24 ottobre 2006

Critici d'Arte. Come guardano ai videogames?

Arte e Videogiochi: il progresso tecnologico e il giudizio della critica non-videoludica alla video-interazione.
(di Luigi Marrone)
Trattazione pubblicata su www.videoludica.com all'indirizzo
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Un luogo ancora da analizzare/immaginare/speculare a fondo, relativamente al dibattito arte e videogiochi sono le motivazioni che sino ad oggi hanno giocato a sfavore dei videogames in merito al loro potersi erigere ad Arte secondo principi estetici paradigmatici definiti, come per altre consolidate forme espressive.
Dando per assunto che "I videogiochi non sono arte semplicemente perché i critici di professione non hanno prodotto (o non hanno voluto produrre) dei sistemi estetici adeguati a rendere conto delle peculiarità del medium e del suo linguaggio" (Bittanti), la domanda che propongo è la seguente :
Potrebbero mai stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati quando il progresso tecnologico tende ad evolvere i paradigmi autoriali sui quali potrebbe definirsi una data espressione artistica compiuta?E ancora:Come possono i critici adeguare determinati principi estetici al medium videoludico essendo costretti a ri-definirli secondo il continuo processo tecnologico che, nel tempo, tende a ridefinire la stessa estetica dei videogiochi e del videogiocare?
Prima di fornire risposte a tali quesiti, sarebbe interessante chiedersi come potrebbe essere percepita la videointerazione ludica, nonché la relativa critica specializzata nel settore, da parte di un sistema critico non-videoludico. Soprattutto se, immaginando tale incontro, e analizzandone la prospettiva analitica da un punto di vista non settoriale, potrebbero generarsi contributi interessanti per la comunità videoludica, per gli studiosi del medium nonché per gli stessi critici che volessero fare del testo videoludico una espressione complessa pari ad altri artefatti culturali.

Si potrebbe immaginare che una delle difficoltà trasformatasi in consolidata ritrosia da parte di molti settori della critica non-videoludica a considerare i videogiochi “Arte” al pari di altre espressioni artistiche, non sia da ricercarsi nella natura del medium in sé, bensì nella considerazione storica che la stessa ha dei videogiochi, a partire dai "pionieri" che hanno scritto la storia iniziale del medium. Pong, Space Invaders, Pac-man… tali forme videoludiche offrivano rappresentazioni stilistiche ridotte all’osso, ognuna fortemente caratterizzata da un minimo comun denominatore: i propri evidenti minumum estetici, dal gameplay al coinvolgimento audiovisivo, e via dicendo.
Al contrario, gli artefatti del cinema, musica, pittura o letteratura ad esempio, non sono stati considerati da parte dei sistemi critici, seppur ne abbiano sofferto, come afflitti da limiti congeniti, nonostante siano stati investiti nel tempo da una evoluzione tecnologica nei supporti di registrazione, produzione, conservazione e quanto altro. Di tali testi specifici vengono analizzati i contenuti, i contesti socio-politici nel quale sono inscritti nonché tanti altri diversi aspetti in relazione fra loro.
Ma ciò che li ha sempre differenziati dagli artefatti videoludici è che essi sono sempre stati riconosciuti quali diretta e sacrosanta espressione dell’uomo/artista in un determinato punto del tempo e dello spazio, in virtù della quale espressione la componente tecnologica non è mai stata considerata limitante, bensì di supporto alla comunque libera visione umana in grado di esprimersi con gli strumenti a disposizione.
Il videogioco, in quanto prodotto totalmente mediato, filtrato, esplicato da un hardware tecnologicamente definito (leggi limitato), potrebbe essere idealmente considerato dalla comunità critica non videoludica quale medium riduttivo, limitante la libertà espressiva dell’uomo, dovendo questi adattarsi alle risorse tecnologiche disponibili ad esaudire la propria visione ideale.
Il problema non si risolve quindi nell’accettare i compromessi legati allo specifico artistico del medium videoludico, bensì attraverso una riflessione sullo stesso comparata ad altre espressioni artistiche compiute, le quali, de facto, non soffrono di tali disagi interpretativi.
In qualità di linguaggio puramente digitale, risultato di programmazione di un codice macchina, il videogioco è a tutt’oggi influenzato dall’hardware che lo supporta, dalla tecnologia che ha il potere di definirlo, nel tempo, addirittura ontologicamente.
Credo sia possibile azzardare l’ipotesi della ridefinizione ontologica del medium videoludico in quanto non vi è nulla a precludere la possibilità che in futuro la tecnologia, attraverso nuove interfacce di connessione uomo-macchina, mediante progressi in campo biomedico legati alla bio-cibernetica, potrà a tal punto stravolgere il modo come intendiamo oggi la “ludica video-interazione” da farci stabilire che le pratiche videoludiche passate, come vengono intese da noi oggi, non possano assolutamente essere definite “video-interazione” ludica. (eXistenZ di David Cronenberg – 1999 – ne è una stordente ipotesi).
Non a caso é sintomatico che dopo più di trent’anni di storia videoludica, con buona pace dei puristi del retrogaming, molti videogames del passato non vengano più giocati in quanto incapaci di intrattenere come un tempo, a causa del progresso tecnologico che ne ha sfiancato il potere di divertimento ludico rispetto a proposte più attuali.
In altri termini, la tecnologia in ambito videoludico ha l’immenso potere di ridefinire nel tempo il piacere di fruire degli elementi propri degli artefatti videoludici, causa trasformazioni/evoluzioni estetiche e strutturali all’interno delle opere ludiche.

