6 dicembre 2007

Mass Effect: l’emozione di interagire in narrazione e significato

Quando la storia entra in "gioco"
(di Luigi Marrone)
E’ profondamente esaltante tirare fuori l’arma in Mass Effect.
Udire poi il suono pressurizzato dei servo-motori delle tute dei compagni, leggermente defilati dietro noi, lo é altrettanto.
Si tratta di un semplice gesto, di una semplicissima interazione presente in centinaia di altri giochi, vale a dire premere X e osservare su schermo il proprio alter-ego armarsi, pronto all'azione.
In Mass Effect però é diverso: si tratta di un'azione carica di significato.
La tangibile sensazione di trovarsi in un pianeta estraniato, soli e in avanscoperta con l’arma puntata verso un angolo di una parete, oltre una roccia - ordinando ai propri compagni di mettersi a riparo dietro quella porta – il “bip” di ricezione del comando nei loro caschi - mentre il fervore di un ambient sound digitale punta dritto alle emozioni – in Mass Effect è semplicemente qualcosa di impagabile.
Dai riflessi tralucenti sulle tute spaziali alle sinuose/rarefatte ambientazioni sci-fi Mass Effect è un gigantesco omaggio alla Space Opera, ai nerd della fantascienza e agli invasati di science fiction quale il sottoscritto, per la precisione.
E’ stato appurato che qualche altro mese di sviluppo avrebbe fatto senz’altro benissimo a Mass Effect: non è difatti mistero che l’IA dei compagni di squadra sia molto più che molliccia, talvolta imbarazzante visto l’insigne portato serioso dell’opera. E’ davvero fuori luogo sentir dire “Ci vorrebbe un trasporto aereo!” quando si è ordinato loro solamente di seguirci sulle scale, oppure assistere ad un incomprensibile, testardo sparare nel bel mezzo di un muro solo perché il nemico è in linea di tiro oltre il muro stesso.
Senza contare l’aggiornamento delle texture che avviene anche svariati secondi dopo l’avvio di una cut-scene, nonché i vistosi cali di frame rate sintomo di una CPU mal governata e in piena crisi di calcolo.
Ma resta il fatto che é profondamente esaltante tirare fuori l’arma in Mass Effect.
Perché dopo che l’universo ha preso forma attraverso un design degli ambienti stupefacente, dopo che le espressioni facciali e la musica e i sound effects ti hanno spintonato a velocità iper-luce dentro un universo narrativo solido, vivo e palpitante, a quel punto la storia che muove Mass Effect non può più essere considerata una mera funzione del gameplay, ma entra di diritto nel gameplay stesso, caricando l’interazione di un profondo significato.
E’ per questo che non è difficile immedesimarsi o impegnarsi più di tanto per sentirsi complici con l’esperienza Bioware, in quanto Mass Effect regala l’emozione d’interagire in un contesto narrativo in grado di avere peso, di significare.
Cosi come Bioware è riuscita ad abituare i gamers negli anni, la coerenza ludo-narrativa del gioco è cosa profondamente spiazzante.
Nella corsa al fotorealismo grafico e alle comparazioni di potenza video degli attuali sistemi di intrattenimento, l’in più di Mass Effect è sorprendentemente la cosmesi cinematografica della quale ogni singolo dettaglio è caratterizzato.
Perché é normale, anzi logico e dovuto che un testo videoludico profondamente narrativo non possa far altro che evolversi in un comparto audiovisivo fortemente esplicativo.
Solo che Mass Effect lo fa, e con risultati migliori di quanto visto sin’ora, riuscendo ad offrire l’Universo con tutto il suo carico di inquietudine e suggestioni, di solitudine e abbandono, di ignoto e tecnologia che solo una grande Space Opera cinematografica o un grande romanzo sci-fi potrebbero permettersi.
Ed ecco la plausibilità di Mass Effect: situazioni etiche, etniche e sociali di un futuro fantascientifico, colonizzazioni, integrazione etniche ed etiche religiose, politiche governative, spionaggio industriale e immancabili discussione a proposito di IA, di organismi “Sintetici” e Intelligenze Virtuali. Si tratta di universo incredibilmente credibile, capace di emanare una presenza ed una autorità videoludica che totalmente esplodono in un puro spirito fantascientifico come non se ne vedeva da tempo, dall’impagabile coinvolgimento sensoriale. Un’esperienza con una forte ed elegante personalità, nonché di un viaggio molto letterario nel quale i tratti contraddistintivi del genere Sci-fi emergono talmente forte che l’esperienza che ne risulta é in linea con un certo modo di intellettualizzare le realtà del gioco, oltre che di viverla giocando.
Un appannaggio di pochissime opere video ludiche nelle quali agenza e narrazione generano quell’alto valore che potrebbe condurre i “videogiochi” all’arte del futuro.
Nel tanto parlare di riconoscimento culturale dell'arte Video Interattiva, si tratta di qualcosa non da poco, oggi.

17 novembre 2007

Metroid Universe: psicosi cosmiche in medium Aran.

True Gamers are Metroid Addicted.
(di Luigi Marrone)

Dovrebbe essere un mondo fatto di connessioni questo, di super connessioni all-linked - Web 2.0 e multi-media users in real-time chat messengers.
Un mondo di Liste Amici in multi-player online, XBox Live e WiiConnect24 su PS Network in Home Second Life. L’universo Metroid è invece puro anacronismo d’oggi. Lo si vive disconnessi dal mondo, dagli affetti e dall’analogico tutto, come ad un’ossessione, una corruzione mentale.
I Wii-mote’s users trovano il proprio sogno, dopo quasi un anno, d’utilizzare il Wii come new-technology al servizio dell’intrattenimento ludico: é il miglior matrimonio possibile, una nuova tecnologia interfacciata ad un ambiente sci-fi che offre splendide evoluzioni interattive. Metroid Prime 3 dispiega in tal modo la sua più affascinante energia: nel suggestivo incremento sensoriale offerto dal Wii-Mote+Nunchuk l’esperienza si trasforma in una immersiva ossessione cervello intossicante, una (piacevole) psicosi video ludica. Svelare ogni suo anfratto, ogni suo angolo remoto intriso di suggestioni ambientali visive e sonore – mentre nel gamer un’esplosione rizomatica di contatti sinaptici ricorda location esplorate, scorciatoie e/o possibili percorsi verso direzioni preventivate – fanno di Metroid un’esperienza pionieristica mentale.
Il pensiero del Metroid gamer va infatti ristrutturandosi secondo i dettami organici dei Metroid stessi – brain-suckers che iniettano tossico Phazon nei contatti neurali – e ciò vuol dire che abbandonare l’esperienza anche solo per una settimana equivale a disintossicarsi dall’infuso di siero virtuale, con relativa difficoltà d'approccio ad una eventuale reprise. Allontanare Metroid per mesi comporta irrimediabilmente l’arrugginire della simbiosi ambientale con i suoi spazi virtuali: il rischio e l’eventualità saranno quelli di sentirsi alieni in un mondo alieno. To be Metroid Addicted vuol dire invece giocare isolandosi da tutto il resto, introversione che specchia e riflette esperienza introversa - una temporanea comunità di “non multi-player people” immersa nel Samus-Sé in esplorazione individuale quale prima missione ludica e soggettiva.
Il risultato é il solipsismo videoludico, il versante psicologico è il Samus-transfert.
Metroid diviene in tal modo una (piacevole) ossessione. Lo si ritrova nei sogni, ritornando ai suoi ambienti ancora da esplorare, all’olografia di mappe in wire-frame filled with colors da ruotare-zoomare-scandagliare per il 100% dell’esplorazione… Metroid lo si gioca dentro di sé oltre che fuori di sé, un’opera che fa dell’esperienza soggettiva il cardine su cui ruota attorno il proprio design, il proprio stile, il proprio ambient-sound e il proprio ludo-appeal.
Il pensiero torna al solipsismo del primo Metroid per NES del 1986, anni nei quali l’immergersi in atmosfere povere di dettagli era pratica suggestionata, più che dalla cosmesi grafica, dalla fruizione di film e letteratura sci-fi, con altisonanti nomi di videogames che irretivano l’acquisto previo acquisto di licenze da altri medium. Guidata dalla visione di Gunpei Yokoi e generata da un cosmico vuoto, Samus si sarebbe invece levata via il casco solo alla fine, rivelandosi donna senza mai esser stata nessun'altra cosa, prima di allora.
La metafora di un Metroid-ending è dunque la fine di un viaggio, esperienza soggettiva che vale un’epica d’intrattenimento, solitaria, come da qualche parte, da fonti perse nella memoria, ha scritto l’ormai storico Biagi : “La tua esperienza non serve agli altri: è una moneta che uno solo può spendere”.
Metroid è una moneta che si gioca da soli - da palombari in Phazon Iper-Fase, da Big Daddy Samus Aran in claustrofobia di casco e servomotori della propria suit – Wii-mote e nunchuk quali supporti vitali, alla scoperta di regni entropici.
Si prova solitudine in Metroid, una alienazione tecno-dipendente: l’add-on delle risorse tecnologiche della propria suit, uniche ancore di salvezza nel ritrovarsi vis a vis con Space Pirates da disintegrare nelle viscere di fredde, abbandonate strutture nell’universo, non muta affatto le cose: più si avanza, più in Metroid ci si continua a sentire soli, abbandonati.
Perché la forza di Metroid é giocata tutta nell’organicità di un individualismo che disegna ogni suo ambiente, per quanto ostile, velenoso o muto che sia, atto a stabilire una relazione psicologica intrisa di malinconica rarefazione mischiata a fredde sensazioni di un distopico futuro alieno, sospeso tra l’assenza d’affetto e l’organicità spaziale del cosmo.
Suggestioni che sostentano coordinate interiori auto-sufficienti al coinvolgimento psichico, autonome come i Drone-bot generati su Elysia dagli antenati Chozo.
Metroid è un essere senziente in attesa che venga svelato, vivendolo, il suo segreto game-design, affinché nulla resti tale all’interno di un ideale level design incarnato digitalmente in modo sopraffine grazie allo studio retrò dei Retro Studios.
Metroid va giocato sentendosi palombari in iper-fase, psicotizzati in Samus Aran's helmet – Wii-mote e nunchuk quali supporti vitali interfacciati al Nintendo Universe.
Metroid va rigorosamente giocato senza assumere altro, da soli e sino alla fine.
True Gamers Are Metroid Addicted.

