30 novembre 2008

Sopravvivenza é il suo unico messaggio. FALLOUT 3.

(di Luigi Marrone)
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Il lavoro svolto da Bethesda nella caratterizzazione post-apocalittica di Fallout 3 è semplicemente splendido. L'esatto mix di tendenza stilistica e l’appeal suscitato dalla riflessione e dal divertimento di gioco risultano magnificamente bilanciati.
Dramma estetico e ironia stilistico-visionaria rendono Fallout3 un “must have” per chiunque voglia perdersi in una esperienza matura, di genere. Il marketing perfetto, la promozione televisiva senza censure e la localizzazione integrale dei dialoghi rendono merito alla scuola dei doppiatori nostrani: un buon segno per il consolidarsi di una Industry italiana che sposi il videogioco con l'impegno già profuso nella riconosciuta arte del doppiaggio.
La Washington DC sventrata dall’Atomica scava nell’anima quel particolare abbandono post nucleare che va a sciogliersi nell’indigenza e nella corruzione nucleare del corpo.
Non è Mad Max e neanche la sordida rarefazione ambientale di Chernobyl, bensì una commistione di ciò che può accadere alla carne e allo spirito umani quando le cellule impazziscono: si tratta della desolazione del cuore e della speranza, un altro modo di intendere l'Inferno sulla terra.
L’art design schiaccia qualsiasi obiezione precedentemente giustificata ai tempi di Oblivion: dalla corsa legnosetta del protagonista all’immancabile draw in all’orizzonte, la coerenza e l’organicità dell’universo di Fallout 3 sbattono via le magagne tecniche grazie ad una direzione artistica ineccepibile.
Le abilità attraverso l’intuitiva crescita del personaggio, nonché l’ìnterfaccia utente snellita ulteriormente rispetto ad Oblivion rendono la consultazione di qualsiasi elemento/statistica di gioco semplicemente perfetta. Sorvolando sulla stessa concezione di RPG Fallout 3 diviene quindi il prodotto da portare alle masse, affinché la comunità venga educata al videogioco quale possibile (ed unico) medium fautore d’esperienze sensoriali esistenzialmente caratterizzanti.
Infine é nel senso di conflitto e di urgenza che si muove il vero universo distopico di Fallout 3, quando per ogni munizione trovata, per ogni arma, per ogni sostanza lenitiva o pallottola andata a segno si finisce con l’avvertire ogni volta quel brivido viscerale dell’accattonaggio e della depredazione in cui si manifesta l’intero messaggio principale del gioco: la bestia nera del sopravvivere in un mondo il cui spirito ha avuto oblio della vita stessa.
Aberrazioni organiche, cancerose radiazioni, polvere infetta di una terra arida delle stesse lacrime umane, tra guance ed occhi solcati dal buio, dalla febbre e dall’indigenza in un mondo che ha violentato la sua stessa aria nel fuoco dell’atomica… tutto ciò dentro un vestito retro-futuristico dalle abbottonature a vapore steampunk, con la pretesa di sciogliere e separare con un ironico sorriso ciò che sarebbe potuto essere dall’idea del futuro che sarà.

Alla fin fine il pluri-premiato Bioshock è il racconto di una storia immersa in fondo al mare, fra ricchi matti.
Fallout 3 invece è l’apocalisse del mondo intero.
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3 ottobre 2008

Una critica diversa, per giocare meglio.

(di Luigi Marrone)
Prima o poi l’affrancamento da una critica videoludica tradizionalista come quella ampiamente diffusa nell’attuale panorama culturale dovrà avvenire. 
Una cosa è certa: fin quando la terminologia dello hobbysta recensore farà la sua predominante comparsa, crogiolandosi in tassonomie di giudizio facili quanto consolidate, il videogioco non farà alcun passo da dove è sempre rimasto ancorato, vale a dire al proprio rigido e asettico determinismo estetico capace di mozzare l’innesto e l’importanza culturale che potrebbe iniettare in seno agli altri sistemi artistici.
Trattando di opere multimediali, la critica in ambito videoludico potrebbe invece ricoprire una funzione fondamentale in tal senso, fungendo da contraltare al superficiale - culturalmente parlando - giudizio popolare, nobilitando opere e progetti artistici caratterizzati da sviluppo di svariati anni e ingenti investimenti di risorse umane e finanziarie dietro i medesimi.
È importante valorizzare culturalmente i videogiochi. È importante convincersi che il ruolo del critico di videogiochi andrebbe del tutto ripensato.
Esiste un vizio mefitico, troppo stratificato da smantellare.
La critica videoludica non tratta solo della necessità primaria di consigliare l’utenza all’acquisto di costosi “videogiochi”, veri e propri beni di lusso con l’immenso potere di muovere macro-economie sul breve/medio termine influendo sulle micro-economie finanziarie del singolo consumatore.
La critica videoludica comporta l’esigenza di indurre a ripensare la Cultura oltre Videogioco, sì da garantirle una dignità autorevole, quando accostata alla critica culturale generata dalle altre Arti, scongiurando in tal modo, tra l’altro, qualsiasi possibile ghettizzazione.
L’esperienza videoludica, sia in fase di produzione che di consumo, è cosa seriosamente giocosa quanto impegnativa e culturale, pertanto, quando criticata, non dovrebbe continuare ad essere (quasi sempre, come accade) compressa in aspetti comodi e codificati quali le categorie di giudizio comunemente presenti nella maggioranza degli enunciati critici: dal gameplay alla grafica, sonoro e longevità, ecc…
Tali sub-aspetti, ed è inutile giravi troppo intorno, trattano di termini parziali che non “elevano” assolutamente il gioco in sé, tantomeno possono esprimerlo globalmente in comode sintesi numeriche.
Affermando questo, non si vuole assolutamente puntare l’attenzione sulla pratica e l’utilità o meno del voto in calce alla recensioni, o delegittimare un abuso terminologico in tal senso, bensì fornire uno spunto di riflessione sulla relatività di tale abitudine.
Non sarebbe più stimolante se si vedesse più spesso la critica videoludica come un apporto multidiretto, a più livelli polivalenti, fra tutte le arti quando possibile? Nel criticare una data opera quindi, non si potrebbe andare oltre i limiti di riferimento della videoludica stessa, “Beyond The PlayVerse”, sconfinando oltre il “gioco in sé”?

Esempio: la critica d'Arte


Posto di fronte ad un dipinto, un buon critico d’Arte non si muoverà nel testo critico restando solo in ambito pittorico, chiamando cioè in causa solo ed esclusivamente il genere “Pittura” per avanzare una analisi critica comparata. Tale critico scomoderà, in un discorso culturale polisemicoe globalmente inteso, varie categorie artistiche che spaziano dalla letteratura all'architettura, dal cinema alla musica alla religione qualora fosse necessario, affinché la dignità dell’opera d’arte risalti di una vocazione e di una importanza autoriale che ne determinino un valore quantomeno complessivo, culturalmente multi-costituito e infine unico, di sostanza.
In sede d'analisi vengono altresì scomodati gli aspetti psicologici e sociali dell’autore dell’opera, i contesti storici e le influenze artistiche sincretiche alla formazione dell’opera stessa.
Se è vero che la definizione di Autore Videoludico è ovviamente problematica in quanto, oltre al limite tecnologico, le software house rappresentano realtà “corporative” nelle quali la visione autoriale rischia di naufragare nei complessi rapporti di produzione e distribuzione del mercato (oltre alla difficoltà di rintracciarla in un team di lavoro di centinaia di persone dotate di competenze e sensibilità disparate), c'è da constatare quanto siano pochissimi i recensori “specializzati” che possono affermare di promuovere lo stesso discorso polisemico, anche in minime percentuali, per il Videogioco.
Da un punto di vista editoriale, C'è chi scrive recensioni in cinque minuti, basandosi su impressioni epidermiche, e facendo ruotare il discorso sul 10% di uso delle proprie meningi.
C'è chi invece produce un'analisi polivalente, interessante.
Ma è bene ricordare che anche in ambito videoludico, per qualsiasi artefatto esistente che si voglia analizzare (che si chiami Pong, Rez, Metal Gear o Giulia Passione Top Model), ci sarà sempre spazio per un apporto trasversale che nobiliti il sostrato del codice oltre i confini puramente ludici del mero gioco in sé.
Questo spazio purtroppo non viene quasi mai indagato per non dire ignorato dalla stragrande maggioranza del sistema critico generatosi nel tempo attorno al videogioco (se di sistema si vuol parlare).

Levels - Questioni di cultura e sensibilità
Esistono diversi livelli di gioco, come esistono diversi livelli di competenza nel leggere il testo e fruire del videogioco stesso. Ma il saper leggere lo stesso libro sino alla fine, per due lettori differenti, non comporta affatto il saperne fare esperienza allo stesso modo. Per tale motivo impugnare un mouse o un pad e mettersi a giocare allo stesso gioco non è cosa uguale per tutti i gamers.
Non si tratta solo di competenze nel senso di skill, abilità o “bravura” nel portare a termine il gioco, bensì del “viaggio” fisico e mentale, nonché ludico/culturale, attraverso cui si vive il videogioco.
È fin troppo semplice presumere che da diversi videogiocatori possano provenire critiche al gioco diverse. Ma se la stragrande maggioranza delle analisi critiche sembrano tutte uguali, è perché l’esperienza critica riguardo al videogioco si è formata su di un ambito culturale di riferimento superficialmente denso, poco polisemico, per la maggior parte generato a partire da una refrattarietà intellettuale verso certi strumenti critici che si è fatta endemica, generale.
Se tutto ciò si rinnovasse, cosa accadrebbe a quel punto alla Cultura del Videogioco?
Rinnovando gli strumenti critici videoludici, e di conseguenza la stessa visione critica del/per il videogioco, non muterebbe forse anche la qualità dell’esperienza che si fa del gioco stesso?