Come in precedenza affermato, i limiti hardware dietro i videogiochi riducono le facoltà umane d’espressione, in quanto queste, a loro volta, vengono limitate, azzoppate, handicappate dagli inevitabili limiti congeniti della tecnologia che ne è alla base.
Ciò comporta l’idea che sino a quando il vecchio sarà rimpiazzato dal nuovo, vi sarà la diffusa, conscia/inconscia opinione critica che un prodotto videoludico non presenti solide fondamenta né una base certa dalla quale poter analizzare esteticamente il medium in modo paradigmatico, con il conseguente rischio di non poterlo considerare in grado di generare forme artistiche compiute come per altre forme espressive.
Limitando difatti le possibilità dell’uomo, il limite hardware costringe l’uomo a privarsi di una delle caratteristiche che lo rendono uomo/artista in quanto tale: la totale libertà di espressione della propria visione, ovvero di realizzazione della stessa. Per questo il medim videoludico potrebbe difficilmente essere accostato, dal sistema critico, ad altre espressioni artistiche umane.
Per quanto le influenze socio-culturali favoriscano la nascita di intelletti in determinati periodi spazio-temporali, nulla avrebbe vietato ad esempio ad un uomo quale Pablo Picasso, se fosse esistito cento anni prima, di dipingere un quadro cubista, potendo egli disporre della stessa personale, inalienabile visione appartenente a lui come uomo/artista Pablo Picasso, nonché degli stessi strumenti espressivi (tela, colori, pennelli) a disposizione degli artisti del novecento.
Così come nulla ci vieta di pensare che Pablo Picasso abbia invece anticipato i tempi, e che in realtà la sua pittura avrebbe dovuto generarsi solo cinquanta anni dopo, quando il contesto fisico e sociale sarebbe stato idealmente più favorevole.
Ciò che più conta in definitiva, è che Pablo Picasso avrebbe potuto strumentalmente realizzare la propria visione pittorico/stilistica, in quanto possibilitato a prescindere temporalmente.
La visione artistica di un uomo è solitamente quindi un elemento in grado di trascendere il tempo.

Nel 1970 la PlayStation non poteva essere tecnologicamente concepita, e le prime console da gioco ad esempio erano dotate di un hardware ultra-limitato, con gli sviluppatori costretti a conformarsi alle loro prestazioni. Nonostante l’eccitazione per la speranza riposta nel futuro del progresso elettronico, non è tabù affermare che sin dall’inizio il bisogno dei game designer di espandere la propria libertà di visione in ambito videoludico ha dovuto sempre scontrarsi con la tecnologia.

È possibile supporre che sia stato proprio questo ad aver contribuito a seminare nel tempo, all’interno dei sistemi critici non strettamente interessati alla ludica video-interazione, l’idea del videogioco quale medium stringente, soffocante, limitativo per la totale soddisfazione artistica e la conseguente libertà autoriale dell’uomo.
Se oggi è possibile allontanarsi sempre più dalla vetusta concezione di “limite tecnologico” caratterizzante le macchine dei primi videogiochi, è pur leggittimo concedersi la libertà di presumere che all’alba di possibilità inedite e alla velocità con la quale il medium si sta evolvendo ci si trovi in una scomoda posizione di definizione dello stesso, in quanto non è mai facile definire paradigmaticamente un medium in evoluzione, che pare denigrare il se stesso lasciatosi alle spalle ad ogni passo in avanti compiuto. Per tale motivo viene più facilmente concessa e riconosciuta ai pionieri dei primi videogiochi l’abilità e l’abnegazione nel programmare macchine esigenti piuttosto che il riconoscimento artistico/istituzionale/paradigmatico delle proprie idee.
Da ciò ne conviene che se un quadro innovatore, precursore di un movimento artistico è capace di divenire un artefatto artistico paradigmatico, e di conseguenza valutato unanimemente secondo determinati criteri estetici, è perché l’opera e la visione pioneristica del genio, a prescindere dai suoi strumenti artistici a disposizione o inferenze socio culturali, è libera da vincoli di sorta, senza mediazione se non quella della sensibilità artistica del proprio autore: in altri termini, e ancora, la libertà di visione dell’uomo dovrebbe sempre trascendere il tempo essendone slegato, permettendo in tal modo il libero generarsi di uno specifico paradigma critico convenzionale, non timoroso di stabilirsi secondo stabili e sicure coordinate.
Di conseguenza, e in tutta naturalezza, l’opera artistica viene considerata un’espressione artistica compiuta.