13 settembre 2007

E se Metal Gear Solid 4 avesse gli Achievement Points?

Achievements Boys: facciamo i "punti" a scanso d'equivoci.
(di Luigi Marrone)

Il Group Product Manager Aaron Greenberg di Microsoft, una delle menti dietro gli Achievement Points, afferma che molti utenti di varie piattaforme di gioco preferiscono acquistare la versione di Xbox360 di un gioco multipiattaforma (tipo Madden NFL), poiché nelle altre versioni non vi sono Points.
Penso alla mia infatuazione per la serie Metal Gear. Trovo l'esperienza di gioco assimilabile ad un flusso narrativo che nelle cut-scene trova snodi, punti e direzioni fondamentali in grado di garantire un'alta, esclusiva credibilità ludo-narrativa. L'agire in Metal Gear comporta una forte impressione narrativa, oltre che ludica. Si tratta del segno distintivo dell'opera Konami, della potente differenza con buona parte del resto del market videoludico.
Il punto é questo: semmai l'ultimo capitolo della serie dovesse approdare su Xbox 360, personalmente non vorrei mai trovarmi con la scritta Obiettivo Raggiunto: Uccidi Liquid Ocelot in meno di 30 secondi, proprio mentre parte la cut-scene ed io sono in piena fruizione del finale. Mi darebbe un enorme fastidio, come un profondo e disdicevole momento dal sapore fatale.

La Leggenda di Metal Gear non è un obiettivo di gioco. La sua cifra non é punteggio uguale per tutti, bensì interpretazione e riflessione critica, esperienza soggettiva profondamente meta-ludica, oltre i canoni di un video-interagire comunemente inteso. Se esiste qualcosa che contraddistingue Metal Gear dal resto é proprio quel senso di indeterminatezza che mina alla base il determinismo demiurgico che opera alle fondamenta di qualsiasi gioco altro. Gli assalti interpretativi alla sua struttura previsti dall'autore, le agenze preventive del videogiocatore, ecc... sembrano in Metal Gear perdere di significato. L'opera si costruisce attorno al giocatore, lo plasma e ne risulta plasmata in un rapporto dialogico nel quale l'Autore pare cedere il passo alla potenza fattuale del narrato, all'emozione che lo stesso é in grado di regalare all'interno di un insospettabile accadimento virtuale. Metal Gear é difatti un raffinato modello di I.A. al servizio videoludico, uno stilema di comportamento di Intelligenza Artificiale in grado di creare una sospensione di giudizio altamente coinvolgente. Rappresenta un universo autonomo, pulsante, in grado d'emozionare in virtù della propria autorialità fortemente mimetizzata.
Può sembrare strano, ma pur avendo visto il suo finale più volte, io penso ancora il gioco MGS Snake Eater come ad una realtà dormiente. Il gioco è lì, in attesa di me, pronto ad essere ri-vissuto con i suoi nascosti segreti, i suoi easter eggs e tutti gli occulti momenti imprevedibili che assolutamente non voglio leggere o sapere.
Ma so che ci sono. E che vivono.
Constatare che un corpus di fatti emozionanti sono compresi, racchiusi, preventivamente delimitati da un Obiettivo Sbloccato, equivarrebbe al ridurne il portato, il senso di apertura e di libertà di agenza provata da me videogiocatore per ricordarmi, mentre sono emotivamente rapito, che di videogioco comunque si tratta. E di un'esperienza "oltre il gioco" quale Metal Gear rappresenta, del fatto che pur sempre di gioco si tratta...


io
me
ne
voglio
scordare.

Della sua estetica ne voglio un'immagine pura (v-ideologicamente parlando), soprattutto quando giocherò l'ultimo capitolo della saga, per la prima volta.
In definitiva: esiste un modo (and of course there is) di eliminare le scritte video quando si raggiungono gli Achievement Points in un eventuale MGS4 per Xbox360?
Achievement Boys: facciamo i "punti" a scanso di equivoci.
Fondamentalmente non ne sono contrario, ma al contempo trovo che buona parte della ricerca del valore del videogiocatore nell'ambito di una comunità virtuale, data nella fattispecie dal valore numerico riportato sul proprio Gamerscore in Xbox Live, sia in realtà minata da un fraintendimento di base. Ciò che di potente e pericoloso possiedono gli Achievement Points, gli Obiettivi sbloccabili nei videogames Xbox360, é il potere di regalare l'illusione di una "identità" al videogiocatore, quella di "essere prestigiosi" quanti più punti si possiedono accanto al proprio Gamerscore. L'obiettivo quantitativo, atavica prerogativa contraddistintiva del sistema riconoscimento competenze nei videogiochi, può assumere con Xbox360 un aspetto fuorviante.

Il primo fraintendimento, operativo dal punto di vista psico-ludico nel videogiocatore, è quello di lasciar credere allo stesso che le possibilità di agenza "creativa", di "competenza videoludica" e/o semplicemente di libertà intrinseca di un dato videogioco siano delimitate e/o si esauriscano con gli Obiettivi previsti. Ciò può avvenire semplicemente credendo che un videogioco sia stato completamente "esaurito", esperito e "vissuto" solo soddisfacendo le possibilità confinate negli Achievements stessi.
Se di poca utilità risulta ricordare come gli Obiettivi siano stabiliti a monte dagli sviluppatori valutando solo alcune delle possibilità di agenza nel videogioco, è invece utile sottolineare quanto queste scelte non esauriscano assolutamente tutte le altre possibili. Tanto per fare un esempio, perché non sono previsti 20 Achievement Points in Gears of War di Epic Games per il giocatore che, nella modalità Zona di guerra, resta solo sul campo senza i propri compagni di squadra sterminati, e riesce infine ad eliminare i 4 avversari per 10 volte non-consecutive nelle partite classificate? A parte che ci sarebbero meno "cowards" tesi a nascondersi per ottenere il pareggio, non avrebbe potuto, un tale Obiettivo, risultare più "fantasioso" e "creativo" di quello che richiede invece di uccidere, per lo stesso punteggio, 3 nemici contemporaneamente per 10 volte?Prescindendo dai relativismi di sorta, la verità è che raggiunto il numero 1000 o il numero 200 per i giochi scaricati dal Live Arcade, a detta di molti videogiocatori l'esperienza videoludica può definirsi conclusa. Similmente ad uno straccio imbevuto di materia digitale, il gioco può considerarsi strizzato al massimo, spesso da riportare indietro per rivalutarlo dietro acquisto di altro.
C'é inoltre da sottolineare come, in assenza di Achievements, difficilmente il videogiocatore trascorrerebbe le ore di un intero pomeriggio a gettare sistematicamente 500 volte di fila un nemico da un dirupo solo per sbloccare i 30 punti di un Obiettivo segreto in Marvel Ultimate Alliance, ad esempio. Tornando a Gears of War, nel tentativo di soddisfare il pretestuoso Obiettivo delle fatidiche 10.000 kill on line, non è un caso sentir dire dalla comunità Xbox Live quanto sia divenuto stomachevole giocare continuamente l'entropica mappa Raven Down che meglio si presta a tale traguardo.

Il quesito è dunque il seguente: Gli Achievement Points, hanno il potere di influire sulla modalità, l'intensità e in definitiva la qualità di fruizione di una data opera videoludica?
In caso di risposta affermativa, si tratta di qualcosa su cui vale la pena riflettere?

Giocando ad un nuovo gioco Xbox360, spesso mi capita di chiedermi se una determinata azione ripetuta, spettacolare o meno che sto compiendo in quel momento, non stia per caso incidendo su eventuali Obiettivi segreti da sbloccare. Può sembrare qualcosa da nulla, ma durante le fasi "in-game", quando ancora non esistevano Achievements, non avrei mai formulato pensieri verso tali "preoccupazioni". Essendo molti Achievements segreti in molti videogames, vale a dire "non rivelati" nella lista degli Obiettivi fin quando il giocatore non li sblocca fortunosamente o ragionatamente, gli "Achievement Boys", i ragazzacci fanatici degli Obiettivi, saranno indotti in tal modo a consultare siti (GameFaqs, Achieve360points, ecc.) nei quali i videogiocatori inseriscono pubblicamente in rete la soluzione del gioco X appunto, comprensiva della descrizione di tutti gli Achievements presenti.
Avendo da poco terminato Bioshock (2K Games - 2007) su Xbox360, ho scoperto che uno degli Achievements inclusi richiede che non venga fronteggiato, durante il primo faccia a faccia, uno dei Boss presenti nel gioco, ma che lo si lasci invece vivo per poi eliminarlo in un secondo momento ed ottenere cosi l'accesso ad una locazione che permetta di potenziare un oggetto utile a sbloccare un determinato Obiettivo.
Conoscendo in anticipo tale possibilità, l'Achievement Boy agirebbe quindi in modo da "sbloccare" l'Obiettivo, deviando probabilmente da un percorso più spontaneo, istintivo. La conseguenza risulterà dunque che il senso ludo-narrativo, colonna portante dell'esperienza fortemente inclusiva in Bioshock, sarebbe stata irrimediabilmente diversa senza Achievements. Gli Achievements quindi, hanno davvero questo potere sul videogiocatore? La smania di accumulare subito punti può essere più fortemente desiderabile da prevaricare il "primo sacrosanto giro" di scoperta delle possibilità di gioco, inficiandone la "verginea purezza" di una prima fruizione dello stesso?

Altra domanda: Se la fame consumistica che attanaglia il videogiocatore, sempre pronta a saltare da un'esperienza virtuale all'altra, orienta naturalmente lo stesso verso lo spolpamento di un gioco in una prospettiva di punteggio Achievements, é possibile (ed ha senso) resistere in virtù di un videogiocare per il quale il punteggio non conta?