Esempio personale: un gioco di guida.
Nell'affermare di stare giocando a SBK08 – SuperBike World Championship, è doveroso premettere quanto non sia mai stato particolarmente interessato a corse di moto e auto, e ai relativi videogiochi ancor meno. Non è un mistero che io non possegga alcun racing simulativo nella mia ludoteca. Ciò che guido più volentieri sono i veicoli di Grand Theft Auto nelle fasi di “guida”, appunto, e nient’altro.
Imbattendomi in una recensione online di un videogiocatore che, lo si intuisce dal testo, è un appassionato di videogiochi racing (da una ricerca postuma ho poi scoperto che gli vengono affidati quasi tutti i racing da recensire), è avvenuta la magia.
Seppur tale critico abbia espresso toni affatto entusiastici per il titolo in questione, la cognizione per la materia insita nelle sue parole mi ha fatto infine optare per la “prova” del gioco, il volerne fare “esperienza” appunto.
Si può dire che la sua trattazione sia un vero e proprio intervento culturale.
Oggi potrei sicuramente affermare di saperne di più, virtualmente s’intende, di sospensioni, bilanciamento, compressioni di varianti, assetto e staccate. L’esperienza su pista mi ha definitivamente coinvolto quanto “istruito” su questo universo di bolidi a 2 e 4 cilindri, e tutto questo grazie ad un testo competente, caratterizzato tra l’altro, tengo a precisarlo, da un commento finale senza alcun voto.
Mai però oggi potrei permettermi di recensire un videogioco di racing simulativo, pur avendone la possibilità di giocarne ed esperirne l’essenza a fondo. Questo perché riconosco quanto personalmente io difetti del substrato culturale che risulterebbe complementare quanto indispensabile per una trattazione critica qualificata.

Questions
Ma quante volte NON si è data una chance ad un prodotto, magari per un rifiuto a “pelle” verso le immagini o verso lo schermo allagato di statistiche di gioco, per una divergenza con la nostra sensibilità data dal contesto del gioco stesso?
E quante esperienze sono state scartate a causa di una recensione terminata con un voto appena discreto, che ha orientato poi verso l’acquisto di altro?
Potrebbe essere questo ciò di cui produttori di videogiochi dovrebbero riflettere.
Se la critica sapesse nobilitare più esaustivamente, in termini culturali, l’esperienza videoludica in sé, chiamando in causa altri aspetti meta-ludici, quanti più gamers, assimilando un testo critico, si avvicinerebbero meno superficialmente e più incuriositi verso un determinato videogioco, incrementando il proprio interesse, la propria complicità e il relativo coinvolgimento per il videogioco stesso?
Produrrebbe forse più passione, più numeri, più economia e una più diffusa voglia di giocare, una migliore cultura critica?
O forse diverrebbe solo uno sfoggio di cultura pedante, mal confacentesi alla equazione “Videogioco = intrattenimento spensierato” da cui storicamente il medium non riesce ad affrancarsi?
In ogni caso, la questione rimane aperta.

Così come avviene per i testi generati da altri sistemi critici, potrebbe essere solo un bene se la critica videoludica si facesse latrice di un ampliamento culturale per il videogiocatore, trasformandosi in uno strumento per conoscere (il mondo) partendo dall’analisi del gioco stesso. Oltre a donare automaticamente più dignità alla prassi del videogiocare.
Seppure non sia questa la sede per analizzare i comunemente intesi ambiti di riferimento del consumatore (VG = semplicemente Gioco = bambini) o la stessa onomastica fuorviante e idisioncratica verso l’esperienza videoludica stessa (“Videogioco” appunto), il videogioco è quasi sempre risultato lontano da tali traguardi culturali, lontano dal suscitare i dovuti stimoli intellettuali in tal senso. E la dilagante quanto miope superficialità della visione critica in ambito videoludico non ha aiutato di certo.
Nonostante gli strumenti per un approfondimento trasversale ci siano tutti, da Internet ai film ai libri e svariati testi saggistici ampiamente accessibili sulla Rete, per la stragrande parte il medium continua a zoppicare maldestramente sulla scena, quando viene fatto danzare assieme alle altre Arti.

E’ necessario dunque riconoscere l’urgenza di una vera scuola di pensiero per i critici videoludici d’arte. una scuola di pensatori “trasversali” appunto, che inneggi ad una cultura multi-disciplinare oltre che sostenuta da mera passione per il Gioco.
Perché se è vero che qualsiasi videogioco, come del resto ogni altro artefatto artistico, necessita di una “critica” d’arte sagace nel nobilitare l’esperienza del giocare in in sé, lo sdoganamento culturale passa obbligatoriamente per una relativa produzione testuale di gran lunga diversa da come si è abituati a leggere in modo cosi diffuso.
Staremo a vedere, almeno questo è sicuro.

17 settembre 2008

Nel rispetto delle "Armi dei Patrioti": questioni di cuore ed emozioni.

(di Luigi Marrone)

Prendere un giovane videogiocatore, strapparlo via dalla linea temporale di un qualsiasi Metal Gear e piazzarlo alla fine del (sedizioso) viaggio fantapolitico equivale ad un ostetrico forcipe-munito il quale pretenda che la creatura appena strappata via dall’utero possa ricordare cose di cui non può aver fatto esperienza.
Metal Gear Solid 4 non è un’opera destinata a tutti.
Con buona pace di chi possedendo una Playstation3 abbia creduto di poter imbattersi in un paradigma omni-comprensivo, appagante e totalmente “ludico”, l’ultimo Metal Gear è una questione nostalgica, del cuore e del ricordo che con la ragione e il “buon senso” videoludico ha ben poco a che vedere.
Volendo prendere in esame una qualsiasi produzione seriale, e arrendendosi al fatto che la qualità delle “stagioni” di una serie TV non può essere tutta determinata dall’ultima puntata, è giusto considerare Metal Gear come una sAga mentale (ironia voluta) composta da un corpus di opere videoludiche che hanno ragion d’essere sia nella loro interezza che nella loro (ogni volta) parziale incompiutezza.
Detto questo, Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots non sarà mai un’opera trascurabile nella videoludica odierna e a venire, grazie soprattutto al fatto che la sostanza dell’opera va ad inscriversi alla fine e all’inizio di un processo evolutivo che interessa il medium videogioco in ogni sua parte.
Se è vero che “il medium è il messaggio” come afferma il sociologo Mcluhan è altresì vero che il medium può “andare oltre” il messaggio: oltre Playstation3 quindi, oltre il marketing o le velleità autoriali di uno sparuto game designer, tutta la forza che l’ultima opera Konami possiede in sé é in grado di trascendere totalmente qualsiasi derivazione produttiva: meta-linguaggio e fantapolitica, overflow d’informazioni e controllo della coscienza, implicazioni bellico-centriche e clonazione di esseri umani, manipolazione genomico-militare e IA neuronali, telecinesi, nanomacchine e madri surrogate… come per ogni buona opera d’arte che si rispetti, Metal Gear va oltre la summa delle sue parti.
Vivere Guns of The Patriots equivale a rimanere imbrigliati in un discorso estremamente esigente quanto accondiscendente, contraddittorio quanto spettacolare: si tratta dell’emozione di trascendere completamente la materia videoludica per donarle le vestigia di qualcosa di imperituro, granitico quanto relativo, trascurabile quanto… sacro, diciamolo pure. Guns of The Patriots compie difatti un’operazione perniciosa in seno a tutta la comunità videoludica, dividendo in due l’utenza che avrà sempre la pretesa (a torto o a ragione) di voler guardare all’oggettività videoludica.
Non sarebbe invece errato pensare alla saga Konami come ad un qualcosa di tendenzialmente diverso da ogni altra produzione mediale, cinema e videogioco assieme e al contempo sodalizio e divorzio fra le due arti, coacervo di contraddizioni e intensità di significati all’interno di una entità polimorfa dallo sguardo trasversale.
Si potrebbe non aver mai giocato Guns of the Patriots o averlo portato a termine diverse volte, la sostanza non cambierebbe: l’esperienza Metal Gear Solid non è infine giudicabile. Criticabile quanto si vuole, con gli strumenti analitici rimessi ad una critica che deve per forza tener di conto il videogioco e i suoi specifici in senso stretto, questo si, ma non giudicabile infine. Questo perché Metal Gear implica in primis l’emozione e la fierezza di comprendere cosa comporta l’essere un videogiocatore, spettatore pagante/attore interpretante, utente cogitante e pensatore giocante, una riflessione meta-ludica in seno al videogioco stesso, che la console sia accesa o spenta o il gamer presente/assente – tutto è potenzialmente possibile dentro un Metal Gear, persino la possibilità di restarne sorpresi ed estasiati, interdetti o sopraffatti: l’estimatore che conosce l’opera sa perfettamente di cosa parlo.
Tutto questo perché chi ha amato la serie sin dal passato sa benissimo cosa comporta un nuovo Metal Gear da vivere sulla propria console: si tratta - ogni volta - di un brivido videoludico esistenziale - un potere che solo le grandi opere d’arte possono sprizzare.
Trattandosi di un’opera in continua riscrittura, ogni iterazione della stessa comporta un sensibilissimo ritoccare a ritroso il ricordo e l’esperienza di mondi vissuti anni prima, quando probabilmente si possedevano altre coscienze, comprensioni, sistemi di gioco e ideologie, con tutta probabilità anche abitudini al gioco divergenti e/o meno complesse rispetto alle attuali.
Gli apporti dati dal presente narrativo dell’ultimo capitolo implicano inoltre la ri-definizione del passato videoludico di molti videogiocatori con tutto il proprio, destabilizzante carico esegetico.
Tutto questo perché Guns of The Patriots, a prescindere dalle qualità specifiche dell’opera in sé implica la sollecitazione dell’Essere videoludico, del sentirsi videogiocatori e dei relativi Affetti verso gli elementi e i personaggi del gioco mutuati nel tempo dall’estimatore dell’opera, in quanto, da oltre 20 anni a questa parte, Metal Gear è divenuta una realtà cresciuta assieme ai videogiocatori, nonché con le tecnologie d’intrattenimento al servizio dei giocatori, dai primi MSX2 all’attuale PS3.
Inutile affermare che l’Opera Konami ha segnato un passo per sempre, un paradigma o se si vuole uno standard da cui partire per un discorso non-evitabile sul medium e sull’arte del videogioco il quale, grazie ad una commistione di linguaggio puramente videoludico (gameplay) e cinematografico (FMV o cut-scene), con Metal Gear non ha mai dimenticato di ricordare qualcosa di fondamentale nell’attuale discorso che divide ludologi e narratologi: una storia - o se si vuole un’epica - tutta da raccontare grazie al “videogioco”.
Accostarsi a Guns of The Patriots comporta quindi – inevitabilmente - l’immersione ludonarrata in una lunga storia raccontata per la quale (e per fortuna) qualsiasi riflessione non diverrà mai una canonica recensione: distillare i tratti di tale opera entro i confini di una valutazione puramente “ludica” sarebbe solo una irrisoria mistificazione.
Guns of The Patriots è una storia conclusiva che va narrativamente “vissuta” oltre che giocata, trattandosi della probabile parola FINE con la pretesa di sciogliere nodi dall’intreccio ventennale, inevitabilmente una storia che oltre che giocata va soprattutto “visionata” nel suo raccontarsi quindi, mollando il pad e districando l’overflow di dati sedimentato nella memoria, fra le risposte insolute e le insospettabili alleanze, le passate reminiscenze e tutto l’esasperato nozionismo militare, lasciandosi naufragare dalla marea di significati e di informazioni, scioglimenti e interrogativi, perdendosi e ritrovandosi, commovendosi e amareggiandosi.
Hideo Kojima è stato perentorio: Solid Snake è il giocatore, tutto ciò accade (ed è accaduto) nel tempo a Solid Snake è accaduto al giocatore, verità lapalissiana certo, ma con un’aderenza empatica e un impatto emotivo e assieme un colpo soffocato al cuore come probabilmente nessun altro personaggio videoludico - su cosi larga scala planetaria - ha dimostrato di saper fare con tale “umana” intensità.
Cosi come avvenuto per pochissime altre grandi icone/brand videoludici, per molti gamers Metal Gear e il clone Solid Snake SONO lo status del videogioco di ieri e di oggi, e tutto ciò che può accadere al videogioco, nel bene o nel male, è riflesso nelle critiche, nelle difese e nelle offese riservate dalle comunità al “Vecchio” Snake.
Si tratta di un qualcosa che, nel rispetto di un’icona, di un’esperienza e di una continua gratidudine per ciò che fino ad oggi tale entità ha rappresentato, personalmente non sarei mai in grado di fare.