Nel campo videoludico, durante le GDC (Game Developer Conference), è raro non sentire un game designer lamentarsi della difficoltà di approccio delle nuove tecnologie, dei tool di sviluppo per i nuovi sistemi o dei limiti suggeriti dalle caratteristiche tecniche dell’hardware col quale dovrà confrontarsi per attuare la propria visione ed esprimersi. A tutto questo vanno ad aggiungersi le dichiarate insofferenze verso le software house, vere e proprie realtà corporative con tutto il loro carico di analisi di mercato e strategie di marketing, visione economica di produzione e relativa pressione sui team di sviluppo.
Come se non bastasse, le nuove tecnologie di visione legate all’intrattenimento videoludico - dai televisori ad alta definizione sino ai touch sensitive screen del Nintendo DS, ad esempio - non fanno altro che ridisegnare i supporti, le “tele” atte alla visione elettronica, nonché le metodologie interattive mediante le quali i game designer si sono fino a poco tempo fa espressi.
Tale processo evolutivo, schiaffeggiando drasticamente le passate tecnologie visive (la tecnologia CRT - Cathodic Ray Tube, i vecchi Televisori a tubo catodico), stabilisce ormai che chi non possederà l’Alta definizione sarà tagliato fuori dal godere appieno delle nuove console Sony e Microsoft, a prescindere dalla propria competenza in ambito videoludico.
Difficilmente invece un quadro, una canzone, una scultura o un film subiscono nel tempo un rinnovo degli strumenti di fruizione così drasticamente correlati al progresso tecnologico. Inoltre, dove un pittore ad esempio può esprimersi indifferentemente su muro/tela/legno facendo di volta in volta uno specifico di genere a seconda dei differenti supporti per la sua arte (con la critica pronta ad analizzarne indifferentemente il segno, a prescindere dal supporto sul quale è registrato), mutare i supporti elettronici visivi in campo videoludico vuol dire tracciare violentemente il profilo di una nuova estetica visuale, impossibilitando inoltre il dietro-front ideologico in quanto sarebbe la tecnologia dello stesso hardware, anti conservatore per sua natura (tecnologica) a non permetterlo.
Produrrebbe mai la Sony una PlayStation 2.5, visibile su comuni televisori CRT, quando sul mercato è già disponibile PlayStation 3 per l’Alta definizione?
Il segno lasciato da un pittore è invece un indice artistico non differenziale, capace di oscillare secondo sensibilità, esigenza e bisogni dell’artista, ma libero di essere convenzionalmente valutato dalla critica a prescindere dai supporti visivi sui quali l’artista decide di attuarlo.
È sintomatico come difficilmente Sid Maier avvertirebbe nel 2006 il prurito di programmare una versione ridotta all’osso di Civilization su Atari 2600, in quanto la sensibilità, la visione estetica e l’esigenza artistica dei game designer è mutata secondo ciò che la tecnologia ha reso possibile.

Tornando a trattare di critica, c’è da dire che i settori specializzati nella critica videoludica non hanno difficoltà ad affermare, in sede di analisi di un dato videogioco, il relativo valore alla luce di come idee, gameplay, grafica e sonoro siano stati implementati in armonia con l’avanguardia tecnologica hardware che ne è alla base. Difficilmente il godimento dato dalla fruizione di ambienti virtuali mossi da motori grafici all’ultimo grido risulta un elemento criticamente sottovalutato.
Ma dovendo esprimere opinioni sui videogiochi passati dello stesso genere, ad esempio Gran Turismo 2 (PlayStation) e Gran Turismo 4 (PlayStation 2), consigliando l’utente su di una scelta d’acquisto, non lesinerebbero nell’avanzare il fatto che GT2 (fig.1) risulti vetusto, sorpassato sotto tutti gli aspetti rispetto a GT4 (fig 2), pur trattandosi entrambi di artefatti dello stesso genere di appartenenza: videogiochi.

