prodotto videoludico, senza restare strozzati dalle relative maglie fiscali.
E’ stato a quel punto che, in aperta contraddizione con quanto in precedenza affermato, il professore Mattiacci, più seriamente che ironicamente non si é fatto scrupoli ad incoraggiare l'interlocutore rispondendo che, se ben gestito, l’Italia è un paese che offre il miglior strumento nelle mani dell’imprenditore:
l’evasione fiscale.
Un piccolo esempio volto a rimarcare l'endogena difficoltà del nostro Paese quando si tratta di concepire una chiara posizione di discussione sullo sviluppo e sulla distribuzione di un oggetto culturale “serio” come lo sono oggi i videogiochi.

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28 febbraio 2009

AlreadyPlayed: per vincere, basta guardare.

[r]i(n)voluzione ludica (a Joke?)
(Idea e artwork: Fotone. Testo Luigi Marrone)

Disponibile nei negozi da alcuni giorni la collana di videogiochi AlreadyPlayed (lett. i Già Giocati), distribuita da WeakGamerToday.
Nata da una costola distorta di voyeur appassionati di walktrough e di sostenitori del concetto filosofico di tempo (prezioso) sollevato dalla pratica dello speedrun, l’antologia, o se si vuole l’ontologia degli AlreadyPlayed è semplice quanto brillante: per vincere basta guardare.
Già ribatezzati “Watch to Win” (guarda per vincere), si tratta di una serie dei più blasonati giochi disponibili sul mercato giocati interamente per gli appassionati (fra questi i capolavori della serie Metal Gear Solid, Zelda, Call of Duty, Metroid, ecc.) ed è in cantiere un piano di uscite future dedicate ai migliori giochi del passato per gli estimatori di retrogaming.

Grazie ad AlreadyPlayed il concetto di walktrough è ormai superato.
Nulla da spartire con laser-games, esperienze infarcite da Quick Time Events o pura passiva fruizione. I giochi della serie AlreadyPlayed si differenziano sistematicamente dalle guide video passo per passo poiché permettono, di tanto in tanto, di interagire con l’immagine su schermo.
L’azione ludica, che all’inizio può indurre a credere che sia apparentemente registrata, risulta invece splendidamente reattiva alla interazione con il pad: in alcuni punti prestabiliti dal gioco sono difatti permessi semplici movimenti di camera, strafe laterali del personaggio o pattern di suoni ambientali attivabili con il minimo sforzo alla pressione di un tasto, assicurando in tal modo al gamer l’illusione di aver in qualche modo compartecipato all’azione ludica, seppur questa prosegua appunto da sola, in auto-pilot.
Utilizzando il medesimo motore di gioco dell’esperienza originale, il gioco AlreadyPlayed ne permette tutte le funzioni principali: pausa, regolazione volume, salvataggi, checkpoint, skippaggio delle cut-scene e ovviamente non mancano i fatidici Obiettivi/Trofei che vengono automaticamente sbloccati man mano che il gioco fa il suo corso. Tutto questo senza affaticare troppo l’utente con l’interazione impegnata, anche quando, per coloro che desiderano un’esperienza adrenalinica più marcata, il gioco stesso presenta la possibilità di essere goduto alla difficoltà più elevata (es. Veterano in Call of Duty) regalando l’emozione di supportare il nostro personaggio che procede comunque imperterrito (magari riportando qualche ferita di tanto in tanto) sino alla fine del gioco.

Il videogiocatore che fin d’ora ha sempre avuto desiderio di “vivere fino alla fine” il proprio acquisto per poterlo finalmente archiviare sotto la voce “Già Giocato”, con la collana AlreadyPlayed oggi può farlo.
Niente più videogiochi in attesa di esser portati a termine, niente più Obiettivi in sospeso, niente più insormontabili boss da lasciare impuniti.

Per chi non ha voglia di perder tempo con i game-over, per coloro che non hanno più tempo di formulare strategie di gameplay, per i gamers che loro malgrado non possono fare a meno di criticare prima di acquistare per poi blandamente giocare qualsiasi novità il mercato induca a possedere, per chi è semplicemente debole e stanco di dover per forza videogiocare e, soprattutto, per chi ritiene superfluo oggi dover necessariamente giocare per vincere, i grandi capolavori della collana AlreadyPlayed assicurano al gamer la certezza di aver vissuto qualsiasi esperienza di gioco in modo totale.

Da oggi ci sono gli AlreadyPlayed, i giocati per voi, da WeakGamerToday.
Un acquisto fisiologico, intelligente, moderno, indispensabile.

Per coloro che vogliono vincere sempre, senza giocare.