Lascio quindi che quest’ultima esperienza (cinematografica) sia, per una volta, semplicemente se stessa, senza volerla per forza controllare.
Il cuore e l’emozione infine… non li si può giudicare.
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28 agosto 2008

Ancora qualche anno, poi tutto sarà specchio.

(di Luigi Marrone)

Io Videogioco.
Io VideoLudoAgisco.
Io VideoLudoPenso, VideoLudoFallisco.
Gravido di Universi-Altri dentro, costeggio il litorale:
le texture perfette di questi palazzi, l’I.A. di questa gente, il motion blur su queste emozioni e dentro questo mare…
hanno il sapore di viaggi virtuali sedimentati dentro.

Mezze Vite in Silenziose Colline, 7Killer all’Ombra dei Colossi:
Fantavisioni
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VideoEsperienze di cuore e memoria.

Ancora qualche anno, poi tutto sarà specchio.

Io, Videogiocatore.
:
:
La realtà che ho fuori.
La realtà che ho dentro.
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1 agosto 2008

Le console di oggi? Una guerra di servizi

Ma le console non sono forse nate per giocare?
(di Luigi Marrone)

Correva l’anno 2006.
Durante la Game Developers Conference l’allora presidente degli SCE Worldwide Studios, Phil Harrison, poneva l’enfasi sulle 4C, le 4 funzioni fondamentali del “Network Platform” di Sony, oggi Playstation Network.

1) C-ontenuti
2) C-omunicazione
3) C-omunità
4) C-ommercio

Che si tratti di Sony, Microsoft o Nintendo, due anni dopo la situazione merita una riflessione.
E' ormai fuori dubbio quanto un aggiornamento attraverso il Live sia oggi un momento importante per esplicitare una "guerra" per il consolidamento dell'utenza e l'accaparramento di una nuova e più diversificata possibile sulla propria piattaforma.

Xbox Live muove le partnership proponendo contenuti di studios da NBC Universal a Universal Studios Home Entertainment, SCI-FI Channel e USA Network. Da noi in Italia dovremo ancora aspettare, ma già in altre parti del globo il Video Store di Xbox Live Marketplace offre contenuti di aziende e studios cinematografici, da Paramount Pictures a Warner Bros, da MTV Networks a Disney Channel e Toon Disney.
Si potrebbe affermare che i sistemi Sony e Microsoft stiano dando adito sempre più ad una sfida di convergenze sui servizi ed offerte che pare mettere in secondo piano le performance tecnologiche dei relativi sistemi. Non è difatti un mistero che a tre anni di distanza dal lancio mondiale di Xbox360, prima console di questa nuova generazione, si sia finiti oggi a parlare più di Hard Disk capienti in un'ottica digital delivery che di capacità di calcolo in virgola mobile.
La Nintendo quindi, in testa ad una rivoluzione del “massive-game” per tutte le età, inizia a lamentarsi dell'assenza di un Hard Disk più capiente nel suo Wii quanto della inevitabile latitanza di un segnale HD, prendendo ovviamente quali modelli di riferimento Sony e Microsoft.
Di contro il social networking promosso da Xbox Live Experience batterà questo autunno la strada della "carineria" kawaistica dei Mii Nintendo attraverso gli Avatar personalizzabili, con l'interfaccia degli store che imita palesemente la figurazione visuale dell'iPhone a sua volta mutuata dall'interfaccia sensitive touch del DS.
Il servizio Home di Sony cercherà di creare una “Second Life” con tanto di "trofei", ossia monili virtuali da sfoggiare in "casa" propria come gli Achievement Points nella gamertag di Xbox 360, tutto questo dopo essersi resa conto che in un'ottica di giochi multipiattaforma alcuni utenti preferiscono un titolo della console Microsoft proprio a causa dei punti sbloccabili.
Servizi, accessibilità sui contenuti, transmedialità e guerra di convergenze quindi. Verrebbe piuttosto da pensare ad una guerra di “imitazioni” nella quale si rincorre l’esclusiva dei servizi e delle features proprie di un sistema in modo che qualsiasi individuo di qualsiasi età, nel proprio salotto, non debba aver altro desiderio che possedere e controllare tutto attraverso un’unica piattaforma che non manchi di nulla rispetto a quanto offerto dalle altre proposte sul mercato.
In questo particolare momento tecnologico, nel quale la corsa ai servizi multimediali è il vero campo di battaglia dei grandi produttori hardware, l’offerta di tali servizi sta per divenire la vera carta vincente in grado di definire il ruolo di pilota/guida dell’intrattenimento digitale per tutti gli altri prodotti mediali (cinema, TV e musica in primis).
Viene da porsi dunque la seguente domanda:

Ma le console non sono forse nate per giocare?

La domanda è lecita in quanto pare che convergenza e omogeneità dei servizi vogliano primeggiare relegando all’ultimo posto della scala dei valori gli specifici "ideologici" alla base dell'esistenza di un determinato sistema ludico sul mercato, ossia quello di intrattenere l’utente attraverso il videogioco.
Gli aggiornamenti a portata di clic, la versatilità di scelta negli store virtuali, l’affezionabilità ad un Mii-Avatar che si muove in un Virtual Space - preludio di un 3D web che forse vedremo fra una decina di anni al posto dei protocolli Http - attestano sfide sul campo che rende de facto l'offerta dei servizi importante quanto il ludus elettronico offerto da una determinata piattaforma.
O forse di più?
Come afferma Matteo Bittanti nel suo portale Schermi Interattivi, la battaglia si sta trasformando in una sfida d'interfacce (visuali, gestuali oltre che fisiche), con l’aggiunta che, in un'ottica di interessamento verso il media-hub, quanto più ineccepibile risulta la sua affermazione sui videogame che guidano l’innovazione tecnologica nel settore del consumo di contenuti multimediali tanto più l'aumento dell'omogeneità dei servizi tenderà inesorabilmente verso una omogeneità dell'offerta che potrebbe rendere persino l'acquisto di una console una questione puramente relativa ai prezzi dei servizi offerti piuttosto che sui videogiochi tout court (i quali si attestano sulle medesime cifre).
L'importanza ricoperta dai servizi on line sta ridefinendo strategie e modelli di marketing in modo impressionante, delineando vertiginosamente il futuro del medium videoludico mediante una convergenza che rende il terreno di scontro rovente.
L'importante é che gli attori sulla scena non dimentichino che ne esistono altri altrettanto importanti e affatto trascurabili, ossia lo zoccolo duro dei giocatori che nel marasma dei servizi offerti dalla propria console, oltre a godere delle possibilità multimediali di un intrattenimento non videoludico non vuole rischiare di perdere l’orientamento verso ciò che più dovrebbe risultare principale:
giocare appunto.
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7 luglio 2008

1999: la mia Playstation, la strage di Columbine. Una riflessione personale.

(di Luigi Marrone)

.Attraverso questo articolo mi permetto uno slancio di riflessione senza pretese d’assenso alcuno. Non si tratta di un saggio, di un’ode da fan boy o di un pleonastico rigurgito di repressa emozione e nostalgia, si tratta semplicemente d’un tempo andato, fatto di palpabile affezione del cuore oltre che della mente.
Sony Playstation è datata 1994, Giappone, dodici anni di rigenerazione ininterrotta sino al 2006 ma attualmente vivente all’interno della propria discendenza tecnologica, PS2 e in parte PS3. Lettore CD-ROM e CD audio, capacità di performance di 66 MIPS, 360.000 poligoni monocromi al secondo e 180.000 poligoni con texture e ombre al secondo (fonte Wikipedia).