(Fig.1)______________________ (Fig.2)

(Fig. 1) Gran Turismo 2 – Polyphony Digital – 1999
(Fig.2) Gran Turismo 4 – Polyphony Digital - 2005

Pur essendo entrambi artefatti creati per intrattenere/divertire/simulare la guida sportiva nella realtà, consigliare di giocare GranTurimo 2 piuttosto che il 4 è impensabile, poiché GT 4 offre/diverte/simula/coinvolge/esalta maggiormente, evolvendo la visione iniziata con il primo Gran Turismo. In definitiva, ad un prodotto tecnologicamente avanzato viene spesso insindacabilmente riconosciuta una preferenza, un valore maggiore rispetto alle offerte precedenti. E si tratta di giudizi di quella stessa critica di settore che dovrebbe stabilire paradigmi critici partendo dai videogiochi realizzati.
A questo punto è possibile chiedersi: muta forse il complessivo giudizio attuale su di un gioco tecnologicamente datato sapendo che il game designer, se non fosse stato limitato dalle risorse hardware disponibili, avrebbe certamente creato qualcosa di migliore?
Assolutamente no.
Il Producer/Director Kazunori Yamauchi di Polyphony Digital, non sente forse d’essersi avvicinato maggiormente alla sua visione videoludica originaria di Gran Turismo grazie a PlaysSation 2 piuttosto che la sua sorella anziana? E se avesse potuto, non sarebbe riuscito a realizzarla prima?
Assolutamente si.
Agli occhi dei videogiocatori di oggi Gran Turismo 2 rimane un gioco graficamente limitato, superato dal punto di vista simulativo, capace di far sorridere non senza una certa ironia nel vederlo “girare” su di una piattaforma obsoleta, dimentichi del tempo nel quale si era creduto fosse il massimo paradigma di simulazione possibile.
Di contro, nessun critico sconsiglierebbe di fruire della Natura morta con vaso di zenzero I di Piet Mondrian – del 1911 (fig.3), solo perché lo stesso autore ha prodotto una Natura morta con vaso di zenzero II del 1912 (fig.4).



(fig.3)________________________(fig.4)

(fig.3) – Natura morta con vaso di zenzero I – Piet Mondrian 1911
(fig.4) – Natura morta con vaso di zenzero II - Piet Mondrian 1912


Seppure la seconda produzione dell’artista olandese sembri più povera, più recente cronologicamente ma meno immersiva rispetto allo pseudo-realismo della prima, essa ha potuto godere di una propria autonomia interpretativa, svincolata dalle influenze della convivenza con il segno autoriale grafico antecedente.
Normalmente, gli artefatti artistici non videoludici di uno stesso genere atti a divenire oggetto di critica convivono assieme nel tempo senza calpestarsi i piedi vicendevolmente.
Se è vero che PlayStation 2 può far “girare” Gran Turismo 2 e 4, e che quindi anche questi artefatti possono convivere assieme nel tempo (leggasi giocati) e appartengono al medesimo genere (racing simulativo), difficilmente possedendo entrambi i titoli si tende a giocare con il più datato.
Artefatti artistici quali pittura, musica, scrittura e architettura, visti sotto il profilo critico, convivono assieme senza problemi, e la critica li valuta e ne consiglia la fruizione focalizzandosi sul godimento che questi procurano.
Se i critici videoludici invece difficilmente consiglierebbero di videointeragire con un prodotto datato rispetto ad uno temporalmente più vicino al momento critico attuale è perché lo specifico dell’interattività, delle immagini in movimento, dell’intelligenza artificiale o dell’audio nei videogiochi diviene più coinvolgente con il migliorare della tecnologia che ne è alla base.
In altri termini, la tecnologia infrange lo status quo sul quale potrebbe definitivamente stabilirsi un’espressione artistica autoriale compiuta, con relativo disagio critico legato allo sforzo teso alla ricerca di principi estetici paradigmatici.

Tutto ciò comporta che le opere videoludiche nate in diversi punti temporali dell’evoluzione tecnologica tendono a primeggiare/sopprimersi secondo una selezione naturale il cui elemento selettivo viene inoculato dallo stesso progresso tecnologico, costringendo a proiettare nel tempo, sempre più in là, il definirsi di una data opera artistica compiuta, a scapito di eventuali principi estetici paradigmatici di analisi critica.
Domanda: Come possono stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati pensando alle opere videoludiche che tentano di svilupparsi continuamente, cercando di rincorrere una stabilità dei propri specifici quali ad esempio estetica digitale e interattività?
E ancora:
È legittimo quindi supporre che gli artefatti di un medium in continua evoluzione sappiano far storcere il naso al sistema critico non videoludico, al pensiero di dover istituire principi estetici paradigmatici basati sulla palese verità che il medium ludico video-interattivo non ha alcun pudore ad assimilare, digerire ed infine evacuare se stesso nel tempo?