Può sembrare paradossale ma una cosa é certa: per molti videogiocatori ciò che dovrebbe divertire finisce col tempo per divenire rituale, un dovere videoludico, un qualcosa che rema assolutamente contro i principi del piacevole intrattenimento ludico. Non di rado mi capita di incontrare On-line parecchie persone che esclamano che il gioco X appena acquistato non gli piace, ma che avendo già sbloccato un TOT di punteggio tenterà comunque di sbloccare i restanti Obiettivi per poi rivendere il prodotto e non doverci più avere a che fare.
Pare assurdo ma il giocatore del caso, nel portare avanti una noiosa dinamica di reiterazione interattiva sino al fatidico campeggiare su schermo della dicitura Obiettivo Raggiunto/Achievements Unlocked, non si sta affatto divertendo, tutt'altro.
Spesso giocare o ri-giocare per sbloccare gli Obiettivi finisce irrimediabilmente con l'indurre il videogiocatore ad esaurire un compito, un dovere, una tappa che potrebbe poi detenere l'impressionante potere di tracciare permanentemente una orgogliosa cartografia digitale del proprio percorso videoludico.
Ma ad un'analisi più capziosa, risulta più difficile (e doveroso) realizzare invece come, paradossalmente, tale numero infine non lo distinguerà dalla comunità, bensì lo farà sentire parte integrante e protetta della stessa all'interno di un unicum valoriale che finisce col rappresentare davvero poco di rilevante dal punto di vista dell'identità videoludica.

Prima di farne conoscenza immaginavo infatti gli Obiettivi quali riconoscimenti degli sviluppatori per la comprensione che il videogiocatore avrebbe dimostrato per il gioco X, obiettivi quindi scelti intelligentemente dagli sviluppatori quale "stretta di mano" per i gamers più attenti. Solo poi, vis à vis, ho scoperto quanto spesso si trattasse di richieste tutt'altro che intelligenti, non di rado tediose o snervanti, ossia reiterate dinamiche di gioco che il videogiocatore normalmente non avrebbe mai eseguito e che lo sviluppatore stesso del gioco sicuramente non avrebbe mai avuto la pazienza di affrontare. E' chiaro che alla fin fine non ci sarebbe poi molto da comprendere in uno sparatutto, ma la verità è che il mio incubo (lo ammetto) sarebbe venire a conoscenza, un giorno, di videogiochi con un game design realizzato/modificato funzionalmente a posteriori a causa di alcuni Achievements sbloccabili stabiliti a monte.

L'arte funzionale ad una quantità, ad un numero non commerciabile e fondamentalmente relativo come gli Achievements...
Lo so, é pura divagazione, però....

In definitiva, quando un videogioco viene a noia, o è sbagliato il gioco, o è sbagliato come lo si sta giocando.
Ma quanto triste e sbagliato é il non divertirsi giocando in modo sbagliato...

15 agosto 2007

Lo "sparare" nei videogames: metafora di cosa?

Un momento epifanico
(di Luigi Marrone)

Sparare é un atto violento. Un atto che presume un'offesa, dalla quale raramente si esce incolumi. Ma più che dell'atto morale in sé, videoludico o meno che sia, lo "sparare" cosa significa? Qual'é il suo ruolo psicologico? La sua funzione, per il videogiocatore, é forse indice, metafora che esprime qualcos'altro?
Nelle programmazioni di un cinema multisala è raro non vedere in tabellone almeno una locandina di un action movie con un tizio che impugna un'arma. In uno scaffale zeppo di videogiochi poi tale eventualità è obiettivamente impossibile.
Sin dai propri albori il videogioco ha proposto la rappresentazione simulata di meccanismi di difesa e offesa: sparare per frantumare meteoriti, sparare per respingere alieni, sparare per difendere postazioni terrestri, sparare per colpire evitando al contempo di essere colpiti. L’interazione è elementare, il meccanismo nitido, semplice e perfetto: puntare l’arma e Sparare.
Le cover-art videoludiche con personaggi che brandiscono pistole/fucili/mitra/cannoni sono da sempre una realtà imprescindibile: l'icona Lara Croft, il brand Resident Evil, i vari FPS...
Gettando una veloce occhiata alla mia ludoteca e soffermandomi sulla prima di copertina scorgo Chris Redfield nel primo Resident Evil: non ha una pistola, bensì un cannone fra le braccia. Lara Croft ne ha 2 di pistole. Armati e pronti a fare fuoco si presentano Solid Snake, Psi Ops, Turrican, Sam Fisher, Jim Power, Leon Kennedy e le posture sensuali (ma sempre armate) di Ada Wong, e poi Cold Fear, Halo, Fear Effect 2, Battalion Wars, Killer 7, Gears of war, Metroid, GTA e Devil May Cry e tanti altri miriadi di milioni di titoli passati e quelli che in futuro verranno.
Brandire un'arma.
Puntare un'arma per difendersi da qualcosa o qualcuno.
Sparare.
Film e videogames, caratterizzati da una forte evidenza pubblicitaria e dalla relativa informazione visuale quanto più possibile incisiva (imposta da un marketing ad hoc) quasi sempre presumono un’esperienza caratterizzata da un annichilimento delle possibilità pacifiste e patteggiatrici a favore di una posizione risolutiva dal carattere militare.
Sparare.
L'atto dello sparare.
Difendersi dalla minaccia con un'arma.
Ricaricare e sparare.
Ma questa minaccia, in realtà, dov'é? Dove nasce? Cos’è?
Ovunque nella rete l'assediamento pubblicitario di videogames caratterizzati da nichilismo e potenza…. gli avatar armati degli utenti sui blog... le copertine delle riviste videoludiche... le locandine cartonate nei game-center... web screenshots... video-trailer di videogames... sequenze velocissime... CUT... i trailer nei cinema... sequenze velocissime di montaggio... boati di appartamenti che esplodono... CUT... Resident Evil 5... occhi determinati del protagonista... pistole che fanno fuoco... sparare... fare fuoco con un'arma.... ricaricare... sparare... sparare...
Sparare.
E' stato durante un barbaglio d'improvvisa lucidità che mi è parso di poter intuire, di poter afferrare, di poter comprendere il senso e l’essenza di tutto questo. Non é facile descrivere il momento in quanto si è trattato di una improvvisa sensazione più che di una ragionata riflessione, ma dentro quell'attimo d'epifanica comprensione ho sentito come se tutto questo sparare, tutta questa possibilità di far fuoco ammantata da una cosmesi sempre più realistica si riducesse in fondo ad una scossa palliativa, ad un brivido, ad una ludica virtuosità buona a regalare ai gamers, l'illusione svagante di vivere un’esperienza con uno scopo esistenziale emotivamente elettrizzante, che remi contro una realtà individuale altrimenti scarna di forti bussole, allagata di routine e di noia, manchevole di edificanti obbiettivi e deficitaria di un senso esistenziale sentito con forza.
In quel momento, da pessimo player, è stato forte il chiedermi se la maggior parte dello "sparare" nei videogiochi e tutte le pose e le armi impugnate dai protagonisti in copertina non fossero altro che una metafora della
semplice
mera
difesa
dai nostri timori del vivere.
Oltre che per contestualizzare un ambito di agenza videoludica quindi, mi sono chiesto se l'intrattenimento digitale pervaso dalla maggior parte dei personaggi che puntano armi e dal grilletto facile non fosse altro che una metafora di quell'ampio dramma esistenziale che caratterizza l'uomo in generale all’interno di una profonda mancanza di - forti - obbiettivi - esistenziali.
Il videogioco come valvola di sfogo si sente spesso dire, ma sfogo da cosa in realtà? Forse dall'abrasiva austerità del vivere fatta per buona ed evidente parte di insincerità, di rapporti di lavoro basati sul potere, di malafede e di cronache nefaste causate da illogiche pazzie? Quel vivere fatto di competizione, di arrivismi e invidie alimentate dalle disparità non-democratiche inoculate nella società da occulte ma operative oligarchie?
Sparare come azione/sublimazione del malessere (dis)umano del nostro vivere?
Sparare come metaforica affermazione biologica del proprio essere maschile, del rilasciare il proprio seme/proiettile verso il buio-domani, verso l'uterino buio, il non-luogo al quale si tende e dal quale si proviene?
O magari semplicemente premere il grilletto e sparare come esorcizzazione di un vivere che fa semplicemente paura, per la paura stessa insita nel vivere?
E ancora, sparare come reazione al timoroso disagio generato dai fantasmi del proprio futuro individuale?
Ecco, mi pare di ricordare. E’ un processo che inizia col bombardamento d’immagini mediatiche fatto di main characters stilosi e armati, passa per i trailer dei prossimi FPS e finisce con i film e i goffi filmati degli assolutamente non credibili attori del primo Resident Evil (il gioco): il pensiero che devo aver formulato in quel preciso momento é stato "sparare quale metafora del timore di guardare in faccia il proprio incerto domani, sublimato mediante il lampo di un'arma da fuoco atto a rischiarare, per pochi brevi istanti, le incertezze della propria strada individuale che ognuno ha da percorrere, ineluttabilmente".
Si, era questo che avevo pensato osservando la postura plastica di Jill Valentine in posizione di tiro: spianarsi la strada con un arma puntata verso la zona buia dell'essere, come fanno i Solid Snake, i Dante e i Leon Kennedy... puntare l'arma a scanso di ogni fallimento/contaminazione dell'anima e della carne... uno zombie che sbuca improvviso... uno spettro... un disagio interiore da eliminare...
Uno sparare che nei videogames regali la parvenza di un illusorio, digitale scopo caratterizzato da un momentaneo forte senso esistenziale, giocando. Sparare quale metafora dell'incapacità di affrontare l'esistenziale incedere se non con un'arma puntata dinanzi a noi (possibilmente torcia-munita) che ne esorcizzi i timori, le sfiducie e l'umana debolezza di fondo…
Sparare.
E quando questi fantasmi diventano insopportabili, come le più buie paure e debolezze di Solid Snake, puntare infine l'arma verso se stessi.
Metaforicamente, s'intende.

E cosi via dunque, ancora e ancora, sino al prossimo videogioco, sino al prossimo video-trailer, al prossimo E3, al prossimo Tokyo Game Show, alla prossima recensione, al prossimo bio-shock…
Ovunque vi sia da puntare un'arma.
Ovunque vi sia da sparare.
Sparare.