Di console, integerrime o meno che siano state, la storia videoludica ne ha viste tante, ma Sony Playstation è stata qualcosa di unico oltre che speciale. Da un punto di vista squisitamente tecnologico/culturale pensare Playstation equivale a pensare ad uno SquareSoft-preannuncio di realismo fotografico gameplay integrato che spinge verso un futuro cinematografico – croce e delizia di ludologi e narratologi – presago (volenti o nolenti) d’esperienze generazionali a venire.
Di tutto questo, per coloro che ne hanno vissuto i fasti restano oggi le Playstation texture – ossessive nella loro video-resa portatrice di quell’anima digitale ormai intrisa nell’esperienza di chi – videoludicamente sensibile al punto giusto - ne ha vissuto il tempo originale.

A ben osservarle le texture Playstation sono nient’altro che un sovrapporsi di garze - tessuto digitale atto a lenire particolari pulsioni videoludiche – medicazioni visive per videogiocatori che attraverso quella strana filigrana spalmata su schermo vivevano l’idea di un miraggio, di un arrancante foto-realismo composto dell'anima e di quel coraggio necessari a trovare un assenso culturale buoni a spingere il medium oltre.
Sarà stata forse la loro spigolosa onestà, la debole consistenza infiocchettata nella leggerezza carta-velinata delle texture, ma è fuori dubbio che i poligoni abbracciati dalle texture Playstation non erano altro che entità ballerine, palpitanti – geometrie funamboliche all’interno di un incanto digitale ma a tal punto precarie da recalcitrare entro immaginabili contorni in wire-frame - quasi volessero straripare – quasi tutto dovesse al tempo trasformarsi in un emozionale esplodere videoludico - di quell'imperfetto sgomitare di spigolature per una ostentazione di geometrie dalle forme dure che spingevano le garze contenitrici a scivolarsene via durante il loro “Bad-clipping” .

Ovviamente ciò non è solo parte del passato – il videogioco è performance hic et nunc – tempo dell’agire presente, del momento e dell’ora – ma ciò non toglie quanto Playstation abbia rappresentato al tempo per molti la prima vera poesia tecnologica/digitale (oltre che ad un rinnovato entusiasmo per il dibattito culturale sul medium) nell’ostentazione di una perfetta immagine realistica.
Playstation guardava il mondo con il suo Geometry Transformation Engine contenuto nella CPU a 32 bit, renderizzando grafica 3D per mettere su esperienze del calibro di Silent Hill, Resident Evil e Metal Gear Solid che hanno ridefinito concetti di visualizzazione grafica, narrazione e gameplay lanciando (o rilanciando) i propri termini artistici grazie unicamente a Playstation.


Ora é difficile quanto intimo spiegarne il motivo, quasi si trattasse solo di una brutta sensazione pronta a giocare col Tempo, eppure ho sempre sentito qualcosa di fastidioso, sincretico quanto disturbante fra la definizione di Playstation-Generation degli anni 90 e la strage avvenuta al liceo di Columbine a Littleton, in Colorado, il 20 Aprile 1999.
E’ una strana, soverchiante ed opprimente sensazione tipica di quando si ha a che fare con qualcuno che convive con il proprio odio sottile quanto auto-cosciente, eppure resta il fatto che, per quanto precoce e dannato possedevano un forte slancio riflessivo Eric Harris e Kevin Klebold, 18 e 17 anni rispettivamente, responsabili del massacro che ha visto oltre al loro suicidio la morte di un insegnante e altri 12 studenti.
Vi sono alcune frasi nel “Journal” di Klebold che fanno riflettere, fra le quali una di queste recita “E’ interessante essere in un corpo umano e sapere che da lì a poco morirai” – una frase pesante, che pare depositarsi in quegli anni come un epitaffio di marmo appartenente a quella specie di precocità da killer che pre-avverte nella propria risolutiva freddezza quel particolare “sentire” la propria vita al limite – trascendendo la propria esistenza nell’ansia di disincarnarsi corroborata da un'eccitazione esistenziale che abbia la parvenza e l'urgenza di un senso – per quanto atroce - nel presagio d’una fine lucida quanto malvagia.
Al tempo avevo sentito e visto le immagini di cronaca di Columbine alla TV, proprio nel periodo in cui giocavo spesso con la Playstation (Eric Harris giocava invece Duke Nukem e Doom sul PC, creando appositi mod) ma nel ‘99 Internet era cosa solo parzialmente accessibile nelle case italiane, molti interventi culturali erano riservati agli editoriali e all’angolo della posta delle riviste cartacee videoludiche e mentre migliaia di ragazzi continuavano a far esplodere teste di zombie o a sparare a soldati genomici – interrogandosi tra il provvisorio ritiro dal mercato Resident Evil 2 e l’orrore psicologico di Silent Hill – gli stessi videogiocatori permettevano (fra un Gran Turismo e l’altro) alle Playstation’s texture di entrare e registrarsi nella propria memoria quali liquide emozioni digitali.

Era ancora il 1999 quando ad esempio provai l’affascinante squallore di temporeggiare nella piccola cella di detenzione della Shadow Moses dove era tenuto ostaggio il Direttore della DARPA, Donald Anderson.
Era stato subito dopo l’attacco di cuore di quest’ultimo, mentre nell’intensità esperienziale/emotiva di quella prima volta nell’universo Metal Gear io mettevo Solid Snake a strisciare gattoni, la visuale in soggettiva per osservare da vicino le texture del pavimento - decodificando fra i quadrati poligoni ballerini alcuni mozziconi di sigaretta e altre indefinite forme.
Era magnifico provare la sensazione d’un gameplay emergente, di sentire di vivere la possibilità di un’esperienza che, per quanto autorialmente prevista da KonamiKojima, poteva facilmente regalare imprevedibili brividi ergodici.
Tutto pareva serio, tremendamente coerente e digitalmente vivo, poiché lo smacco emozionale di quegli ambienti 3D trascendeva al 100% l’imperfezione delle texture e dell’indefinito dei particolari d’ambiente. E fu cosi che, nel risollevarmi in piedi per continuare a scrutare attorno, la scarsa definizione dei dettagli in soggettiva/zoom mi avevano suggerito quali “feci”/“escrementi” quelle macchie brune e indefinite dentro il water della prigione di Anderson.

Era invece Martedi, le 17.00 circa da noi, e mentre in America venivano brutalmente stroncate vite di giovani ragazzi c’erano migliaia di inconsapevoli altri diciassettenni a pensare che fosse un orario abbastanza buono per giocare Playstation.
E' nell'immaginare e ricordare quei momenti che oggi io rivivo qualcosa che richiama lo squallore dell’atto omicida di quei 2 ragazzi durante quel maledetto 20 Aprile 1999 - una sensazione come se improvvisamente la vita reale debba svuotarsi d’ogni suo senso che non sia violenza, degrado, solitudine affettiva e abbandono - un po' come le sensazioni provate dal mio Solid Snake il quale, solo ed esistenzialmente incerto nella sua disperata missione non avesse meglio da fare che curiosare dentro la tazza di un cesso per immaginarne la puzza e il Vuoto in quei giorni del 1999.

Playstation Generation siamo stati chiamati negli anni ’90, definizione ambigua dal facile connotato di Generazione Videogame-dipendente, ma l’importante è ricordare questo: si tratta di una generazione che non vuole contemplare minimamente l’ideologia di una forma di violenza reale.

Abbiamo vissuto location in Resident Evil, fra caldaie e cantieri in costruzione, uffici della stazione di polizia di Raccoon City e spogliatoi con armadietti laccati, vasche di decontaminazione e magazzini con carrelli elevatori, cessi imbrattati e generatori e valvole e ruggine e carte sparse al suolo fra sirene d’allarme e pompe antincendio, mura e sangue… ma fra le abbandonate location ormai sedimentate nel mio ludo-immaginario di videogiocatore campeggierà sempre il sorriso, l'eccitazione e l'intesa omicida di Eric Harris e Dylan Klebold all'interno degli ambienti scolastici di Columbine.
Ed é cosi che le possibilità di performare una violenza digitale vengono terrorizzate dal connotato morale insite in quelle reali.
Nonostante lo stesso Eric Harris -ritenuto la mente pianificatrice dell’assalto -nel preventivare la mobilitazione collettiva di vari capri espiatori dopo la strage aveva scritto nei suoi “journals” che erano affatto da incolpare videogiochi, film e altre espressioni di violenza mediata per il loro gesto pre-meditato (E’ colpa mia! Non dei miei genitori, i miei fratelli, i miei amici, le mie band preferite, i videogiochi per computer, i media, é solo colpa mia - libera traduzione) io, dopo quanto accaduto, dopo tutto il materiale liberamente consultabile su YouTube e le dichiarazioni dei familiari delle vittime e le ricostruzioni cinematografiche e i superstiti al massacro della scuola ho avvertito che qualcosa nel mio videogiocare é stato irrimediabilmente compromesso.
Per tale motivo, nonostante l’ammissione di colpa del killer, voglio continuare ad esprimere - fino a quando mi é possibile - che le emozioni regalate dall’universo digitale, per quanto spesso composte da locations di indefinito squallore, non fanno altro che parlarci di possibilità d’esperienza atte a conoscere, auto-interrogarsi e certificare il sé saggiando una libertà d’esistenza virtuale attraverso l’esperienza diretta dell’implicazione psicologica, estraniante quanto formativa, ma pur sempre salvifica nel preservare l'incolumità di chi gioca.

Per me Playstation Generation, allora come oggi, vuole essere sinonimo di un videogiocare consapevole dello stare vivendo il gioco della vita, un gioco attivo ed emozionale per chi sa come giocare all’Esistenza, nell'Esistenza. Esperienze videoludiche che per quanto possano informare di fatti e ambientazioni degradate non riguarderanno mai l’ingiustizia, l'odio e la violenza insite nella vita reale quale ipotetica giustificazione omicida di qualsiasi killer al mondo, violenza dalla quale io, nella maniera più assoluta, in qualità di videogiocatore e non, prendo fortemente le distanze.