Si torna quindi al punto iniziale: Potrebbero mai stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati quando il progresso tecnologico tende ad evolvere i paradigmi autoriali sui quali potrebbe definirsi una data espressione artistica compiuta?

La risposta ovvia potrebbe essere soltanto una, ed è naturalmente utopistica: solo quando la tecnologia applicata in ambito videoludico deciderà di arrestarsi, consolidandosi per sempre.
Sarà forse PlayStation 10? X-Box Infinity? Nintendo ForEver?
Qualunque essa potrebbe essere, dovrà risultare assimilabile a una mente, a un intelletto umano virtualmente (in entrambe le accezioni) scevro da inibizioni tecno-dipendenti da suscitare nel game designer l’idea (o l’illusione) d’aver specchiato totalmente, in un dato artefatto, la propria visione senza limiti di sorta.
Ciò che è possibile fantasticare è che con il progressivo aumento della potenza computazionale, disponendo in potenza di risorse di calcolo virtualmente infinite, di tool di sviluppo incontestabili nonché di un hardware non umanamente/totalmente sfruttabile/esauribile, potrebbero crearsi le premesse per una base espressiva completa, totale, libera, scevra da compromessi riguardo la visione autoriale e la sua relativa implementazione in ambito ludo-interattivo.
Accostando un tale mostruoso hardware alle infinite possibilità espressive della mente umana, finalmente liberata dal gioco del limite tecnologico, ciò permetterebbe a qualsiasi sistema critico di stabilire una tassonomia più sicura, stabile, istituzionalizzata, annoverando tranquillamente i videogiochi quali nuovi oggetti d’arte con i propri specifici stabiliti, per i quali l’inesistenza di limiti in grado di soddisfare qualsiasi visione umana risulterà un fattore base sulle quali instaurare tassonomie artistiche video-ludiche più sicure.

A quel punto probabilmente si ricomincerà a rivalutare, con rinnovata attenzione, il genio di molte passate opere videoludiche, ma non come è avvenuto per tanti quadri, musica o libri pionieristici che al loro tempo sono stati ripugnati dal sistema critico data l’avanguardia visionaria che essi rappresentavano, bensì come tentativi sperimentali in ambito elettronico di pseudo artisti tesi ad approcciare con le risorse disponibili per ottenere un risultato interattivo quantomeno compiuto, ma dietro il quale la visione autoriale è risultata sempre azzoppata, limitata.
Basti pensare che ciò che viene ben riaccolto e osannato dalla critica dopo anni di processi, di stroncatura e censura, come avviene appunto per quadri, libri o cinema, non accade invece per i videogiochi. A prescindere da quanto i critici di professione siano in grado di applicare “principi paradigmatici” nel valutare artisticamente un artefatto artistico, nel primo caso la visione del fruitore, attualizzata nel proprio contesto socio-politico, diviene “pronta” nell’inglobare e assimilare la visione preconizzatrice dell’autore, senza che questo venga minimamente sfiorato da una delegittimazione nella sua libertà visionaria.
I videogiochi recenti devono necessariamente essere fruiti al momento tecnologico attuale, performati da piattaforme presenti nel mercato, dietro un marketing asfissiante ad hoc, e facendo proprio dell’invasività del progresso tecnologico un motivo di distinzione, celando molto spesso, dietro tale progresso, la tendenza al mero aggiornamento di un prodotto secondo i gusti dei possessori delle piattaforme (I videogiochi sono servizi – possiedono un carattere artistico – sono un medium eccessivamente mainstream… Kojima) – riproponendo spesso visioni artistiche proposte solo pochi mesi prima, offrendo sì al fruitore un incremento qualitativo da assimilare, ma spesso solo e puramente sotto il profilo estetico.

Sino a quando l’arte video-interattiva dovrà esprimersi facendo i conti con i progressi della tekné, la scienza tecnologica (ignorando che questa parola esprimeva un tempo una prassi affine all’arte) senza trascenderla come invece la mente umana può artisticamente attuare su di un muro anche con una pezzetto di selce appuntita, il problema potrebbe continuare a sussistere.
L’aggiornamento tecnologico rende esteticamente vetusto ogni hardware/tavolozza di possibilità precedenti, pressando affinché siano spostati i principi estetici paradigmatici autoriali sempre un po’ più in là, con conseguente necessità di ridefinizione del medium, lasciando scoprire di volta in volta quanto asfissiata dalle risorse disponibili fosse la visione del game designer/artista della precedente generazione.
Dovrebbero essere gli stessi game-designer ad affermare dopo la pubblicazione delle proprie opere “Ecco, sono soddisfatto! Era esattamente quello che volevo realizzare, esteticamente e strutturalmente!", infischiandosene di quali possano essere al momento i giudizi estetici paradigmatici in voga o quanto la propria possa essere una espressione artistica compiuta.