Perché per vincere, oggi, basta guardare.

12 gennaio 2009

Il Product Placement di Ultimatum alla Terra e i Videogiochi: ideologie mediatiche a confronto.

(di Luigi Marrone)
Saggio pubblicato su Schermi Interattivi
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Il film in questione è Ultimatum alla Terra (2008 – regia di Scott Derrickson), di recente uscita nelle sale italiane e remake di The Day the Earth Stood Still (1951 -Robert Wise).
Nel 1951 la funzione principale della pellicola era quella di riflettere e allarmare indirettamente lo spettatore riguardo al blocco di potenze creatosi al principio della Guerra Fredda, attraverso un messaggio anti-militare proveniente da una entità aliena totalmente antropomorfa, Klaatu (Michael Rennie). L’alieno metteva in guardia le potenze della Terra sulla eventuale distruzione del genere umano se gli uomini non avessero cessato con la minaccia atomica che metteva a repentaglio l’esistenza del pianeta stesso e dei pianeti circostanti.
Oggi il messaggio del remake di Derrickson possiede un tono più apocalittico, lasciando intendere che l’eliminazione del genere umano è ritenuta necessaria data l’impossibilità di estirpare l’egoistica violenza interpersonale connaturata all’Uomo, la quale si ripercuote ovunque, dalle risorse della Terra alle specie viventi all’ecosistema globale tutto.
Durante le prime scene del film lo spettatore può notare che nella camera del figlio di Will Smith (Jaden Smith) fanno capolino leziose inquadrature di una miniatura di Master Chief in bellica posa, World of Warcraft in azione sullo schermo del suo portatile (Lg) e un poster semi-nascosto dietro una porta ove si riconosce il famoso anello di Halo sospeso nell’universo.
Successivamente vengono immortalati i servizi segreti americani, una Intelligence di autorità china ad osservare un ampio schermo tattico. Mentre l’intelligence discute sul da farsi vediamo affiorare il colorato logo di Windows sullo schermo: che si tratti forse di una ironica garanzia di stabilità ed integrità strutturale offerta da casa Redmond per i sistemi di Difesa più strategicamente delicati in America?
Infine, l’incontro tra il protagonista Klaatu (Keanu Reeves) e un altro alieno avviene nientemeno che all’interno di in un McDonald’s, con tanto di macchina da presa che indugia sulla inveterata insegna.
Lasciando ora da parte i due colossi summenzionati, il remake di Ultimatum alla Terra nasce ideologicamente con l’intenzione di essere un film esplicitamente moralizzante, in grado di scuotere la coscienza degli uomini mediante un messaggio incontrovertibilmente votato a schierarsi contro l’Uomo in senso assoluto: un’indagine veicolata sulla moralità della politica economica nel mondo e sulle conseguenze psico-sociali dell’egoismo del genere umano.
Il messaggio è piuttosto chiaro quanto delineato: tutti gli uomini sono chiamati in causa per loro natura, dalla coscienza anti-ecologica del singolo consumatore alle multinazionali che attraverso l’egemonia del potere capitalista fomentano l’industrializzazione sfrenata a scapito delle risorse terrestri, il concetto no-global è intrinsecamente connaturato al nucleo centrale della pellicola diretta da Derrickson.

Al fine di una integrità quantomeno ideologica (oltre che artistica) del testo, i grandi nomi erano l’ultima cosa da trattare, se non la prima da tralasciare. Ne risulta invece che gli stessi agenti ideologicamente chiamati in causa finiscono invece con l’auto-promuoversi attraverso una presenza che risulta quindi contraddittoria quanto imbarazzante.
Senza entrare nel merito dei rapporti di produzione e distribuzione che interessano il cinema e i VG, o il concetto di autorialità espressiva dissolto fra le dinamiche di arte e pubblicità, i videogiochi hanno per fortuna una relazione più ideologicamente comprensibile con la stessa.
In essi attualmente l’Advertising (o Advergaming) mira precipuamente ai giochi flash scaricabili gratuitamente dalla rete, grazie all’accordo tra Google e Mochi Media, un’azienda specializzata nell’inserimento di messaggi pubblicitari all’interno di giochi Flash.
Dal canto suo Microsoft ha siglato invece un'intesa con Electronic Arts in modo da portare la propria pubblicità sui titoli prevalentemente sportivi e comprensibilmente votati alla stessa (Madden, Nascar, Tiger Woods, Nhl, Skate…).
Grazie alla tecnologia di Massive acquisita da Microsoft, che permette di gestire in modo dinamico gli spazi destinati alla pubblicità nei mondi virtuali (tabelloni pubblicitari, schermi televisivi, le insegne dei negozi, contenitori di cibo e bevande), le immagini possono essere quindi aggiornate quasi in tempo reale, dove in precedenza il Product Placement avveniva invece per singoli VG nei quali erano inseriti marchi e prodotti all’interno del codice stesso (similmente ai film, ovvero immutabilmente su pellicola, con la relativa risultante artistica estetica/visuale data dal sapore dell’opera definitiva).
La tecnologia di Massive applicata ai VG va chiaramente oltre, permettendo di variare le inserzioni in base ai dati forniti dall'utente (sesso, età, preferenze di gioco) nonché di rilevare dati utili durante il gioco stesso, come ad esempio il tempo di esposizione verso specifici annunci.