5 maggio 2008

La console unica: una questione di accessibilità culturale

Ovvero le "esclusive" videoludiche quale zona grigia del sapere
(di Luigi Marrone)
.
Gli orientamenti del consumatore, punto cruciale fra le tante analisi avanzate dalla Industry del VideoGame, risultano tutt’oggi imbrigliati fra discorsi di casual e hardcore gaming, digital delivery e servizi on line, ma un punto sul quale la questione risulta fortemente tralasciata è l’aspetto socio-culturale del videogioco quale strumento, oltre che di intrattenimento, d’informazione e cultura per l’utente finale.
Un tempo l’accessibilità e la fruizione di un prodotto artistico era rimessa alle possibilità economiche del consumatore: dall’assistere alle opere in teatro alla possibilità di viaggiare per conoscere città ed osservare dipinti e sculture nei musei, la fruizione dell’arte è stata spesso riservata ad una elite aristocratica che tagliava letteralmente fuori buona parte di una utenza potenzialmente consumatrice. E’ pur vero che la possibilità di interessarsi all’arte (prodotta oltre che fruita) era incentivata in modo naturale dall’educazione della sensibilità di chi poteva permettersi adeguati insegnamenti, ma nel tempo questa posizione elitaria e discriminante dell’arte si è livellata di molto, in quanto la possibilità di fruire dell’arte si è conformata (anche in questo caso dal punto di vista della produzione e fruizione) alle più disparate possibilità economiche dell’individuo.
Tornando ai nostri giorni, e pensando ai contenuti digitali audio/video attraverso i quali l’arte viene riprodotta, oggi sul mercato sono presenti, oltre alle nuove tecnologie Blu-Ray o HD-DVD, alcuni lettori DVD molto economici che integrano la compatibilità a svariati formati (Mp3, DivX, Mpeg, ecc) rendendo praticamente leggibile la quasi totalità dei supporti sul mercato. Inoltre non esiste una preferenza di accessibilità, in quanto è possibile visionare film riproducibili praticamente da ogni sistema, a prescindere dalla qualità del lettore audio/video dell'utente.
Mai il consumatore finale immaginerebbe oggi di dover acquistare un determinato tipo di lettore solo per poter visionare una manciata di film o ascoltare alcuni dischi creati appositamente per essere fruiti solo con quel determinato tipo sistema (tagliando fuori tutti gli altri sistemi sul mercato). Sarebbe un po’ come se la Sony avesse l’esclusiva sui prossimi film di Will Smith (girati tecnicamente per esser riprodotti solo per Blu-Ray) costringendo chi non possiede (e non può permettersi) tale lettore a non poter più fruire delle performance dell’attore, ad esempio. Trattandosi di cinematografia, e quindi di arte, si tratterebbe di un discorso piuttosto allarmante che di sicuro mobiliterebbe diversi settori culturali.
Essendo il Videogioco ancora lontano da un riconoscimento culturale istituzionale, tale discorso è a tutt’oggi una questione di pura attualità.
Non è esagerato affermare che NON tutti i consumatori possono annoverare fra i propri sistemi d’intrattenimento videoludico le console attualmente presenti sul mercato. Inoltre, oltre al sacrificio per il prezzo medio di un videogioco, c’è da aggiungere che la piena fruizione al massimo grado artistico di un titolo per i PC d’ultima generazione richiede che questi siano performanti dietro continui aggiornamenti hardware, comportando costi per l’utente finale non sempre immediatamente sostenibili.
Non è fuori luogo ricordare che il consumatore spesso può fruire dell’ultima tecnologia presente sul mercato solo quando questa le diviene economicamente conveniente, e che lo stesso mercato tende a ritardare l’offerta di prodotti innovativi cercando di piazzare il massimo possibile di quanto già prodotto (si pensi ad esempio ai PC con processori dual-core venduti a prezzi ancora elevati quando la produzione dei quad-core era già ben che avviata).
Ciò su cui vale più la pena riflettere, nonché motivo di tale trattazione, non è l’ipotesi di console unica quale unico standard per la riproduzione di videogiochi, quanto invece l’accessibilità dei contenuti artistici, e quindi l’accessibilità alla cultura globalmente intesa, dell’utente che oggi ad esempio non può permettersi di fruire di opere “esclusive” per le varie piattaforme (es. Bioshock, Mass Effect, Metal Gear Solid 4, Resistence, Metroid Prime 3, No More Heroes, ecc…) non possedendo un sistema proprietario in grado di perfomare tali software (in questo caso software intesi come opere artistiche).
Tutto questo interessa il discorso “cultura” più di quanto si possa immaginare.
Mediante l’esperienza Mass Effect ad esempio, action RPG di Bioware in “esclusiva” per Xbox360, il videogiocatore è investito da dinamiche psicologiche di responsabilità e moralità individuali corroborate da funzioni “civilizzatrici” nei confronti di altre specie viventi presenti nella galassia. Solo chi si è potuto permettere (non tutti quindi) di vivere l’esperienza Bioware saprà difficilmente negare che un tale coinvolgimento, vissuto anche ai livelli più superficiali, incentiva alcuni presupposti di tolleranza e accettazione razziale che oggi hanno rilevanza ben più che attuale. Stesso discorso vale per MGS4, “esclusiva” punta di diamante PS3 che porta avanti una serie da sempre incentrata sulle implicazioni morali della guerra, sulla sperimentazione genetica in ambito militare e la trasmissione della conoscenza votata alla formazione dell’individualità. Un videogiocatore che fosse interessato solo e soltanto a queste due esperienze è inevitabilmente costretto ad acquistare hardware per un valore medio pari a quasi 7 volte tali software.
E' poi utile ricordare che trattandosi di conoscenza e informazione non regge affatto la scusante della reperibilità di un sistema e del relativo software “esclusivo” dopo la sua svalutazione economica (prezzo) nel tempo (magari a causa dell’introduzione di una nuova console), poiché la fruizione di un’opera d’arte videoludica anni dopo il momento della sua uscita (cosi come un film o un disco), incrina la sua forza di riflessione sociale/culturale/politica del momento storico attuale nel quale la stessa si presenta sul mercato (senza scomodare lo scemare del ludo-appeal a causa del superamento tecnologico correlato, le discussioni culturali e il fermento dei forum nelle comunità on-line che nel tempo si riducono, ecc… ).
Questo è anche uno dei motivi per cui i videogames esclusivi di un dato sistema, incentrati su conflitti bellici ad esempio, tendono a non vertere su tematiche di attualità che troverebbero consolidamento solo nel breve termine (e solo per coloro che appunto possono permettersi subito l’acquisto del gioco possedendo tale sistema) preferendo insistere invece sui momenti caldi della storia passata, o sulla fantascienza con le sue coordinate spazio-temporali relative, vale a dire elementi facilmente riconoscibili nel tempo poiché depositati nell’immaginario comune (es. Gears Of War per Xbox360 e Resistence: Fall of Man per Playstation3 in quanto entrambi “Umani contro Alieni”).
Oggi quindi la “guerra” dei formati è uno fra i molti motivi perniciosi in grado di nascondere i limiti intrinseci del videogioco culturalmente inteso.
A questi limiti va ad aggiungersi l'impossibilità per i giocatori di incontrarsi on-line, condividendo l’esperienza di gioco e il social networking possibile grazie ai servizi XboxLive di Microsoft e PSN di Sony. Pur condividendo lo stesso concetto di Rete e di comunicazione globale, le 2 comunità de facto (e si parla di milioni di utenti), pur giocando al medesimo videogioco non entrano mai in contatto fra loro, per il semplice fatto che il medesimo software gira su piattaforme differenti.
Oltre all’esclusiva dell’offerta software su macchine proprietarie esiste quindi una "esclusiva" della fruibilità dello spazio Web, che rema contro il principio di accessibilità e di comunicazione globale ipotizzata alla nascita di Internet (e dall’idealismo della cultura Web), esplicitando in tal modo uno spazio virtuale che risulta privatizzato quanto una proprietà terrena di tipo fisico nonché (cosa più grave) caratterizzato da un’assoluta incomunicabilità fra le parti.
Da questo punto di vista risulterebbe di gran lunga più opportuno e lungimirante se i videogiochi delle attuali piattaforme (e quelle passate e quelle future che verranno), non spingessero i videogiocatori-opinionisti solamente a parlare di console war fra le piattaforme che hanno i titoli "esclusivi" più interessanti (inneggiando l’una o l’altra console posseduta), bensì inducessero a riflettere su quanto tali “esclusive” rappresentino la zona grigia dell’industria dal punto di vista dell’accessibilità alla cultura, trattandosi di una guerra “esclusiva” solo per i colossi dell’industria proprietari di un sistema, ma persa in partenza dall’utente finale che non può permettersi, e quindi non può accedere (neanche a poco) a quel che magari potrebbe trovare interessante.

In ultima analisi, é sicuramente difficile immaginare la fattibilità di un accordo multilaterale che sradichi dalle posizioni economicamente imperialiste e storicamente acquisite gli attuali colossi produttori di hardware e software quali Nintendo, Microsoft e Sony. Adottare uno standard comune in modo da creare software che possa essere letto da qualsiasi sistema, più o meno economico, che voglia presentarsi sul mercato (la console unica quale sistema di riproduzione standard, come i vari lettori DVD ad esempio), è qualcosa ben lontano dal realizzarsi. L’opinione degli analisti in merito, videogiocatori o meno che siano, è infatti divisa su diversi fronti analitici, tutti ugualmente interessanti.
Uno di questi vede positivamente l’attuale concorrenza hardware, concorrenza quale sinonimo di forza compulsiva in grado di spingere le software house a valorizzare le proprie risorse, incentivando i balzi tecnologici e la qualità dell’offerta sofware. Secondo tale orientamento un unico standard di riproduzione videoludico rischierebbe di frenare il progresso tecnologico, allungando i cicli vitali fra uno standard e quello successivo a causa dei produttori che tenderebbero a sfruttare al massimo le piattaforme installate (cosi come avviene per l’home video).
A questo va ad aggiungersi il discorso sulla qualità media dell’offerta che tenderebbe ad assottigliarsi grazie ai grandi publisher che, in assenza di adattamenti per più piattaforme, tenderebbero a ridurre al minimo le spese di sviluppo dando vita a titoli che ricalcano, aggiornandole del minimo, le precedenti offerte (scalzando inoltre via le piccole software house con tutte le iniziali problematiche connesse al marketing, ad esempio).