Ma quale vero game-designer, in cuor suo, non si è mai rammaricato del fatto che, se solo avesse potuto aggiungere quel TOT in più avrebbe tentato di spostare la propria visione un po’ più in là?

23 ottobre 2006

Killer7. Ideologia di un graffio videoludico.

Killer7. L'ideologia di un graffio videoludico.
(di Luigi Marrone)
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Noi occidentali possiamo solo vagamente immaginare quanto l'opposizione America/Giappone e il conseguente sgancio della bomba H abbiano radicalmente compromesso le coscienze dei giapponesi. Similmente ad una ristrutturazione del Dna genetico o ad un innesto neuronale subcosciente in grado di irretire il sentimento storico del sol levante, il secondo conflitto mondiale ha ridisegnato irreparabilmente il sistema nervoso del Giappone, e l'oriente e i suoi figli contemporanei sono il risultato della vera operazione ground zero avvenuta nel 1945, una conseguenza "radioattiva" nell'accezione più ironica ed amara del termine.
Killer7 testimonia un riscatto doloroso, in quanto tratta di un riconoscimento, un tributo del Giappone all'iconografia del cinema americano moderno, il cinema di quella stessa America che ha messo in ginocchio il sol levante sessant'anni fa. Un attestato di congratulazioni combattuto e sofferto tanto quanto il dichiarato amore dei giapponesi per lo stile tarantiniano, così figlio d'America oggi.
E' su questa intima contraddizione che nasce l'impulso autoriale di una delle più importanti opere d'arte giapponesi nel mercato videoludico del 2005 : Killer7 é in bilico tra l'elogio e la dolorosa coscienza, tra ciò che viene riconosciuto quale tributo artistico e ciò che viene irreparabilmente ricordato. I grandi giochi d'autore quali ad esempio Metal Gear Solid e le sue tematiche della clonazione genetica e la corsa agli armamenti nucleari, Resident Evil 4 e la diffusione batteriologica tramite la figlia del Presidente quale atto d'umiliazione nei confronti dell'America (umiliazione abbastanza perniciosa, leggasi World Trade Center), rappresentano produzioni autoriali fra il compromesso commerciale legittimato da un certo cinema americano e il metabolismo segnato, compromesso, provato dai fatidici giorni di Hiroshima e Nagasaki (col pensiero eternamente rivolto allo sfuggire dall'egemonia capitalista americana).
Metal Gear Solid e Resident Evil 4 in misura minore, fanno dei film d'azione americani il presupposto linguistico per uno spettacolo video-ludico contemporaneo. Nelle FMV, nella rappresentazione spettacolarizzata dell'eroe, ogni cosa in loro è segno di visibilio e relativa puntualizzazione critico-sociale.
Ma mai nessun video-gioco si è spinto oltre come Killer7 dimostra nella sua fase finale : il testamento artistico di 3 uomini (Mikami/Soda/Kobayashi) capaci di rappresentare videoludicamente la massima espressione di indignazione (elegantissima, ma mai proferita esplicitamente) per quanto accaduto al Giappone sessanta anni fa. E al contempo mai si è visto in un videogioco un attacco cosi sagace alla struttura dei rapporti politici, economici e sociali della civiltà americana moderna. Killer7 è uno smacco orgoglioso e brillante, pernicioso e trasudante di virtù dal gusto provocatorio oggi cosi popolare. Un classico di oggi solo e soltanto per oggi, oltre Sin City, Spider-man e i Fantastici 4, oltre Le Iene, Pulp Fiction... Killer7 riesce a fare il verso anche ai Power Rangers, Megaloman e tutto il filone sui generis.
La sua iconografia è devastante, un inno al popolare moderno, avanguardia lessicale e strafottente dell'oggi, sintesi tagliente di un design virtuoso che lascia basiti per cura concettuale di dettagli, ampiezza sinestetica, profondità di tematiche e rappresentazione audiovisiva dal carattere cinematografico.
Gli elementi della percezione di massa ci sono tutti : interni di hotel, figure carismatiche e tenebrose, luoghi sbocciati dall'America messicana, Coney Island, New York, gli Heaven Smile istrionici e terrorizzanti quali simbologie terroristiche tanto care al pianeta di adesso, dell'ora attuale...
Resident Evil 4 è una costola meravigliosa, ma il vero corpo é Killer7. Se assimilando il primo é possibile avvertire tutte le influenze dettate da uno sviluppo comparativo e dalla giustificata osmosi avvenuta negli studi Capcom, é pur vero che la sontuosa magnificenza grafica, terrorizzante di Resident Evil 4 è altra cosa rispetto alla genialità sintetica ed effervescente di Killer7.
La colonna sonora poi : un frenetico fascino sensuale/visuale dark che spinege verso la Disco Dance sino al folk per tornare dalla chill out alla Classica sino al rock dei nostri giorni... visioni da ascoltare, suoni da vedere.
Oscurato dal nome di Resident Evil 4, dall'Hype, la fama, il determinismo storico videoludico biohazardiano, Killer7 paga l'onerosa pecca di non esser stato localizzato in italiano. Zero sottotitoli nella maggior parte delle FMV, l'inglese é l'unico appiglio per un gioco forse troppo violento da concedergli il beneficio della localizzazione italiana.
L'oneroso interrogativo da porsi é : perché Killer7 è stato localizzato solo in inglese senza nemmeno sottotitoli in lingua nostrana ? Un'opera della plurimilionaria Capcom, che nella fattispecie fa del proprio comparto narrativo non una prerogativa decorante bensì una scelta matura votata all'esposizione di specifici contenuti autoriali, come ha potuto deliberatamente inficiare il coinvolgimento del video-giocatore europeo che, per eventuale scarsa dimestichezza con l'idioma inglese non può esperire gli importanti contenuti narrativi ?
Si potrebbe chiamare in causa la difficoltà di localizzare il gioco in quanto la trasposizione avrebbe dovuto tener di conto dei difficili giochi di stile linguistici, con tutto il loro fervore evocativo, il loro smacco tagliente o altro. O magari addurre che i sottotitoli sarebbero risultati troppo esplicitamente densi e scurrili al punto da allontanare l'utenza (Ma il punto è proprio questo : che non localizzare Killer7 nei sottotitoli vuol dire inevitabilmente far storcere il muso all'utenza).
O magari esistono altre motivazioni più profonde, che hanno portato ad un simile risultato ?
La risposta purtroppo non può essere che una : Capcom non ha voluto investire nel localizzare un prodotto che avrebbe venduto pochissimo.
Tutto qua.
Killer7 resterà un'opera alla quale sarà ineluttabilmente associata l'etichetta "velleitario", ignorandone i contenuti in modo freddo e incosciente in virtù del solo gameplay. Si tratterà sempre di una definizione che verrà alle labbra di chi non avrà esperito significativamente l'universo allucinato dei 7Killer, una definizione per coloro che si affrancano dall'oliare di tanto in tanto il proprio l'inglese, o che preferiscono il privilegio di altri codici rispetto alla magnificente, cattiva, esplicita e potente introversione del quale l'universo Killer7 è permeato.