A questo punto mi chiedo: ma davvero quel Marcus Fenix, cosi bruto e potente e che torreggia con le sue armi su tutti noi, è in parte una funzione in risposta alle nostre paure?
E Leon Kennedy? Chris Redfield?
E Lara Croft?
E tutti gli altri che li seguiranno?
Si tratta soltanto di icone, di simboli digitali, di modelli d'intrattenimento atti ad una prassi di sublimazione?
E il nostro giocare, il nostro difenderci dalle minaccie e l’uccidere attraverso loro, è davvero solo un'inconscia difesa dai timori del vivere, dalle pazzie dell'oggi e dall'incerto del nostro domani?

Per un breve, epifanico e introverso attimo filosofico mi é lucidamente parso così.

15 luglio 2007

Il CyberWorld di Alessandro Vietti: profetiche ibridazioni videoludiche e oltre.

(di Luigi Marrone)

La lettura di Cyberworld di Alessandro Vietti (1996 – Casa Editrice Nord), romanzo vincitore
del Concorso Letterario Cosmo 1996, é particolarmente affascinante. Fascinazione dovuta alle intuizioni dell’autore per le contaminazioni fra realtà virtuale e realtà analogica/reale dei nostri giorni, Cyberworld, presentato al concorso nel 1995, lascia trasparire oggi analogie con l’attuale ambito videoludico caratterizzate da un sapore a tratti profetico.
Lo sguardo al futuro é cyberpunkianamente pessimista: la Terra nel 2079 sarà sporca, velenosa e radioattiva: sprovvisti di mascherine a filtri di carbone, respirare aria è pratica altamente pericolosa. I motivi per i quali buona parte dell'umanità si rifugia nel Cyberworld sono dunque psico-socialmente differenti da quelli per cui oggi l'uomo si rifuga in ambienti virtuali interattivi.
Chi non può permettersi di vivere evadendo nel CyberWorld è condannato ad inquinarsi quindi nell’atmosfera acida e radioattiva della Terra, sottostando alle interazioni sociali della noiosa realtà materiale.
Se é vero che i Realisti credono che la Natura un giorno possa risorgere riconquistando la propria preminenza sul reale, il gruppo tecno-religioso dei Virtualisti capeggiati dal guru Angel@01 professa invece che la vera realtà è nient’altro che il CyberWorld, il fatidico Cyberspazio che dal gennaio 2048 é finalmente divenuto operativo.
CyberWorld è quindi il nome della Rete Virtuale alla quale è possibile connettersi con un data suit, una feedback-tuta provvista di servo motori e stimolatori epiteliali in grado di riprodurre quasi tutti gli stimoli/impressioni sensoriali ricevuti quando si è immersi nella reta stessa (salvo, per motivi di sicurezza, quelle esperienze fisicamente dolorose come ad esempio un pugno allo stomaco ricevuto nel Cyberworld).
Ciò vale a dire che disponendo di una buona e costosissima data-suit, tanto più complessa e articolata sarà la sorgente degli oggetti e degli avatar nel CyberWorld con in quali si interagisce tanto più i feedback sensoriali riportati dalla tuta saranno fedeli alla realtà. Il gradiente di piacere/impressione psicofisica nel CyberWorld è dunque proporzionalmente correlato alle condizioni economiche/sociali degli “abbonati” allo stesso: coloro che più possono permettersi più facilmente frequenteranno poli abbienti dotati di apparati di feedback sensoriali migliori.
Di nuovo l'analogia con i VG é marcata. Non tutti oggi possono permettersi di acquistare tutti i sistemi e il software di intrattenimento presente sul mercato o gli up-grade tecnologici di ultima generazione per i propri computer. Questo comporta una limitazione nella ricezione dei possibili feedback culturali attivati dai videogames quali esperienze virtuali nonché una limitazione nel fruire del massimo grado di performance grafiche/tecnologiche si propri PC con relativa diminuzione sensoriale del senso di immersione nello spazio virtuale stesso.
Tornando a CyberWorld il top dei visori è invece rappresentato da quelli denominati RSLD, Retinal Scanner Laser Display, occhiali speciali che imprimono le immagini direttamente sulle retine (N.d.A.).
Gli Avatar con i quali si opera nel CyberWorld vengono invece chiamati dall’autore Sembianti, dalle descrizioni esteticamente e liberamente customizzabili come avviene nello spazio online persistente di Second Life, ad esempio.
L’altra analogia concerne invece lo Home Space. Come per il servizio Home di Sony per Playstation3, ogni utente del CyberWorld dispone di un personale HS, definito dall’autore lo “spazio informativo che ormai tutti gli abbonati di CyberWorld si affittano per avere una fettina di memoria per farsi gli affari propri”.
Nel proprio HS è possibile invitare quindi i propri amici, scambiare oggetti, conservare archivi delle proprie esperienze nella rete nonché catalogare mindware e sexware.
Il CyberWorld permette inoltre la telepresenza, ossia l’agenza sul reale mediante interattività virtuale: si lavora dentro data-suit per muovere a distanza i servobot da costruzione aerospaziale, ad esempio.
La valuta del CyberWorld è chiamata semplicemente e-cash.

Fra le altre analogie vi é da rilevare che nel CyberWorld è possibile vivere in prima persona l’esperienza virtuale interattiva, l’I.V.E come personalmente mi piace definirla riguardo ai videogiochi: una InteractiveVideoEsp. Esp come esperienza appunto, ma con il suggestivo richiamo alle Percezioni Extra Sensoriali, alla tecnologia quale possibile medium fra 2 mondi, mondo reale e mondo virtuale, mondo dei vivi e mondo trascendente (Aldilà, vedi Pulse di Kiyoshi Kurosawa, Giappone, 2001).
Anche nel CyberWorld si videogioca (uno dei giochi è chiamato WaterWorld6.3) ma l’interattività raggiunge ovviamente livelli molto estesi. Basti pensare che i Sembianti possono assumere punti di vista ottici e sensoriali di tutti i software presenti in un dato spazio di memoria: un orologio, un veliero, un soprammobile… vale a dire qualsiasi programma digitale presente negli spazi del CyberWorld che permetta tale interazione.
Tali possibilità danno adito a ricostruzioni e rappresentazioni, da parte dei programmatori, di eventi storici con possibilità interattive. E’ possibile quindi “intervenire” durante la battaglia di Little Big Horn per salvare Custer da Toro Bianco, oppure affondare le 3 caravelle prima dello sbarco sull’isola di San Salvador. Se ben programmate, quando non direttamente controllate, le IA dei "Personaggi non giocanti" difatti suppliscono plausibilmente agli interventi degli utenti di CyberWorld, sconfessando il loro codificato determinismo storico in virtù di reazioni plausibili in grado di regalare all'utente la sensazione d’aver modificato il corso degli eventi.
Nel romanzo le implicazioni di tale interattività risultano abbastanza presenti, ma in realtà poco approfondite (vedi applicazioni didattiche). Resta al lettore il sapore dell’idea di poter sperimentare la propria libera agenza in un ambito storico digitale altamente realistico.

Con il suo romanzo Vietti tocca anche alcuni aspetti concernenti la regolamentazione del vivere digitale. Nell’economia del suo lavoro è rilevante il fatto che il Cyberworld sia dominato da un CyberCode, un codice normativo di agenza stilato principalmente da Katherine Gibson, nipote dello scrittore William Gibson nonché primo Coordinatore del CyberWorld.
Il rispetto di tale codice è rimesso agli Agenti ASCI (Agenzia di Sorveglianza Ciberspaziale Informatica), i quali spesso vigilano in incongnito quale polizia informatica della rete.
Tralasciando vari aspetti della trama e il formalismo a tratti a-poetico e sbrigativo di alcune scelte di Vietti intento a progredire nel suo romanzo, ciò che è interessante notare riguarda alcuni ulteriori aspetti messi il luce dall’autore.
Uno di questi si presenta nel momento in cui l’Agente ASCI chiamata Venus@124 indaga sulla morte reale dell’amico King@486, gettatosi dalla finestra del suo appartamento a Milano con ancora indosso il suo data-suit. La ragazza/agente sospetta infatti che se i dati inviati ad un utente riproducono perfettamente la realtà, l’immersione in un cyberspazio può divenire molto di più che un’allucinazione consensuale, conducendo all’inconsapevolezza del proprio agire nel “reale”.
Nella fattispecie King@486, connesso con la propria tuta e visore al CyberWorld, si trovava in piedi sulla propria step-board, una tavola con pedana mobile in grado di simulare il movimento spaziale nel cyberworld (Wii Fit anyone?). A detta dell’agente Venus@124, l’uomo potrebbe quindi aver ricevuto alcuni dati hackerati da qualcuno nel Cyberworld: convinto di stare ancora camminando sulla propria step board mentre questa era stata in/nella realtà volontariamente arrestata, il presunto hacker a conoscenza della configurazione planimetrica dell’appartamento aveva indotto King@486 a camminare incosapevolmente nella propria stanza, mentre questi era in realtà immerso in qualche area di memoria del CyberWorld.
Come un sonnambulo che crede di percorrere un lungo corridoio, il falso feedback lo aveva ingannato sino a farlo inconsapevolmente precipitare dalla propria finestra reale.
Le sue azioni virtuali avevano decretato dunque la fine della propria vita nella realtà.
In definitiva, l’impossibilità di distinguere il reale dal virtuale è risultata per l'uomo fatale.
Tralasciando un'analisi delle conseguenze psico-sociali dietro tali possibilità, mi é piaciuto ricordare come l’interfacciamento con il data-suit rappresenta nient’altro che i nostri joypad, la tastiera e il mouse, il wii-mote della nostra realtà, vale a dire interfacce fra due mondi che tendono ad innestarsi in una interazione psicofisica: quanto più l’interfaccia oblìa il corpo dell’utente, tanto più ne sarà conseguente l’oblio della realtà.
Ovviamente le possibilità di rintracciare similitudini non finiscono qui, ma per questo consiglio la lettura integrale del romanzo di questo promettente autore italiano.

Scrive Vietti a proposito dell'immersione nel CyberWorld:
Non dimenticate che, diversamente da come succede nel mondo reale, qui, quando siete stufi, stanchi, avete mal di testa o le vostre cose, potete sempre andarvene, troncare, tagliare i ponti con tutto e tutti, per tutto il tempo che volete. E questo è possibile quasi sempre, anche se spesso si rimane invischiati in un meccanismo psichico che tende a farvi rimanere collegati fino a quando un bisogno fisico diventa insostenibile. Come in un videogame. Si vuole sempre fare un’altra partita”.