Nonostante la validità o meno di tali ipotetici scenari possibili, l’importante è continuare a tenere in mente che il VideoGioco, nel momento attuale, non è un medium facilmente accessibile da tutti gli appassionati quanto cinema e musica, in quanto i vari sistemi che ne permettono la fruzione "esclusiva" detengono un potere discriminante in grado di limitarne la portata culturale, piuttosto che potenziarla.
Da questo punto di vista lo sforzo congiunto per una piattaforma unica non dovrebbe essere visto quale possibilità di accedere ad un sistema unico, potente e dalle possibilità illimitate, quanto invece per la possibilità, inestimabile da un punto di vista della conoscenza, di incentivare l’accessibilità culturale a tutte le esperienze video interattive, rendendo sicuramente in tal modo più varia e senza dubbio aderente al momento storico attuale buona parte della produzione videoludica, senza timore di lasciare indietro nessuno.
Per farla breve quindi NO, non dovrebbe essere necessario acquistare tutto e subito, riferendosi alle piattaforme presenti oggi sul mercato, ma sarebbe invece indispensabile che il Videogioco - l’esperienza videoludica tout court - divenga quindi come il cinema, l’home video, la musica e Internet: un qualcosa che non appena faccia la sua comparsa sul mercato sia accessibile a tutti e per tutti, risvegliando l'interesse grazie al valore dei propri contenuti senza dover assolutamente crucciare l'utente sulla macchina in grado di performarli.
Perché l'esclusività, per sua stessa definizione, può escludere anche dal Sapere, e comunque la si voglia mettere questo sarà sempre un male.

1 aprile 2008

La "disumanità" di Ubisoft dentro Assassin's Creed

Un'analisi al cuore dell'Assassino (scomodando Metal Gear)
(di Luigi Marrone)


Sin dall’inizio non era facile andarvi cauti con l'entusiasmo, cosi come difficile risultava non essere troppo severi col proprio scetticismo. Assassin’s Creed, sin dalle prime presentazioni, lasciava infatti presagire molto, o molto poco di vario: free-roaming pedestre o equino in Terra Santa, la raccolta di indizi e le sub-missioncine cadenzate da contesutali scontri all’arma bianca, oltre ovviamente agli interrogatori, le mimetizzazioni fra monaci e gli assassini furtivi.
Ma ciò che non dispensa affatto l’opera da una considerazione posticcia è l’inguaribile indolenza che é stata in grado di sollevare in seno alla comunità dei gamers, poiché é sempre il buon giocatore che alla fine conta, e nell’evidenza della noia che caratterizza buona parte del gioco significa che qualcosa nei meccanismi del concept è andato storto.

Difatti Assassin’s Creed tratta di un’esperienza caratterizzata da spazi pullulanti, vivi e ricchi di dettagli maniacali implementati in una Intelligenza Artificiale dei NPC a tal punto rigida da suscitare impressioni più che contrastanti: il risultato è stato quello di veder spalmato su video un costrutto digitale dalla parvenza di bellezza perfetta in grado poi di esplodere in una parossistica incoerenza, quasi una debolezza congenita.


Primo: Una regola di game design
In un videogioco l'Intelligenza Artificiale ha il dovere di coinvolgere e rapire tanto quanto l'estetica (se non oltre). Se nella TV fatta di veline non sempre ciò corrisponde, nel digitale ludo-interattivo ciò VA FATTO poiché la bellezza digitale senza intelligenza produce noia a lungo contemplarla. Trattandosi infatti di costrutto digitale, fittizio, l’esuberanza e l’estetica degli spazi di Assassin’s avevano bisogno di tutt’altro trattamento ludo-intellettuale.
Se è difatti possibile affermare che Space Invaders e il suo gameplay possono tranquillamente rimanere nel tempo bidimensonalizzati su schermo senza che gli alieni siano bagnati da sorgenti di luce dinamica, Assassin's Creed è l’esempio esattamente opposto: avrebbe necessitato di una IA implementata in più ricche e varie possibilità di gioco proprio a causa della sua splendida, calda luce profusa nei suoi ambienti mondani.
E’ con l’impressione di un delitto artistico quindi che si pensa all’esperienza Ubisoft, poiché, accertato che la varietà e le possibilità di gameplay dovrebbero viaggiare di pari passo con le possibilità tecnologiche, Assassin’s aveva il DOVERE di osare di più.
Non è azzardato quindi affermare (da un punto di vista della profondità strategica e del coinvolgimento ludico, lasciando la sua storia a parte) quanto siano di gran lunga preferibili i pattern, le reazioni, le possibilità e la curiosità suscitate nel giocatore dagli algoritmi dietro le guardie di uno Snake Eater ad esempio (Metal Gear quale giocattolo aperto, sand-box in spazi più ristretti rispetto ad Assassin’s) piuttosto che la fauna che popola gli spazi in Terra Santa.



Secondo: I doveri di una Big-Production
E’ innegabile quanto Assassin’s sia stato ideato, sviluppato e testato prevalentemente su e per XBox360: dalla stabilità del codice alla resa finale su schermo, la versione Xbox360 presenta infatti cromatismi più vividi e caldi rispetto alla controparte Sony, elemento affatto trascurabile poiché, da un punto di vista squisitamente artistico, l’appeal estetico risulta per Assassin’s fondante quanto se non più del resto. Andando oltre il discorso delle patch correttive rilasciate da Ubisoft, è invece doveroso affermare che se all'uscita un videogioco d'alto profilo risulta difettoso in modo congenito rispetto al medesimo per un'altra piattaforma (data anche la promozione ultrablasonata), ciò non fa altro che denotare una sibillina mancanza di attenzione verso chi acquista al Day-One (volendo vivere l’esperienza artistica subito, integralmente e pagando inoltre il medesimo prezzo della controparte).
Il difetto di produzione su PS3 (per fortuna non irreversibile trattandosi di dati digitali) aggiunge comunque al resto un altro fattore negativo, dal peso non trascurabile, data l’integrità originaria di cui un prodotto dovrebbe essere fornito (seppur, riguardo il videogioco, sotto gli antipatici termini di “servizio” di intrattenimento digitale) quando il medesimo si offre al mercato.
Altra considerazione merita poi la "feature” bandierine da collezionare, spinta motivazionale affatto trascurabile per i possessori Microsoft alla ricerca di GamerPoints ma abbastanza accessoria per non dire inutile su Sony (senza achievement Assassin's é ancora più indolente su Play3, e avendo Assassin’s un debito profondo nel motivare il giocatore è tutto dire).
Ciò comporta un’ulteriore analisi a proposito delle produzioni multipiattaforma. Nel momento in cui una Software House adatta il proprio prodotto secondo le caratteristiche precipue dei vari sistemi, ciò dovrebbe implicare non solo una diversificazione della configurazione dell’interfaccia di controllo secondo la piattaforma (i tasti del Pad del 360 su PS3 o il Wii-mote ad esempio) ma soprattutto una nuova ideazione o ripensamento di alcuni elementi di gameplay secondo le caratteristiche endogene alle piattaforme stesse.
Le bandierine da collezionare in Assassin’s Creed su Xbox360 sono difatti un esempio di possibilità di gameplay (ricognizione fra tetti e suolo che, è doveroso specificare, non sbloccano nuovi costumi/musiche/ArtWork ma ripagano sbloccando punti per il proprio GamerScore) per le quali Ubisoft ha strutturalmente “ideato” il gioco stesso su X360, senza pensare al relativo disinteresse della controparte Sony.
Si tratta di un orientamento produttivo che, nel caso di titoli multipiattaforma andrebbe abbastanza ripensato.

Terzo: La questione narrativa - Pensando Ubisoft

Di questa sempre più importante software house l’impressione che spesso se ne ricava è la consolidata tenacia nel voler implementare narrazioni mature e consapevoli senza mai voler modificare di una virgola il granitismo di un game-design istituzionale, rigido quanto immutabile. Pensando ai giochi Ubisoft non è difficile pensare a sceneggiature di buoni narratori incastrate in spazi prestabiliti tra il gameplay e i vari snodi narrativi presenti nel gioco. Il risultato è un comparto visuale che ha uno standard qualitativo molto alto (sia ambienti che personaggi) ma quasi sempre non supportato da una autorialità forte, da una caratterizzazione empatica potente che sembri dotata di una sua vita, di una sua Intelligenza (artificiale appunto) che lasci un segno emotivo nel tempo e nel cuore del giocatore.
Potrebbe essere questo uno dei principali motivi per i quali Assassin’s Creed diverrebbe facilmente uno di quei blockbuster subito ri-piazzati sul mercato o riportati indietro per la valutazione e la promozione sul nuovo: nonostante le sue atmosfere, i suoi ambienti e lo splendido personaggio d’Altair, a fine avventura resta poco fra le mani che abbia la forza di mantenere il gamer stretto a sé, avendo creato appunto con lui uno scarso legame “affettivo”.

E’ per questo che viene da chiedersi come si possa continuare ancora a ripetere (o come si é mai potuto affermare in principio) che Splinter Cell sia la risposta Occidentale a Metal Gear Solid: la narrazione e il peso che essa assume fra le rispettive opere è idealmente, emotivamente, artisticamente e costituzionalmente imparagonabile.
Una grande produzione può avvalersi quanto vuole di scrittori o sceneggiatori di fama, ma nei videogiochi, per quelle storie che sulla carta risultano vincenti, deve essere soprattutto l’integrazione fra gameplay e personaggi che lo sorreggono (giocabili e non) ad essere solida, plausibile, emotiva e portatrice di quel sentimento umano digitalmente derivato. Se le produzioni Ubisoft spesso risultano prive di questa capacità di creare un’affezione nel giocatore, il problema potrebbe annidarsi proprio qui.