Su IGN.COM Killer7 é stato premiato quale Best Story e Best Adventure al Best game of the year 2005 - Game Cube.
Inoltre, una delle categorie delle quali é stato insignito é stata : Best game no-one played – miglior gioco che nessuno ha giocato.

Da Ign.com. (libera traduzione mia). Why It Rocked: "Sapete, avremmo potuto prevedere tutto questo la prima volta che abbiamo visto il direttore del gioco, Suda 51, in posa con una maschera da wrestiling messicana. Lo stile e la storia caotica e psichedelica di Killer 7 sono stati paragonati ai film sperimentali studenteschi, il ché non é una gran cosa se sei un publisher che spera di vendere parecchio software. Ma nonostante questo, coloro che hanno acquistato questa surreale esperienza della Capcom troveranno una gemma di avventura che é strana e bellissima per certi versi, come violenta e dark per altri. Le meccaniche di gameplay sono coinvolgenti e spesso divertenti, ma anche semplici senza necessità, il ché potrebbe aver fatto desistere potenziali acquirenti. I giocatori che lo hanno ignorato non sapranno mai la verità su Harman Smith e i suoi letali assassini, tanto meno conosceranno cosa si nasconde dietro gli Heaven's Smile, e commetteranno un vero peccato..."

3post3. *E.Self* Messaggio inoltrato.

22 ottobre 2006

Vivere Doom Ieri.Oggi.Domani.