Sarà questa in futuro la bellissima pericolosa ammaliante forza di quello che oggi chiamano “videogiochi”?

5 maggio 2007

Tecnologia e moralità del Cyberspazio: una libera riflessione.

Tecnologia e moralità del Cyberspazio: Internet, religione, cinema e videogames.
Una libera riflessione sull’oggi
(di Luigi Marrone)
Saggio pubblicato su Videoludica il 05/05/07 - scaricabile in PDF

Lo sviluppo tecnologico degli ultimi 30 anni ha ridisegnato/ridefinito il rapporto dell’uomo con le macchine nonché il rapporto fra l’uomo e i suoi simili operando trasformazioni ormai da chiunque facilmente ravvisabili: dalle più semplici suggestioni estetiche alle più svariate applicazioni professionali, la tecnologia ha difatti invaso diverse categorie dello scibile umano.
Un aspetto attuale ancora da analizzare verte su quanto la pervasività tecnologica degli ultimi anni abbia finito con l’insinuarsi fra l’uomo e la religione, innestandosi moralmente in quest’ultima categoria sino a ridisegnarne un profilo contemporaneo.

Una delle tesi dalla quale nasce la seguente riflessione tende ad affermare che la sempre più diffusa versatilità tecnologica degli ultimi anni ha progressivamente incrementato la discrezione del tecno-utente nel risolvere in sé la sublimazione di quelle istanze di carattere morale solitamente rimesse all’interesse religioso.
Non è tabù ad esempio affermare che le visite quotidiane su siti dai contenuti espliciti sia testimone lampante di tale tendenza: successivamente alla diffusione di Internet e alla versatilità della Navigazione in Rete, le nuove tecnologie hanno comportato la fruizione di contenuti espliciti su siti adults only di pari passo con la diffusione di navigazioni on line user-friendly, grazie alla possibilità di connessioni sempre più veloci e la riduzione dei costi di periferiche hardware sempre più performanti.
In uno scenario tecno-pervasivo come quello attuale, il Personal Computer può essere oggi considerato il maggiore espediente tecnologico atto a legittimare la consultazione volontaria di contenuti digitali espliciti, a cui vanno ad aggiungersi le varie funzioni di impiego di macchine fotografiche digitali, Webcam e la relativa condivisione di immagini, video e testi attraverso la creazione di Web blog gratuiti, tralasciando inoltre tutti gli altri sistemi di registrazione, archiviazione, trasmissione e condivisione di contenuti digitali.
Qualsiasi utente di Personal Computer ha oggi la possibilità di servirsi dei più disparati sistemi tecnologici per operare su se stesso, in ambito virtuale, una mimesi completa, buona a mascherare la propria identità/immagine durante la fase di ricerca, condivisione e fruizione di contenuti espliciti, in accordo con la salvifica preservazione del proprio anonimato.

La domanda quindi è la seguente:

E’ legittimo supporre che l’assenza e la non identificabilità di un corpo fisico operante in un contesto virtuale video-interagibile finisca col disinibire la pulsione morale dell’utente nel momento in cui si presenta la possibilità di assecondare un determinato desiderio scopico?

Così come affermato dalla Bibbia, il primigenio tentativo di mimesi volontaria dell’uomo risale alle figure bibliche di Adamo ed Eva le quali, successivamente all’aver fruito del frutto proibito della Conoscenza, possono divenire oggi metafora del peccare virtuale (solitamente realizzata nel tentativo di preservare il proprio anonimato agli occhi del mondo off-line).
Traslando tale dinamica in ambito dell’utilizzo delle nuove tecnologie, il Serpente Tentatore può essere oggi rintracciato sotto le forme di un ente psico-tecnologico in grado di insinuarsi nella mente umana attraverso le possibilità di impiego offerte dalla mediazione della Rete e delle tecnologie esistenti.
In uno scenario mediale sempre più pervasivamente scopico, e parlando in modo congenialmente favorevole per le figure bibliche di Adamo ed Eva, il frutto della Conoscenza dato dai contenuti espliciti è divenuto oggi un impercettibile clic di mouse nel mare magnum di milioni di altri utenti, atto a solleticare l’anonimo scrutare mediante l’occulta preservazione dell’identità degli stessi.
Se esiste un calo nella fruizione di riviste cartacee o di ingombranti VHS da celare sotto quotidiani durante il tragitto dal chiosco dei giornali ad un ipotetico luogo di consultazione privato, ciò è principalmente dovuto alle possibilità di mimesi offerta dallo sviluppo tecnologico.
Internet, il cyberspazio o gli spazi virtuali persistenti come Second Life, hanno per loro natura il potere di mirare all’introversione dell’utente, intimandolo a traslare sul piano virtuale quegli atti che in passato avevano da manifestarsi quantomeno sul piano fisico, incensando in tal modo la disinibizione di quel pudore proprio di determinati volontari utenti.
Le tecnologie moderne possono considerarsi quindi omo-sostitutive: Internet ha comportato la diminuzione di soggetti fisici che fungono da intermediari di transazioni, nonché la mancanza del bisogno di spazi fisici nei quali occultare pubblicazioni e/o supporti di visione dai contenuti espliciti.
Il risultato? Sempre meno possibilità all’uomo di essere moralmente testimoniabile dal prossimo, con tutto il conseguente carico di risultanti psico-sociali.

Tornando in ambito religioso, la prerogativa di uno spazio fisico ben determinato (Chiese, sinagoghe, ecc) prima di Internet era condizione inoppugnabile per qualsiasi individuo religiosamente attivo. La nascita di CyberChurch, che mediante WebCam rendono possibile seguire da casa i servizi religiosi comunitari, ha operato una sacralizzazione dello spazio puramente virtuale inoculando la dimensione del sacro all’interno di quella digitale.
La St. John Internet Church ad esempio é una chiesa indipendente che opera unicamente on line, per la quale è possibile svolgere una comunione on line semplicemente utilizzando Internet e la propria tastiera (
www.religionnet.com).
Analogamente, presso un sito che si dichiara aderente alla comunità delle Chiese Anglicane (
www.theconfessor.co.uk) è possibile confessarsi attraverso internet.
Tuttavia il più completo tentativo di uso del cyberspazio quale spazio per celebrazioni religiose proviene da gruppi che si richiamano alla variegata galassia del neopaganesimo. Sono gruppi che, sotto una vasta serie di definizioni (tecnopagani, tecnosciamani, tecnowicca o altro ancora) sono soprattutto diffusi nell’area nordamericana.

In questa occulta e dinamica contaminazione offerta da un tale scenario è interessante analizzare la funzione ricoperta da uno dei protagonisti delle nuove tecnologie.
Nato nel 1956 da un prototipo ideato da IBM, l’Hard Disk (anche detto disco rigido, Hard Drive) può essere oggi considerato il privilegiato tecno-testimone delle pulsioni morali dell’utente in ambito digitale.
Entità tecno-conservatrice per propria ontologica natura, esso è l’equivalente metaforico di una memoria puramente archiviante. Contenuto in un Case Tower che può assumere svariate dimensioni, l’Hard Disk possiede quella congeniale neutralità, impensabile per qualsiasi essere umano, nel registrare le tracce morali del proprio utente divenendo potenzialmente una fredda e inoppugnabile prova dei suoi orientamenti spirituali.
Formattare un Hard Disk e/o cancellare precisi dati di valore morale equivale oggi ad eliminare dal mondo i segni di un percorso spiritual-digitale, a volte involontario (a causa di virus/spam, ecc), ma molto più spesso contenente i residuati e le tracce di precisi, volontari passaggi di rilevanza morale.
In altri termini, la prassi di formattazione/cancellazione di un Hard Disk equivale all’eliminazione di prove di valore morale, solitamente interessate dalla religione, da una coscienza puramente meccanico-digitale.

In ambito religioso cristiano la confessione, sacramento di penitenza solitamente operato dalla chiesa attraverso i propri rappresentanti, presume generalmente una archiviazione di fatti (dati) di tipo umano per i quali il confessore risulti testimone registrante nella propria memoria dei percorsi morali di un altro essere umano. Durante tale prassi il fatto confessato subisce una sublimazione spirituale nel passaggio dialogico/verbale dal sacerdote al fedele, che presumibilmente, mediante un sincero pentimento, solleva quest’ultimo dal peso morale del proprio peccato.
Nel film The Order di Brian Helgeland (in Italia La Setta Dei Dannati – Twentieth Century Fox - 2003), viene messa in luce la figura del Mangiatore di Peccati (Sin Eater), un uomo immortale in grado di accogliere-archiviare dentro sé i peccati di quelle anime che non possono o non vogliono confessarsi, in tal modo salvandole e liberandole dal giogo della eterna dannazione. La pellicola ipotizza che il Sin Eater, nel momento del rituale di trasmigrazione dei peccati da un’anima X alla propria, riviva interiormente la cronistoria del vissuto morale del “redento”, divenendone pienamente cosciente, quindi testimone, e sgravando globalmente lo stesso dal peso morale del proprio peccaminoso passato.

Condizione sine qua non, imprescindibile affinché la prassi avvenga, è data dall’Assoluzione, vera e propria sentenza che normativamente deve avvenire in presenza fisica del confessante.
C’è da dire che per un Internauta che volesse oggi confessarsi da casa tramite Internet, successivamente alla propria contrizione, viene dato da riempire un modulo nel quale scrivere l’accusa dettagliata e completa dei propri peccati. Per ricevere invece l’Assoluzione vera e propria è normativo recarsi in Chiesa per riceverla direttamente dal confessore.
L’impossibilità di eseguire il suddetto sacramento in assenza di presenza in personam del confessante rende spiritualmente inattiva la Confessione, così come ribadito dal Vaticano.