Se da un certo punto di vista la monitorizzazione delle realtà virtuali che presumono un advertising tende a “spiare” appunto l’attività del gamer, il fenomeno è tutt’altro che allarmante.
A differenza del cinema il videogioco è difatti Lo spazio dinamico video-interattivo per antonomasia entro il quale tutto ciò che avviene sensorialmente grazie allo stesso determina polivalenti significati. Il testo di un VG è difatti una entità fluida, una continua riscrittura che il gamer ri-definisce ad ogni iterazione e con la quale finisce invevitabilmente con il “criticare” la realtà stessa attraverso ciò che nel gioco egli fa o non può fare.
La dimensionalità ludica (I.Fulco), ovvero ciò che si "può fare" in un videogioco equivale ogni volta ad una ri-definizione esegetica della realtà stessa a cui il gioco rimanda. Ogni possibilità d'azione data dal gioco al videogiocatore, quando questi la fa valere all’interno del VG, crea difatti un sub-universo topico, una condensazione esegetica di una data porzione di realtà (virtuale) che rimanda necessariamente a quella reale. Gran Turismo diviene quindi una esegesi critica del guidare nella realtà, Call of Duty dell’uccidere in guerra (o dell'omicidio uccidendo compagni) e Grand Theft Auto eventualmente anche quella del comportamento (civile o meno) di guida urbana o del denigrare l'attività di prostituzione, ad esempio. Qualsiasi cosa avvenga all’interno di un VG, persino gli stessi “salti” compiuti da Super Mario, i suoi goffi scivoloni o il modo di camminare sensuale di Lara Croft informano criticamente sul mondo reale al quale il Videogioco necessariamente rimanda attraverso il verbo di ogni sua singola manifestazione digitale.
Gli avatar del giocatore sono a tutti gli effetti dei canali, dei veicoli con i quali esprimere, contestualmente, un pensiero critico/esegetico che attraverso il virtuale rimanda al reale.

Per fare un esempio con Ultimatum alla Terra, se in un VG free roaming alla Grand Theft Auto e basato sull’universo del film il videogiocatore/Klaatu avesse avuto la possibilità di sparare contro l’insegna McDonald's, o addirittura disintegrarla, il possibile sub-aspetto semantico creato da questa azione contestuale avrebbe creato un significato autonomo diametralmente opposto al dispotico Product Placement del film, scongiurando di conseguenza l’assoggettamento al principio di controllo avanzato invece dalla pellicola in questione.
Il plot narrativo del videogioco è difatti una parafrasi della libera azione videoludica, e viceversa.
Ciò comporta che il senso ideologico del videogioco è per sua natura la libertà d’azione del videogiocatore, tanto più marcata quanto più viene concessa dai game designer e dalla creatività del giocatore stesso (fenomeno di gameplay emergente).
La libertà interattiva del gamer, vero e proprio co-autore del testo videoludico, attesta quindi già una ideologia di per sé, ontologicamente opposta alla fruizione passiva di un’esperienza puramente cinematografica.
Di per sé quindi l’esperienza videoludica scongiura intrinsecamente l’eventualità di un Product Placement indiscriminato, per i quali anche semplici spot fra un livello di gioco e l’altro, magari dopo l’ennesima cocente sconfitta con un boss di fine livello, produrrebbero un effetto di irritazione verso il gamer che finirebbe per risultare controproducente per la stessa azienda promotrice.

Al contrario del cinema quindi, l’attività videoludica rappresenta a tutti gli effetti una (v)ideologia refrattaria, lontana dalla promozione pubblicitaria indiscriminata, tanto più quanto la libertà di determinarne il testo risulterà fondante in futuro, come lo è oggi.

Da un punto di vista di coerenza squisitamente artistico/espressivo/concettuale invece, in quanto al remake di Ultimatum alla Terra l’originale vale innegabilmente di più.
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