DOOM NIGHT. Ovvero : Vivere Doom. Ieri. Oggi. Domani.
(di Luigi Marrone)
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Una bordata, una smodata e viscerale introspezione fra le intercapedini dell’universo DOOM, deflagrata in un corpus d’esplosioni a colori vividi, fra labirinti semi-psichedelici e strutture maniaco-centriche, sorrette dal rigore d’un design concettuale imperioso, ottuso, saccente, inebriante. Un coacervo d’effetti gutturali di trachee digitalizzate, carne e vibrazion
i in suono metallo, zampillate di pixel a 256 colori su schermo, schede VGA, SoundBlaster, mouse, monitor… il sound reload d’uno shotgun, BAAAAM ! mugugno di dolore di un Imp, sangue e viscere in grumi di poltiglie veraci in low-fi, fra corpi di cacodemoni ammassati, e sentire… in quel momento sentire… sentire la rivoluzione dei nervi, l’immersione inconscia in sintonia con le risonanze d’un fermento tecnologicamente passato, immemore del salto decennale : tutto questo quale privilegio di cultori d’arte videoludica passionale, geniale, che non morirà mai.
DOOM.
Imparare ciò che la Doomgestalt prepotentemente suggeriva/insegnava con abbracciante livore : l’esplorazione e la schiusa progressiva di spazi 3d crea emozione. Crea calore nel giocatore. Crea emozione e terrore. L’investitura del tempo in spazi 3dimensionali genera, produce e schiude ansia, immersione, empatia - Porte – pannelli – finestre – interruttori – scale – scatti – anfratti poligonali squadrati senza dolcezze di curve ammansite fra pulsazioni parietali fluorescenti e viscere texturali a rappresentazione d’un inferno di volti e corpi squartati, uncinati e aperti nel ventre di tessiture in cosmesi da trance ipnotico digitale -
BAAAAM !
DOOM
- rivoluzione pura del genere videoludico a dimensione 3, volontà di potenza e trucida incarnazione d’una estetica nominata Sparatore in Prima Persona, d’allora sino ad oggi FirstPersonShooter - FPS
Vale sempre la pena per le opere del genio lasciarvi la propria memoria nel tempo, ore che fluiscono via dinanzi un monitor - ore su ore a scriversi dentro la propria memoria - registrarsi la propria intima interattività nel momento in cui la storia sta macinando l’evoluzione più importante - quella di
g i o c a r e D O O M.
Giocare DOOM quando DOOM era rivoluzione concettuale-mediatica-estetica-sociale, fautrice di tecnologia in progresso : oltre l’engine grafico, in simbiosi con la Tri-dimensione, urlavano texture, le tessiture accese di DOOM, quegli infernali movimenti di screenshots al fluoro in cromatismi brillanti e intensi, liquiescenza digitale, fluorescenza da sogno in immagini spixellate forgiate nell’approssimazione di artworks sorretti da un codice perfetto, da un level design infingardo e MotherFuckerKickin’Ass figlio di puttana in armonia con la rigorosità artificiale di intelligenze algoritmiche…
John Carmack.
John Romero.
Ad ogni videogiocatore restano nella memoria i videogiochi del proprio tempo, esperienze videoludo interattive che lo hanno emozionato. DOOM nel 1994, dentro un PC, scriveva a fuoco la storia compromettendo qualcosa nella coscienza collettiva della comunità videoludica mondiale - esplosione magico-geniale capace di intridersi nell’anima con gretta violenza.
DOOM quale preveggenza, quale sfida al tempo, quale futuro ancor prima che il futuro avvenisse - bruciando i passi e la strada, schioccando elettricità nel videogiocatore.
Senza esperienza diretta nel passato, senza l’inconscio accordo con la stessa intensità di cambiamento, trasformazione, evoluzione e progressione non sono la stessa cosa, in quanto non si può conoscere lo schianto emotivo, ludico, corporale di chi ha anticipato il futuro.
Ma gli smottamenti geniali possiedono un impatto d’intensità differente rispetto all’aggiornamento tecno-ludico di un qualsiasi opera. E DOOM non tratta solo di un mutamento di prospettiva, definibile quale primo vero rinascimento del medium videointerattivo, bensì ristruttura l’apparato ludo-emotivo dell’utente, del videogiocatore, nonché del semplice osservatore d’una qualsiasi prassi videoludica DOOM.
In altri termini, chi assiste all’evoluzione della storia videoludica, gode di più.
Colui che assimila il presente quale dato già maturo, vibra di risonanza e riflesso, e sente meno.
Ma ricerca e riscoperta possono imbastire il senso del cambiamento.
Quando qualcuno ha pura passione.
Quando lo schianto é geniale.
Come ho sentito stanotte, nel rigiocare.

Nel rivivere...

21 ottobre 2006

*E l e c t r o n i c . S e l f*

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Quando il viaggio trasmigrante in realtà CyberSpazio
ingenera passione e suggestioni.
ALL SYSTEMS GO ! - in emozione e pura espressione.

E-SELF é
VideoLudoPensare.
VideoLudoCredere.
VideoLudoEmozionare.

Metafora di un
*Sé* Elettronico - in acqua silicio libero volare.

Quando passione.

Quando si vuole.
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Post n° 1
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Eself