Tornando a trattare dell’influenza operata dalle nuove tecnologie, non è difficile ipotizzare quanto oggi il Cyberspazio possa aver operato da incentivo nell’incrementare la malafede degli Internauti. L’umana necessità di confessare la peccaminosità di propri atti e pensieri, generata ad esempio dalla dubbia moralità di determinati contenuti visionati, ha subito cambiamenti fondamentali. L’auto giustificazione rimessa ad un Internauta, unico testimone fisico della propria debolezza morale, tende facilmente ad ingannarlo/illuderlo, in totale malafede appunto, che la rispettabilità morale nel mondo Out-Line gli possa essere concessa eliminando le prove del proprio peccaminoso scrutare/operare attraverso un auto assolvimento permessogli dalla cancellazione delle proprie tracce dentro l’unica entità ad egli esterna in grado di testimoniargli contro:
il proprio Hard Disk.
In altri termini, attraverso una prassi di tipo informatico, trattandosi di contenuti eliminabili puramente digitali, che sia facilmente possibile estromettere la propria coscienza/volontà dalle ipotetiche conseguenze legate al peso morale del proprio fruire.
Il pentimento morale viene così sublimato con un atto puramente tecnico, vale a dire la serie di processi informatici che inducono alla cancellazione delle pagine Web visitate, dei blog anonimi dietro i quale si celano i pensieri e/o immagini dell’utente promotore, nonché dei file dai contenuti espliciti, più volte volontariamente fruiti e/o quindi colpevolmente ricercati.
In definitiva, è come se in assenza di una mente umana potenzialmente testimone del proprio agire il virtuale operasse una deligittimazione dei contenuti di coscienza morali, a maggior ragione dato che il supporto di registrazione, entità meccanica, ferro-magnetica e non-spirituale, risulta quale perfetto alibi discolpante.

In tale prospettiva é lecito dunque affermare che la pervasività tecnologica degli ultimi anni, oltre ad aver modificato i rapporti psico-socio-culturali fra gli uomini, ha inoltre operato sensualmente col modificare le relazioni canoniche fra l’Uomo e l’universo normalmente interessato dalla Religione.
Di conseguenza, il rapporto dell’uomo con la sfera del divino.

I Videogiochi sono un CyberSpazio morale?

Attraverso il manga Ghost in The Shell (Shirow Masamune, 1991 Kodansha Ltd., Tokyo), l’autore del fumetto al quale è ispirata l’omonima serie televisiva nonché vari lungometraggi, avanza la volontà di dimostrare che l’anima sarebbe un software, e che la biologia sarebbe solo una forma di tecnologia particolarmente complessa.
Tale pretesa troverebbe il conforto dell’alta informatica, applicata o meno ad aree bio-tecnologiche, per la quale é già stato provato che programmi complessi basati su reti neurali mostrano una tendenza ad evolvere in modo molto simile a quella degli organismi viventi, in armonia con la stessa teoria evoluzionistica di Darwin.
Da ciò si potrebbe affermare che mettere il software sullo stesso piano delle creature viventi sia un passo azzardato, ma per Masamune, essendo tutte le entità viventi codificate dal DNA, esse possono essere liberamente paragonate a softwares, a programmi per computer.
Secondo tale prospettiva infatti il DNA sarebbe nient’altro che un codice sofisticato contenente informazioni sulla struttura degli organismi, cervello incluso.
Nel suggestivo scenario della serie animata, Ghost è il termine colloquiale slang per riferirsi alla mente o all’essenza di un essere. La società futuristica di Ghost in the Shell ha scientificamente ridefinito l'"anima" come quella cosa che differenzia un essere umano da un robot biologico. Indifferentemente da quanto materiale biologico venga rimpiazzato con sostituti meccanici o elettronici, fintantoché un individuo mantiene il suo Ghost mantiene la sua umanità ed individualità.
Nel lungometraggio Ghost In The Shell 2: Innocence (di Mamoru Oshii – 2004, in Italia malamente ribattezzato con L’Attacco dei Cyborg), stando alla visione del regista veniamo ad apprendere come la Rete, la Matrice, il CyberSpazio (inteso come il futuro dell’attuale Internet) siano fondamentalmente un piano spirituale quanto quello “Off line”.
Il film ipotizza che se l'anima è un software, ciò comporta che un qualunque luogo di accumulazione di dati (Internet par excellence, ma anche un semplice Hard Disk) può ospitare un'anima, uno spirito, un fantasma (un Ghost, appunto).

La domanda è la seguente:
Essendo gli spazi videoludici meri spazi virtuali in grado di accogliere gli avatar dei gamers, vale a dire la loro parziale essenza pulsionale traslata/metaforizzata in un corpo/simulacro digitale che ne permette appunto la manifestazione, ed essendo l’anima la sostanza moralmente identificante l’individuo, è dunque lecito considerare moralmente l’agenza del videogiocatore all’interno di un videogioco?
Il videogioco, considerato da una tale prospettiva spirituale, è dunque uno spazio d’agenza morale?

Come detto in precedenza, operare in un contesto fisio-trascendente/fisico-occultante quale Internet, può lasciare naturalmente emergere la parte pulsionale normalmente più inibita dell’utente. A favore della dicotomia corpo-spirito quindi, è come se in assenza di corpo persista solo la componente spirituale più pura dell’uomo, quella essenzialmente e strettamente interessata dalle religioni.
A ben vedere ciò non risulterebbe idiosincratico con l’idea religiosa che il destino spirituale post-mortem dell’uomo, successivamente quindi alla trascendenza del proprio corpo fisico, possa essere determinato dalla natura e dal passato morale dello stesso, ma non è questo il punto di interesse.
Quello che sarebbe invece doveroso chiedersi è se ogni videogioco, comportando/operando essenzialmente una trascendenza del corpo fisico del videogiocatore, non possa risultare quindi un buon indice valutativo degli orientamenti morali dello stesso. Parliamo ad esempio della violenza rintracciabile in un First Person Shooter, dell’uccisione volontaria di un proprio compagno di squadra in un War Game, del divertimento di aprire il fuoco sugli innocenti NPC (Personaggi non giocanti), ecc.
In realtà, riflettendo in qualità di videogiocatore, ciò equivarrebbe a mistificare l’agenza offerta della ludica video-interazione.
Il videogioco è e rimane pur sempre un universo video-interagibile caratterizzato da proprie regole e da precise strutture di fondo, grazie alle quali all’utente viene rimessa una limitata possibilità di scelta assieme ai limiti di come performarla. Un tentativo di moralizzazione degli atti in game di un videogiocatore potrebbe avere luogo limitatamente a quanto questi possa sentirsi sinceramente e pienamente libero d’esprimere/assecondare le proprie sincere pulsioni attraverso il videogioco stesso. Dovrebbero essere l’intera anima, l’intera coscienza, l’intera presenza del gamer a specchiarsi all’interno dell’universo di gioco stesso, in totale oblio del fatto che si tratti di una realtà simulata.
Risulta tuttavia improbabile che in un First Person Shooter ad esempio, l’uccisione volontaria di un proprio compagno di squadra corrisponda realmente ad un istinto omicida puro, meta-ludico, e che sia indice incontestabile di pura malvagità (intesa in senso spirituale).
In un videogioco difatti il contesto è sempre pretestuoso all’agire, così come del resto il videogioco, pur annoverando in sé una tale possibilità fratricida, è interamente pretesto al videogiocare.

Data l’apparentemente inestirpabile demonizzazione alla quale i videogames sono soggetti, è possibile rielaborare gli assunti di cui sopra per approfondire altri aspetti, quali ad esempio il rapporto fra videogiochi e la sublimazione di pulsioni violente.
In questo caso è interessante riflettere su come la risultante pulsionale morale successiva alla pratica di un videogioco “disturbante” (che presenta quindi contenuti che presentano scene di violenza, linguaggio discriminatorio e volgare, ecc.) sia incomparabile a quella determinata successivamente alla visione di un film che presenti le medesime caratteristiche.
La mia personale opinione è che il videogioco operi socialmente una funzione di sdrammatizzazione e sdoganamento di temi normalmente considerati “espliciti/diseducativi/disturbanti”, molto più di quanto non possa attuare un film, ad esempio.
La visione cinematografica di atti umani rientranti nelle categorie morali del perverso, del trasgressivo, del sessualmente esplicito o del “malvagio” tratta sempre di elementi non-manipolabili dallo spettatore. Il rischio conseguente é dato dalla operatività di tali elementi nella sfera psichica, emotiva e spirituale dell’uomo, il quale non è escluso che possa percepirli, anche inconsciamente, alla stregua di statuti autonomi, di tesi inoppugnabili.
Volente o nolente, qualsiasi film propone una visione dietro la quale il mondo e l’esistenza vengono giudicati attraverso gli accadimenti del film stesso, nonché attraverso le forme che la moralità assume nei fatti narrati.

Il videogioco opera invece attraverso diversi fattori:

- Tensione a rendere l’utente un soggetto attivo verso il fenomeno in esso rappresentato;
- Indurre necessariamente a una pur minima analisi degli elementi testuali atta alla progressione nel gioco stesso;
- Sdrammatizzazione critica del testo (e di conseguenza della realtà off line del quale il gioco eventualemte informa) attraverso il gameplay e/o l’agenza permessa dallo stesso.