Epilogo
Spersi nella folla di Damasco, Acri o Gerusalemme non è affatto difficile sentirsi soli, uniche vive entità nel mezzo di simulacri vuoti e indefiniti. A ben pensarci è peggio di quanto possa mai accadere nella Real Life, poiché nel Videogioco, nel mondo fittizio che dovrebbe offrire varietà di possibilità e di senso, l’indolenza del Vuoto è cosa ancor più intollerabile. Pur non volendo negare l’operatività di trama e atmosfera nell’economia dell’opera, la veridicità alla quale tendono esalta ancor di più la mente automatica e robotica dietro Assassin’s Creed, sfiancando immedesimazione e coinvolgimento e creando un senso non di rado parossistico. Scomodando ancora l’opera Konami, allo stato attuale, pur nella sua totale, ossessiva e orientale spiccata malizia fatta di riviste di pin-up ammiccanti, scatoloni in cui nascondersi e altre gag del quale é infarcito (in risposta ad ogni Rambo/cliché battagliero occidentale), sgozzare un soldato di un Metal Gear risulta comunque più consistente di un qualsiasi assalto con lama verso una guardia inerme dell’Assassin’s.
L’assenza di una più intima, umana sensibilità fra i suoi elementi, di un equilibrio artistico più compensato fra le sue parti ha contribuito a creare in Assassin’s quel Vuoto timorosamente preconizzato. Non è difficile immaginarsi come le molte professionalità al lavoro (lungamente elencate nei prosaici titoli di coda dell’Ending del gioco) abbiano svolto per bene i loro compiti produttivi: dai Senior Producer agli Engineering Director, gli Audio Lead, gli Assistenti produttori, i Coordinatori, i Technical Supporters, i Marketing Director… Assassin’s Creed ha venduto parecchio raggiungendo quasi subito il target quantitativo di vendite prefissato.
A giochi fatti però è un cuore caldo che dentro Assassin's manca, un cuore pulsante che fatica di molto a venire alla luce. Quella santa luce dove il particolare che emerge in un rosone intagliato nella pietra splende assieme al generale di una vista panoramica su di un promontorio di Gerusalemme: una luce santa inghiottita da ombre troppo profonde per non lasciar inespresso quello strano, profondo vuoto interiore da colmare.

Per questo, tu che molto puoi, solo una cosa oggi ti viene chiesta: ci metterai più cuore la prossima volta, Ubisoft-Altair?

10 febbraio 2008

Voci dei gamers: No More Heroes "tagliato" in Europa

Delusione e sdegno dall'europeo Cyberspazio (e non).
Questo il mio atto di denuncia.
(di Luigi Marrone)

Voci dall'Europa. Voci di giocatori delusi. Voci di giocatori adulti.
Voci di chi aspettava in trepida attesa, Wii-mote alla mano, di poter entrare senza veti di sorta nel mondo gore stylish di No More Heroes.
Ma questa volta non é censura. Si é trattato semplicemente di una scelta di Rising Star Games, distributore di No More Heroes in Europa. Il gioco dell'istrionico Goichi Suda, già burattinaio dell'insano Killer7, uscirà fra pochi giorni qui in Italia, ma si presenterà col vestito pulito, senza sangue e con elementi gore/splatter rimossi. Al posto del copioso liquido rosso vi saranno sbuffi polverinici nero seppia e monetine sonanti alla Sonic. Fra i tagli la totale sparizione di arti spezzettati dalla spada del Travis protagonista, niente decapitazioni e chi più ne ha...
Insomma, un vero peccato. Il senso di disdetta é grande, poiché la line-up Wii si sarebbe arricchita di una esclusiva ibrida e prestigiosa, irriverente ma autoriale quanto un prodotto myamotiano, no Playstation, no Xbox, only for Nintendo Wii.
Fra smentite e cambi di fronte, le dichiarazioni del Suda51 sono risultate (opportunisticamente) contrastanti. Dal principio doveva essere la versione Europe e Japan quella "originale", secondo la sua visione iniziale, mentre quell'americana fungeva da "mero" contentino per gli americani a caccia di violenza digitale.
Puttanate, ovviamente. Lo stesso Suda, durante le fasi di sviluppo di No More Heroes aveva espressamente dichiarato di stare producendo un gioco più violento di Manhunt, più splatter di Kill Bill e più disturbante del fu Killer7.
Durante l'uscita americana di No More Heroes il Suda51 si é invece presentato alla prima di lancio affermando che la sua versione Integral era ovviamente quella America, non Japan or Europe.
Qui di seguito alcune voci cyberspaziali, fra le oltre cinquemila firme, che provengono dalle liste per la petizione contro l'assenza di sangue in No More Heroes. Alcune sono calde, appassionate, illuminanti fra l'ideologico e lo sconforto ludico, altre sono frammentate, timide, di chi spinto dalla delusione nel sentire violato il proprio ardore videoludico ha deciso di parlare.
L'importante é che si tratta di voci dalle masse, di chi i videogiochi, col sangue o meno, li ama e li vive.
Senza mai pensare di dovergli spezzare le ali.
La petizione é ormai chiusa, con la Rising Star Games che ha (ovviamente) ignorato il totale dissenso.
Si, No More Heroes in Europa risulterà completamente dissanguato.

La traduzione liberissima é la mia.
La Vox Populi invece é tutta nostra.


"Un gioco gore che si rifà alle pellicole di serie B ma che non presenta sangue... non é un gioco gore... andasse a cagare No More Heros, che possa perdere un sacco di acquirenti..."

"Che stupida decisione. Avrebbe venduto molto di più con la presenza di sangue. Gli acquirenti europei non dimenticheranno tale decisione"

"Gli effetti sono cosi irreali che non aveva senso censurarli. Dagli ultimi screenshots il gioco aveva assunto una forte personalità manga, ora invece col fumo nero e le monete potrebbe essere assimilato a qualsiasi altro gioco. Sonic, ad esempio..."

"Anche un gioco é arte, e nessuno può giudicare come l'arte dev'essere fatta"

"Trovo un insulto il fatto che stiate rilasciando un gioco in queste condizioni quando gli americani avranno la versione completa. Credete che la popolazione europea non é abbastanza matura per questo tipo di gioco?!"

"Siamo adulti, non trattateci come se non sapessimo pensare da soli! - Esistono già un mucchio di giochi Wii per gente che non vuole vedere violenza! Per favore lasciate che i giochi siano distribuiti cosi come i creatore li hanno pensati, invece di censurare qualcosa a cui voi non avete contribuito a creare sin dall'inizio!"

"Cosa? Voi pensate che semplicemente togliendo il sangue da No More Heroes lo trasformerà in un gioco per bambini? Lo priverete solo del pubblico per il quale il gioco é destinato, un pubblico maturo che tollera perfettamente questo tipo di effetti gore (abbastanza divertente visto il tono del gioco), cosi come saprebbe apprezzare tutti gli altri elementi di gioco non censurati"

"Vogliamo il gioco originale, salviamo gli ideali!"

"Perché non mettere una opzione SI/NO per il sangue? Era la cosa più semplice!"

"Non riducete la visione dell'autore, per paura o correttezza politica"

"Ma Perché é sempre l'Europa a dover scontare simili cose?"

"Codardi! Non voglio contribuire al mercato di una compagnia che attua l'auto censura senza motivo! Niente soldi per voi! Suda, mi spiace"

"Parental Locks erano presenti nei giochi molto tempo fa. Cos'é accaduto? Se un gioco dev'essere censurato (e non riesco a pensare ad un singolo caso nel quale un gioco sia stato censurato di tutta la sua violenza), basta aggiungere una opzione al gioco che disabiliti la modalità senza sangue! Tutti sarebbero felici e la società non farebbe passi indietro verso quei giorni in cui esisteva la mancanza di libertà d'espressione. Non sto dicendo che la violenza produce giochi migliori, ma che gli sviluppatori la includono per una ragione. E tale ragione dovrebbe essere una scelta che solo gli sviluppatori dovrebbero prendere."

"Se il gioco non presenterà sangue come i primi video mostrati, non lo acquisterò. Quando le terze parti noteranno le scarse vendite di questo gioco, Rising Star sparirà poiché nessun'altra compagnia crederà in loro per distribuire giochi. E' patetico, dovrò acquistare la versione americana. Davvero, se si fosse trattato di piccole cose... ma tutto il gioco é censurato, i nemici esplodono in pixels, patetico. Non fraintendetemi, non sono un amante del sangue, ma odio quando in Europa non giungono versioni originali dei giochi, come Budokai Tenkaichi 2 che gira a 50Hz e Mario Party for Wii, ad esempio. Se Rising Star Games vuole un futuro, deve ripensare questa censura in Europa..."

"Dovremmo avere il diritto di scegliere come giocare un gioco che abbiamo pagato tanto quanto gli altri paesi. Invece pago lo stesso prezzo per contenuti che da noi non sono presenti. Una cosa vergognosa".

"Sono lieto per la censura di No More Heroes! Altrimenti uscirei di testa e potrei tagliare persone in 2 con la mia katana laser vinta ultimamente on line! Grazie!"

"Al tempo Capcom non ebbe problemi a rilasciare Kiler7 così com'é. Voi invece siete cosi orgogliosi di avere un gioco Suda che l'avete menzionato in qualsiasi conferenza stampa. Ma non avete scrupolo a pubblicare il gioco cosi com'é. Rising Star Games, voi siete una disgrazia. Rilasciate NMH nella versione integrale o noi videogiocatori faremo in modo che non ci sarà più nessuna stella per voi..."

"Non state censurando la violenza, state censurano l'Arte. Una delle peggiori cose che si possano fare".

"Incrementerà la convinzione che l'Europa sia la seconda scelta del mercato..."

"Non sono un ragazzo! Non insultatemi!"

"Perché pubblicare un gioco se non avete il coraggio di rilasciarlo integrale?"

"Anche se la violenza non é una delle cose che preferisco nei videogames, preferirei che voi non alteraste lo spirito di "No More Heroes", cosi come é stato inizialmente concepito dagli sviluppatori. Per favore, lasciate che vi sia il sangue. E' una forma di rispetto verso i giocatori che lo aspettano da tanto e verso i team che vi hanno lavorato"

"E' ovvio il motivo per cui Rising Star ha tagliato il gioco. 1 - Non vogliono pagare la tassa per avere un gioco con la certificazione d'età. 2 - Sperano di vendere più copie ai ragazzini. Idioti, tutti loro"

"E' una stupida misura! I film violenti fanno molta più presa sui giovani che non i videogiochi! Ve lo dice un assistente di Psicologia! Leggetevi Leyens, Camino, Park e Berkowitz (1975). Ma dubito che questa petizione cambierà qualcosa".

