29 novembre 2006

Jade Raymond, Beautiful People.

Jade, la bellissima dei Video(giochi)
(di Luigi Marrone)
__________________________
E' la più bellissima dei videogiochi. La più francese, la più affascinante. La sua morbidezza impareggiabile, la dolcezza sbarazzina dei suoi occhi come miele di castagno.
La Game Producer Jade Raymond si espone malgrado una Game Industry in cui sviluppatori e game designers raramente escono allo scoperto. Lei invece esce dal college con diploma di merito in Computer Science, ed il suo primo lavoro è programmatrice di giochi alla Sony. Fonda il dipartimento di ricerca e sviluppo per Sony Online, specializzandosi nel design e nella creazioni di giochi online, sino alla fortuna attuale.
Iniziando a lavorare in qualità di produttore presso Electronic Arts, diviene producer di The Sims Online, probabilmente uno dei giochi Online più importanti per EA.
Poi Jade passa a Ubisoft, a Montreal, città dove risiede.
Nonostante non sia scritto da nessuna parte, mi piace immaginare che é stato per l'occasione che Michel Ancel decide di chiamare Jade, in onore della splendida ragazza, la sua foto-reporter protagonista del videogioco Beyond Good & Evil (Ubisoft, 2004).
Ma il vero crack mediatico Jade lo ha compiuto nel 2003, alla Game Developer Award's Ceremony. In qualità di presentatrice e Co-ospite del produttore esecutivo di The Electric Playground, Victor Lucas, le viene per l'occasione chiesto di assumere il posto vacante di presentatrice. La sua bellezza, promossa dalla nuova visibilità mediatica, farà il giro di tutto il mondo.
Il risultato sino ad oggi? Tralasciando il fiorire di forum di fans per i quali Jade esprime la ragazza ideale del videogiocatore, bellissima e appassionata di videogames, Jade promuove la conoscenza di altri game designers e producers intervistandoli durante lo show, incensando una visibilità che al settore, escludendo i Big del Videogioco, é sempre mancata.
Iniziata da dietro le quinte, l’escalation di Jade Raymond é stata veloce e intensa come la comunità dell’entertainment videoludico non ha mai visto. E oltre al godersi la fama di essere un personaggio televisivo, Jade trova anche il tempo di fare ciò che più adora: creare videogiochi.
Attualmente al lavoro in qualità di producer per Assassin’s Creed della Ubisoft (PS3, XBOX360), Jade continua a brillare di luce propria. Essendo sempre la sua presenza mediatica un bel vedere, un dolcissimo video-assistere, la Jade della game industry può essere simbolicamente considerata una controparte soverchiante il femmineo in-game presente nelle attuali opere videoludiche pubblicate: Lara Croft, Samus Aran, Jill Valentine, Fiona Belli, la stessa Jade Di Beyond.
Non foss'altro perché Jade Raymond... ha una grafica migliore.

28 novembre 2006

Gears of War: Meccanismi di Saccheggio in Singolo Giocatore.