Senza nulla togliere al fatto che il videogioco possa informare l’utente dell’esistenza di tematiche presenti nella realtà off-game (moralmente positive o negative che esse siano), l’istigazione a simularle o ad operare in maniera immorale, punto nodale della demonizzazione di cui sopra, non potrebbe essere mai prerogativa di un medium che, al contrario del cinema, concede l’oppugnabilità dell’azione e il controllo della ludo-narrazione.
Controllo e manipolazione di elementi contestuali fanno dei videogames un composto di sub-strutture o sub-tematiche analizzabili/criticabili con più libertà, sicurezza e attività di un testo filmico, incensando notevolmente una conoscenza a-drammatica dei fenomeni di carattere morale.
Senza contare il rapporto mentale che si stabilisce fra Videogiocatore e Videogioco, e come questo influisca sulla cognizione dello stesso.
Anche in Single Player, il videogiocatore sa di non essere mai solo. L’universo con il quale sta video-interagendo è difatti impregnato da uno strutturale determinismo. Il videogiocatore è sempre cosciente del fatto che il Videogioco sta giocando con lui, stabilendo un ideale rapporto dialogico fra le visioni del game designer ed egli stesso.
Ciò che il game designer permette al videogiocatore di fare (come ad esempio la tanto demonizzata possibilità di uccidere una prostituta in Grand Theft Auto III) fa crollare l’aura dell’illecito (e la risultante psicologica) verso un atto moralmente sbagliato, trasformando qualsiasi accadimento in pura informazione di gioco.
L’illecito permesso/commesso nei Videogiochi diviene in tal modo un qualcosa di non morboso, di a-drammatico, in quanto inoltre legalizzato da una comunità di Videogiocatori cosciente di stare compiendo gli stessi atti videoludici, senzientemente.
Si tratta in questo caso di una prospettiva ben differente dalla fruizione privata/occulta e altamente discrezionale di una ricerca di elementi espliciti sul Web tramite Internet.
La sempre più diffusa fruizione di videogiochi On Line in modalità cooperativa (assieme ad altri utenti) nonché la comunicazione vocale fra VideoGiocatori via microfono durante le sessioni in comune, mettono effettivamente in contatto fisico gli utenti, incensando il dialogo critico rispetto alle immagini rappresentate ed elevando ancora più in alto il senso di sfida, dissipando la drammaticità del visualizzato.
E lecito quindi affermare che il videogioco abbia la precisa tendenza ad informare della propria realtà (che prenda a modello/rimandi al reale o meno) ai fini della sfida del gioco stesso, piuttosto che a moralizzarla decisamente, proponedo una visione digitale che ospiti l’utente ad una partecipazione attiva.
Le possibilità di scelta offerte dal gioco, con il proprio carico di relative conseguenze sul piano dello stesso, scongiurano l’assoggettamento al messaggio ludico attraverso una analisi necessariamente critica della propria performance e delle tematiche gioco-contestuali che essa solleva.
L’esito del gioco, che sia un game over o un determinato ending, non è dunque soverchiante quanto la tesi non manipolabile solitamente proposta, anche indirettamente, da un qualsiasi film: passiva partecipazione e attiva com-partecipazione non possono che operare sull’uomo suggestioni e conseguenze estremamente differenti.

Per quanto sopra riportato, in Italia risulta quindi oggi del tutto pretestuoso che, secondo le possibilità e le suggestioni attualmente offerte della video-interazione ludica, la demonizzazione del medium e la conseguente necessità di controllo contenuti e distribuzione venga più urgentemente sentita nei videogiochi stessi piuttosto che nel format di altri medium (cinema e Tv con tutto il loro carico esplicito di cronache e immagini drammatiche in onda ad orari familiari).
Il videogiocatore si diverte nella rappresentazione, o se si preferisce nella illusione dissimulata da rappresentazione. Divertimento e intrattenimento sono le chiavi del gioco, assieme ad una conoscenza a-drammatica permessa dal gioco stesso, per cui è assurdo credere che i messaggi videoludici mirino ad informare che l’uccisione di esseri umani, il consumo di droghe o gli incidenti mortali siano prassi ludiche nella realtà.
E’ inoltre mia convinzione affermare che in assenza dell’influenza sociale/culturale/psicologica degli universi video-ludo-interattivi, molti mostri generati dalla televisione tornerebbero a scuotere la sensibilità psichica degli infanti molto più di quanto non accada adesso (come invece accadeva un tempo), portandoli a credere sul piano reale alla loro operatività (fantomatica o meno), in quanto tutto ciò che rende passiva la fruizione, inibendo il controllo, viene cognitivamente percepito come drammatico, realtà soverchiante in quanto inoppugnabile.

Infine non è mai fuori luogo ricordare che l’inoppugnabilità di un film persiste oltre l’interattività dell’utente, dove il videogioco termina con la scelta di non proseguire il racconto ludo-narrativo, con la fine quindi dell’interattività del videogiocatore.
Ogni gamer può scegliere di interrompere la sessione ludica, operando in tal modo la propria autorità a dispetto della operatività fenomenica del gioco. La sfida lanciata dal gioco e gli obiettivi da raggiungere controbilanciano abbondantemente la drammaticità della narrazione, e smettendo di giocare il racconto ludico in tal modo non progredisce: il fenomeno corrisponderà virtualmente ad un non-accadimento, in quanto ogni videogiocatore sa che l’esito dipenderà solo dalla propria volontà di superare la sfida
Di davvero drammatico, per il vero videogiocatore, persiste solo la cocente disdetta di non aver portato a termine la sfida.
Il vero videogiocatore riprende un gioco lasciato a metà per tentare di “finire il gioco”, per quanto cruente possano essere le immagini in esso rappresentate, non per assistere ad un finale cinematografico che legittimi tutta la sua ludo-narrazione.
In definitiva qualsiasi obiettivo ludico è quello di superare la sfida proposta dal gioco, e questo è anche il maggior incentivo dei videogiochi per i quali l’agenza permessa dagli stessi rende protagonisti in un mondo salvificamente referenziale, dove il senso di autorità soverchia il dispotismo di un qualsiasi testo esclusivamente narrante.

Per tornare ad un paragone con l’impiego morale delle nuove tecnologie, il ruolo del videogiocatore nel gioco si fa voce dell’identità virtuale dell’utente stesso, una identità puramente funzionale al divertimento, non di una mimesi totale degna di trasformarsi in un alibi deresponsabilizzante.

Si tratta di due istanze ampiamente definite, ma per i motivi di cui sopra, altamente differenti.

21 aprile 2007

Boktai. Quando il virtuale richiede il reale.

Bellissimi tentativi di sconfinamenti videoludici.
(di Luigi Marrone)

Farlo accadere.
Indurre a credere nell'illusione che stia avvenendo nel reale, che i due mondi siano causalmente connessi, reciprocamente integrati.
Che sia conscio o meno, che sia il residuato di fascinazioni ed esaltazioni infantili, in fondo é questo il desiderio celato dietro la passione del vero game designer: dare l'illusione di una carne digitale in grado di farsi largo nella realtà, di sconfinare sul piano reale e viceversa. Hideo Kojima rappresenta un esempio fulgente: amante della con-fusione fra piano virtuale in-game e reale off-game, vale a dire ciò che viene fruito attraverso lo schermo con ciò che avviene/accade all'infuori di esso. Psycho Mantis in Metal Gear Solid muove il controller sul pavimento del videogiocatore attraverso poteri ESP, mentre il colonnello Campbell ordina al videogiocatore di spegnere la Playstation, ecc.
Prendiamo la serie di Konami sviluppata su GBA, Boktai. KonamiKojima vuole che i raggi solari reali ricarichino la Gun del Sol, la pistola del protagonista Django in Boktai 2.
Dalle cartucce da inserire nello slot del Game Boy Advance fa capolino un sensore di rilevamento solare, in grado di ricare armi, forgiarne di nuove, aumentare l'intensità del sole filtrato nei dungeon e tante altre simili applicazioni. Si tratta semplicemente di un'idea, di un lascito creativo implementato nel game design, ma che analizzato in dettaglio è filosoficamente sottile più di quanto si possa immaginare.
Oltre l'ideale intimazione ad uscire da casetta propria per giocare, incrementando le possibilità di socializzazione e di fruizione degli spazi reali, Boktai richiede infatti la realtà affinché la realtà entri nel gioco.
Pensiamo un attimo a Nintendo Wii, please. Interazione motion-sensitive, wii-mote quale interfaccia che approfondisce la mediazione fra player e mondo di gioco: dimenticarsi di avere un controller fra le mani vuol dire necessariamente aumentare l'immersione nell'universo in-game affinché l'esperienza sia sensorialmente totalizzante: fuori uguale dentro, dentro uguale fuori.

Farlo accadere.
Indurre a credere nell'illusione che stia avvenendo nel reale, che i due mondi siano causalmente connessi, reciprocamente integrati.
Ciò che fa pensare è stato il dietro front attuato da Konami con Lunar Knights su Nintendo DS. Vuoi per l'assenza di giornate assolate in varie parti del globo, vuoi soprattutto per la tendenza dei players che per svariati motivi non preferisce giocare sotto il sole, Boktai non ha trovato un buon conforto commerciale. Tralasciando la possibilità di usare una cartuccia di Boktai nello slot GBA su DS (per sfruttare il sensore solare ed implementarlo nel gioco), oggi Lunar Knights supplisce al sole vero.
In quale modo? Niente di più semplice e ovvio: tornando al virtuale. Il sole di Lunar Knights torna infatti ad essere virtuale, una fonte energetica che accondiscende a diverse applicazioni, ma pur sempre ermeticamente virtuale, composta di codice binario, digitale, come il sole che scalda la surrealtà di un qualunque Super Mario, del sole che ammanta l'ambientazione fantasy di Shadow of the Colossus o quella di uno Zelda: un sole che proviene dal virtuale e che resta tale.
Il sole dentro Lunar Knights non è più traslato da una fonte reale metareferenziale: si tratta di luce lunare o solare artificiale che, filtrata da finestre, spiragli o varchi presenti nel gioco diviene fonte preziosa per ricaricare le armi di Lucian e Aaron, i due protagonisti.
Se prima si dovevano cercare, GBA alla mano, porzioni di luce da saccheggiare nel reale (seduti su di una panchina in un parco, sul proprio balcone di casa, a ridosso di una finestra esposta al sole) ora si è tornati a cercare le fonti direttamente nel gioco, diegeticamente. La sfida sta nel cogliere il nuovo messaggio di game design di KonamiKojima, il quale messaggio, mascherato da una necessaria funzionalità videoludica che decreti ora un incremento di vendite, in realtà esaspera e critica la mancata risposta della comunità videoludica al richiamo del vero sole.
Stando alla storia di Lunar Knights, i nemici dell'umanità chiamati Vampiri hanno difatti costruito un cielo artificiale attorno la Terra, comprensivo di un sole e di una luna artificiali. Si tratta essenzialmente di un sole e di una Luna digitali che provengono da una fonte di-gi-ta-le, vale a dire il codice del videogioco stesso.Quasi come se Kojima lasciasse intendere, dopo la mancata/svogliata ricerca del reale da parte dei players, che tutto ciò di cui la comunità videoludica merita/ha bisogno sia proprio questo: di restare confinata nel proprio mondo digitale, nonostante le vengano forniti strumenti, possibilità e interfacce innovative buone a valicare, mimetizzare i mondi in e off game.