"In un solo giorno 4000 firme? Dimostra quanto ci teniamo, no?"

"Vi prego, non discriminate l'Europa"

"No More Interest"

"Abbiamo il sangue in Resident Evil 4 per Wii! E' un gioco per adulti! Vogliamo NMH col sangue! Per giocatori adulti!"

"Penso che siamo arrivati alla frutta con questa censura. Penso che finalmente noi videogiocatori europei dovremmo giocare i videogiochi cosi come sono stati creati! Vi prego, non deludetemi Rising Star!"

"Dopo aver visto le versioni censurate e non del gioco, devo dire che quella originale é di gran lunga migliore. Più viscerale. E vedere gente tagliata in 2 é sorprendentemente ironico e divertente! Ho più di 18 anni e sono vecchio abbastanza per essere libero di scegliere ciò a cui più desidero giocare. Io voglio giocare la versione senza censure del mio Wii PAL. Rising Star Games, vi prego, prendete in considerazione la versione integrale prima del verdetto della BBFC! Se non passerà l'esame avrete la versione alternativa già pronta, che sarà indubbiamente presa più in considerazione, ma vi prego, date all'originale una possibilità!"

"@publishers: vi rendete conto che voi inducete i giocatori "legali" fra le braccia dei pirati e del modchipping? Chi acquisterebbe una versione edulcorata? Rifletteteci, sono dei vostri soldi che si parla, che andranno nelle tasche dei produttori di chip moddati. E' una vostra scelta"

"Proteggere i bambini contro i contenuti adulti dvrebbe essere una responsabilità di GENITORI e RIVENDITORI, non di chi opera la censura. Anche noi adulti giochiamo ai videogiochi."

"E' un atto totalitarista! Quale parte integrale dell'opera, nessuno ha mai pensato di togliere la violenza dal Guernica di Picasso!"

"I videogiochi sono molto più costosi in Europa che in America e noi dovremmo giocare una versione edulcorata? Andate a..."

"La scelta agli acquirenti, non alle corporazioni!"

"Il gore stylish dei manga é parte del design artistico di questo gioco. Se lo censurate organizzeremo un boicottaggio massivo per questo prodotto. Non vogliamo comprare prodotti d'arte incompleti. Non dite che non vi abbiamo avvertiti. Senza gore perderete milioni di vendite. Grazie. "

"Abbiamo i controlli parentali per la censura, non c'é bisogno che voi la facciate per noi"

"Mostrateci che Rising Star Games crede nei diritti degli adulti e nei giochi quale forma d'arte, non mostrate la vostra paura iniziando a censurare videogiochi!"

"La maggior parte della gente vuole questo gioco come ideato da Suda-san. Il sistema di rating e il supporto delle terze parti é uno scherzo, NON é un problema Nintendo, NON é un passo falso di Suda51, io DO LA COLPA A COLORO CHE SOTTOSTIMANO IL SENSO CREATIVO DEGLI AUTORI (...). Vorrei tanto che le vostre scelte abbiano qualche senso, ma ho sognato una Beam Katana piombare sulla vostra ignoranza e sul vostro moralismo..."

"Cara Rising Star, spero davvero che decidiade di non rilasciare una versione sottotono e artisticamente povera per cui altri hanno lavorato. Sarebbe un modo ignorante e irrispettoso di trattare i videogiocatori..."

"La censura, in qualità di essere umano adulto, é qualcosa per me discriminante. Sono maturo, libero e insisto nell'affermare che sta a me decidere se giocare giochi violenti o meno. Non dovrei essere punito a causa di genitori e rivenditori che non seguono la raccomandazione d'età sui VG. La censura é una violazione dell'arte di un artista. Mostrare sangue non é un crimine, e la libertà di parola e di pensiero sono fondamentali per la democrazia e la libertà in sé. I giochi sono finzione, la censura invece é reale, e crea molto più malcontento di un gioco violento."

"Anche gli adulti giocano con i sistemi Nintendo!"

"Esiste una ragione per cui ci sono gli indici d'età per i videogiochi. NMH é chiaramente per 17 o 18+. Vi é anche il controllo parentale in tutte le console di nuova generazione. E abbiamo anche l'opzione per settare il livello di violenza, nei videogiochi. Queste misure esistono per prevenire che i ragazzini comprino determinati giochi. Se qualcuno di loro fa esperienza di un certo tipo di gioco, é responsabilità dei genitori/rivenditori/acquirenti, non dei game designer. Censurando il gioco, la BBFC (dovrebbe cambiare nome da quando tratta anche i videogiochi) distorce completamente la visione dei creatori e dei team di lavoro. Si tratta di qualcosa anti-democratico e anti-sociale. Specialmente per il fatto che sangue e violenza sono presenti ovunque, nella vita reale, nei film, nei documentari, nelle cronache... E' davvero triste nell'era in cui viviamo assistere all'arte che viene censurata..."

"Grazie tante, Rising Star senza palle! Avevo intenzione di comprare un Wii per questo gioco. Lo prenderò d'importazione, e darò i miei soldi a Ubisoft. Se NMH sarà tagliato, non vedrete un centesimo da me..."

"Nell'era odierna trovo incredibilmente ipocrita che mentre i videogames trascendono nella cultura popolare mainstream e vengono analizzati quali medium artistici, essi sono al contempo censurati assumendo forme lontane da feeling originario dei creatori. Esistono giocatori maturi desidrosi di giocare NMH come originariamente concepito..."

"Non sono un assetato di sangue, ma nei giochi di Suda51 il sangue é una presenza stilistica. Nei suoi giochi il sangue concretizza lo stile visuale come le texture fanno per qualsiasi altro gioco. Senza, sarà incompleto. E inoltre, il sangue mostrato é esageratamente caricaturale, e perde qualsiasi corrispondenza con la realtà"

"Che razza di mondo é questo dove le creazioni culturali vengono censurate? La storia ha più volte dimostrato che la censura non é la soluzione! Insegnare alla gente a pensare rettamente farà in modo che del sangue virtuale non ferisca nessuno"

"Volete che questa industria cresca? Prendetevi i vostri rischi allora! Certo che é vergognoso che qualcuno come Suda51 abbia optato per un publisher cosi conservatore!"

"Vi prego, non cominciate a fare dell'assenza di sangue una censura regolare, non vi é alcuna ragione (a parte i genitori spaventati dalla roba che i figli guardano ogni giorno in tv)"

"In qualità di venditore, anche se non é espressamente indicato, sarò il primo a far sapere agli acquirenti che si tratta di un prodotto censurato..."

"SONO ADULTO! VOGLIO UN PO' DI MARIO E UN PO' DI GRAND THEFT AUTO! BASTA CON LA CENSURA!"

"Perché é ok visionare film sul grande schermo come SAW e HOSTEL, venduti nei supermarket e che giungono in Europa senza censura, mentre titoli di nicchia come questo devono essere pesantmente censurati? Conosco le raccomandazioni BBFC e PEGI per prevenire la visione di certi contenuti ai ragazzi al di sotto di una certa età, ma sapete, alcuni di noi non sono più ragazzi, e credo che siamo tutti abbastanza dotati di senso comune per sapere che l'uccisione casuale o la guida spericolata sono fra le cose più stupide da fare nella vita reale. Vi prego, cercate di capire che le atrocità come quella ad Erfurt e alla Columbia High School accadono poiché vi sono retroscena sbagliati, a livello sociale e mentale, nella vita di qualcuno. E non perché si fruiscono certi tipi di media".

"Se censurano questo videogioco, vuol dire che il mercato nuota davvero in cattive acque..."

"Voi fate abuso di potere! Se avete la classificazione +18 non potete forzare gli sviluppatori a censurare il gioco! Non siamo più al 16° secolo!"

"Scusate, ma non era Nintendo che affermava di voler sdoganare l'antica concezione di videogioco per bambini ampliando l'utenza? Cos'é accaduto a coloro che sono cresciuti? Dubito che molti ragazzi sotto i 18 anni siano attualmente interessati a questo gioco... e i ragazzi non sono certo il target demografico di NMH..."

"Sono un videogiocatore americano, ma credo che differenti versioni del gioco per stati differenti sia semplicemente ridicolo. Se la rimozione del sangue dal gioco era per soddisfare un principio di marketing (i giocatori europei acquisteranno maggiormente il videogioco se c'é più sangue) allora sarebbe tollerabile. Ma censurare un gioco per evitare controversie e casini col rating é senza senso..."

"La censura é una questione soggettiva. In questo caso una corporazione ha deciso per tutti noi, ma mai l'interesse pubblico dovrebbe risultare schiacciato quello privato..."

"Parecchia gente che acquista giochi oggi é adulta ed é cresciuta con i videogiochi sin da bambino. Credo che abbiano tutto il diritto di decidere se acquistare o meno un gioco contenente del sangue digitale. Se sei genitore, e non vuoi che tuo figlio giochi con certi contenuti, assumitene la responsabilità. Ovviamente i venditori dovrebbero sempre verificare se l'età dell'acquirente é legittima per un determinato contenuto. E' la stessa cosa per l'alcool e le sigarette, presumo. Spero che gli adulti possano continuare a giocare come pensato dai creatori di videogiochi, senza interferenze autoritarie che attuano controlli arbitrari decidendo cosa é tollerabile e cosa non ".

"E' paura quella che sento? Andiamo, Rising Star, sei stata creata per far godere di giochi popolari giapponesi, come avete notificato nel 2005. E adesso? Fateci godere delle idee di Suda!"

"Trauma Center per Wii mostra il sangue ma non é stato censurato!"

"In un gioco completamente astratto e senza alcun contatto con la realtà come No More Heroes discutere sulla presenza di sangue è fuori da ogni logica"

"Anche senza sangue NMH é un gioco violento e maturo. Rimuovendo il sangue non cambia nulla... perché dunque?"

"Per decadi siamo stati considerati abbastanza adulti per il sangue e la violenza nei videogiochi, come per gli altri media d'intrattenimento. Ora invece, in un mondo di "violenza legale" (intendo le guerre) siamo trattati come bambini. E' sempre triste quando la gente del settore, che non dovrebbe cedere all'isteria, decide di rinunciare".

To be continued?