Difatti, ciò che più fa riflettere dell'operazione Boktai è lo pseudo fallimento di un tentativo di sconfinamento videoludico, di un esperimento riuscito solo a metà, ma che diviene indice/testimone di quelli che sono gli orientamenti ontologici del videogioco stesso: divertire, intrattenere in un mondo fittizio, che questo simuli strettamente o meno il reale, ma che in fondo resti tale: illusorio, fittizio, puramente digitale.
I videogiochi garantiscono tendenzialmente l'incolumità fisica dei players, permettendo al contempo di incrementare l'esperienza di un vissuto puramente digitale regalando l'illusione di una esperienza reale. Di contro Boktai pretende che il videogiocatore ricerchi la realtà per lasciarsi giocare in pieno, che il videogiocatore senta il sole su di sé, che esca fuori dal proprio spazio domestico alla ricerca di ambienti congeniali al gioco.
A questo punto, visti i risultati, bisogna ancora credere che i videogiocatori, sempre preservando la propria incolumità fisica, vorrebbero vivere l'esperienza sensorialmente totalizzante di James Sunderland in una vera Silent Hill? Oppure guidare il Jehuty di Anubis sospeso fra la vita e la morte come Dingo Egret? Davvero un videogiocatore vorrebbe sensorialmente trovarsi, sul piano digitale, nella Mars City di Doom 3?
La passione, l'eclettismo e lo spirito di sperimentazione di un ricercatore quale Hideo Kojima pretendono la contaminazione dei due piani, reale e virtuale, ad onta di ogni resistente scetticismo della comunità videoludica. Gli sconfinamenti videoludici, oltre a sfociare in film, colonne sonore, action figures, gadgets o poster, invadranno in futuro sempre più il reale come Kojima ha videoludicamente preteso?
Oppure la lezione di Boktai è indicativa su dove il videogioco farebbe meglio a restare ancorato?
Il futuro delle esperienze video-interattive è quello di restare nei limiti delle stesse, quindi?
Comunque stiano le cose, Boktai e Lunar Knights rappresentano due indici di tendenza sui soffermarsi e riflettere.

11 aprile 2007

Virtuale e memoria. I videogiochi sono tempo perso?

Videogiocare come Non-Essere. E' davvero così?
(di Luigi Marrone)

Essere o non Essere sarebbe come dire Essere o Videogiocare?
Un interrogativo sui cui riflettere, non prima però d'aver tentato di trovare una definizione sul videogioco.

Video interazione ludica o videogiocare: pratica di interazione tecno-sensoriale con universi disincarnati (Esperienze Virtuali) capace di sublimare l’inconscio bisogno metafisico di proiettare l’Essere/Avatar/Divinità (qualificato come video-giocatore) all’interno di realtà espanse, tese a permettere esperienze di vita che preservano l’incolumità fisica del soggetto.
Stando a tale definizione viene da chiedersi: I videogiochi sono dunque solo pseudo simulazioni del reale che accondiscendono a varie funzioni psicologiche/sociali (intrattenimento, riflessione, catarsi)?

I videogiochi permettono rappresentazioni di interazioni quasi sempre non possibili sul piano materiale, ma prendono imperfettamente a modello il piano reale per simularne certe regole, stravolgendole.
Domanda: Gli accadimenti che avvengono nei videogiochi, dove accadono realmente?
Risposta: I videogiochi non accadono sul piano fisico/materiale della realtà tangibile.
Essendo composti di carne digitale, di realtà disincarnata (disembodied reality), i Videogiochi accadono nella mente, nel Ghost umano. I Videogames sono Esperienze dello spirito.

Mente/Spirito sono quindi gli spazi da indagare, vale a dire i "luoghi" di accumulazione di tutti i residuati post-esperienziali dell'uomo, quindi, anche delle sessioni di gioco.

Domanda:
Qual'é la valenza di ciò che resta di un videogioco alla fine dell'esperienza?

La memoria umana determinatasi successivamente alla pratica di universi videogiocati é sacrosanta come quella deteminatasi per le esperienze di vita out-game, le quali esperienze vengono comunemente incensate come le uniche a detenere l'ontos necessario a costituire un memoriale d'uomo che si rispetti.
E' sorprendente infatti quanto possa essere diffusa l'opinione che il tempo trascorso a video-giocare equivalga a puro tempo sprecato. Tale generica convizione nasce da riflessioni piuttosto comprensibili, in quanto gli accadimenti che si verificano in un videogioco nel videogioco, manifestandosi sul piano meramente virtuale/digitale/immateriale, dovrebbero non costituire una realtà “fisica”, “concreta” e “reale” appunto.
Le esperienze videoludiche non possiederebbero quindi la legittimità di contribuire a formare la memoria di un uomo.
Detto in altri termini, é comune accezione sostenere che il vivere Esperienze VideoInterattive equivalga a Non-Vivere: i videogiochi annichiliscono il videogiocatore nell’indeterminato, e il tempo trascorso a video-giocare non rende un uomo tale nel senso più puro del termine, bensì una entità inutile, sospesa fra il vivere "passivamente " il mondo fisico e l'annullarsi attivamente all'interno di un Altrove immateriale.
Videogiocare é sinonimo di sparizione in un mondo dove non si Esiste: una prospettiva piuttosto agghiacciante.
Per musica/film/letteratura il discorso é drammaticamente diverso: i Videogiochi ne contemplano svariati aspetti, a volte sincronicamente e aggiungendo di proprio l'interattività, eppur questo non basta a scrollare dall'opinione comune l'idea che Videogiochi siano meno edificanti.
Eppure i video-interattori non hanno difficoltà a riconoscere come le esperienze di gioco che più vengono ricordate, impresse, sedimentate nella propria memoria sono quelle che hanno “più anima” o “più carattere” intesi come risultante di tecnica, fantasia, ideali, volontà e perché no, cuore di un team di lavoro il quale ha riversato nel codice il proprio operato attraverso le risorse tecnologiche disponibili nel tempo.
L’importanza artistica di un videogioco risulta quindi la somma e il prodotto finale di tutto ciò che, a livello di codice, è in grado emozionare, indurre a riflettere e a stimolare un dato videogiocatore.
Il dna genetico/digitale di una video-iterazione si fa dunque specchio della sensibilità artistica, della capacità tecnica e delle visioni dei game designers.
In altri termini, della Essenza artistica di un team di lavoro.
Ma questa Essenza infine, non proviene forse dall’uomo?
E in quale modo questa Essenza coinvolge il discorso sulla memoria?
Globalmente, si dovrebbe ammettere.
Immaginando che la fine di una esperienza videoludica (rimettere il software nella custodia senza riaprirla più) e la fine della vita di un uomo (chiuderlo dopo i dovuti riti in una bara per sempre) siano metafora della medesima azione, credo sia possibile giungere a formulare la seguente conclusione: così come il ricordo che si serba di una persona non corrisponde solo ed esclusivamente al suo aspetto fisico in life bensì annovera in sé quegli elementi affettivi che lo trascendono e che tornano a galla nel tempo facendo di quella persona una entità unica, inimitabile, non più materiale eppur vivida, palpitante e (in qualche metafisico modo) spiritualmente presente, lo stesso può dirsi di una coinvolgente esperienza videoludica che viene registrata nella memoria di un videogiocatore.
Emozionarsi nel ricordare l'immersione nella Shadow Moses di Metal Gear Solid (Playstation, 1999 - Konami) ed emozionarsi ad esempio nel ricordare l’amicizia con un conoscente che non esiste più fisicamente, informano della medesima: essenza, anima, spirito in entrambi i casi palpitano in colui che ricorda, in quanto depositario di tali esperienze.
Quello che con tutta probabilità è ancora da accettare è che l’immateriale (i mondi virtuali, nella fattispecie) possiedono la stessa legittimità d'esistere del fisicamente tangibile, e che i 2 piani infine sono facce della stessa medaglia in continua connessione.
Non esistono differenze ontologiche fra memorie video-ludiche e memorie non video-ludiche: si tratta pur sempre di memorie umane, che gli uomini videogiochino o meno. Da ciò ne deriva che il tempo dedicato a “video-giocare” non può, nemmeno concettualmente, essere considerato e vanificato come “perdita di tempo”, se non in modo spregiativo (e sempre contestualmente ad una determinata opera) per la qualità delle esperienze videoludiche vissute (leggasi, il tempo trascorso con un pessimo videogioco equivale al tempo trascorso con una persona ottusa, ridondante e che non ci lascia nulla: a waste of time).
Resta il fatto che la vita fisica che interagisce è una sola, ma le vite virtuali da esperire possono essere tante, molte, troppe a volerle "vivere" tutte.
Ma qualunque sia la qualità dell’esperienza che offrono si tratta di vite non delegittimabili causa la loro fonte originaria e il loro ontos costitutivo (Uomo, game designer o video-giocatore che sia).
I mutamenti del corpo nel tempo sono flebile, lieve testimonianza rispetto a ciò che accade nello spirito: dolore, rabbia, gioia, malinconia… le pieghe delle emozioni galleggiano sulla superfice del corpo, sui volti e sulle emotive umane, ma lasciano intravedere un infinitesimo barbaglio della complessità delle loro forme interiori.
Il libro della memoria di un uomo si scrive dentro, e concerne l’anima, non il corpo.
Il corpo indossa i segni del tempo, si veste di convenzioni, di condizionamenti sociali, e ricorre ai simboli stilistici dell’abito a sintesi di una presumibile interiorità.
Il corpo è minima cronistoria di un memoriale d’uomo.

Le ore di gioco trascorse in cyberspazi videoludici nonché le esperienze di vita "reale" off-game scrivono e depositano dentro l'uomo gli accadimenti che poi diverrano memoria.
Le Video EsperienzeI nterattive contribuiscono al testamento interiore umano, assieme alle esperienze di vita out-game, poiché videogiocare comporta il vivere vite interiori, vite trascese, vite Altre rispetto a quelle "reali": per quanto virtuali si tratta pur sempre di vite, di Tempo di vita, dislocate in dimensioni OBE, out-body experience, fuori dal corpo fisico quindi.
Ma la legittimità é la medesima.
Da qui nasce l’imperativo categorico di giocare bene.
E a proposito delle vite quindi, virtuali o meno che siano, di viverle dignitosamente per non sciupare il proprio tempo.

Essere o Videogiocare… si tratta in fondo della stessa e identica cosa.
Il videogioco é esattamente il contrario del tempo sprecato.