My Opinion
(di Luigi Marrone)
___________________________________________
Può raggiungere quota 150 euro su Ebay, forse anche oltre. Possiedo il board-game Space Crusade dal 1991, scatole miniature e tutto il resto attualmente riposti sopra un armadio, inviolati da anni.
Il disegno del comandante Marcus Fenix sulla cover del gioco mi ricordava troppo il comandante Space Marine sul package cartonato del gioco da tavolo, preludio sintomatico di un'analisi inevitabile. Prima del tuffo analitico é bene spendere 2 parole sull’estetica grafica di Gears of War, elemento d'impatto soverchiante qualsiasi giudizio, una vera occulta pianificata strategia i cui effetti sul gamer diventano una instupidente conseguenza.
Per un possessore di Xbox 360 è difficile oggi esimersi dall’incontro con il tanto strillato primo vero prodotto next-generation, come non ho potuto fare io, ad esempio.
Attualmente in fase di re-play in modalità Difficile dopo il primo giro con la “Casuale” (traduzione italiana dell’americano Casual), vuoi per aumentare gli Achievements Points, vuoi per trovare tutte le 30 piastrine Cog, vuoi per ficcarmi bene nell’anima gli ambienti grafici, Gears Of War si sta lasciando bellamente rigiocare poiché Gears Of War è IL gioco mass-market del momento, Gears of War è IL gioco On Line del momento, Gears of War è IL gioco cazzuto di oggi, nonostante Gears of War sia un metozzo di ibridi cliché che nulla aggiungono narrativamente/fantascientificamente/hollywoodianamente a quanto non si sia già potuto assistere in passato.
Suggestioni d’ambiente da Halo a Doom, Locuste al posto di Covenant e soldati COG (Coalition of Ordered Governments) detti Gears al posto dei marines spaziali della U.A.C, mentre Kojima afferma, non insensatamente, che i videogiochi sono pensati oggi come servizi, idee implementate come un servizio ai videogiocatori: servizi on-line, servizi multiplayer in co-op, servizi igienici… persino la calibrazione della difficoltà rientra nella categoria del servizio. In definitiva, i videogiochi mass-market oggi sono come servizi per l'entertainment, servizi per il divertimento forniti all’utente, che pur NON-chiedendoli esplicitamente se li ritrova, li ottiene dietro corrispettivo.
E’ davvero ciò che si vuole? La qualità dei prodotti videoludici deriva per buona percentuale dalla conseguenza dei mass-market generati dai videoplayers?
Questo non cambia le carte in tavola: in Gears of War si è già stra-visto tutto tutto tutto.
Ma é nella grafica next-gen e nelle meccaniche/gears di gioco che si respira la differenza dal resto del mondo. Cliff Bleszinski detto CliffyB, Lead Designer di Epic Games per Gears of War si ritrova così a giocare a softball sparando e riparandosi per non farsi colpire da colorate palline leggere, decidendo poi di riproporre la medesima sensazione di urgenza di fuoco e copertura in un videogame, implementandola perfettamente. L’apparato conseguente alla post Microsoft analisi del pop-market-appeal mondiale genera Gears of War, dove si finisce col nascondersi, ripararsi, attendere il momento per uscire e poi sbattere nuovamente la schiena al muro, di colonna in colonna, da divano a divano, capriolando a destra e sinistra per uno spettacolo all-action in HD mentre tutto intorno, durante i 5 atti che percorrono la storia, uno spettacolo visivo di scenari esterni ed interni pompano l’immersione virtuale ingenerando a pié sospinto l’idea di stare drogandosi di GenerazioneNuova.
E così l’urgenza action preme contro il tempo, non si ha la ICO calma giusta per ammirare il paesaggio intorno, Dominique, Cole e Beard reclamano pure-action e quindi c’è da avanzare, avanzare e avanzare dentro i 5 Atti dei Vangelo secondo i COG.
Ma dopo qualche giorno la sbronza grafica vola via, immancabilmente. E ci si accorge di quanto Gears of War sia narrativamente caratterizzato da quasi zero momenti memorabili. Tutto il comparto ludo-narrativo è corri/nasconditi/spara/aggira/corri, mentre l’in più fondante, l’anima truffaldina del videogiocare è mera spettacolarizzazione di un gameplay arcade. Sotto i riflettori ci si accorge che la chiave di volta del game design tratta della sinergia fra 2 elementi assoluti: impianto estetico in grado di generare pulsione galvanica al coinvolgimento sensoriale e appeal bellico rozzo, cazzuto e metal nerboruto, buono a creare la colonna portante di un perfetto ludo meccanismo algebrico, un Gear of Ludus.
Risultato? In Single Player, alle porte della nuova generazione, ci si può dunque permettere di tralasciare gli impreziosimenti ludici e narrativi grazie al sensuale contraltare della bellezza virtuale degli ambienti.
Gears of War é chiusura ed ermetismo, riparo tattico, ricarica attiva, fuoco!: war zones calcolate ad hoc, battlefields generati dentro congeniali scenari interni ed esterni totalmente obbligati a sfociare verso compartimenti bellici stagni ove a voler tentare il backtracking, superato uno dei tanti Punti di Sosta, ci si accorge che dove prima v’era l’apertura dalla quale si é passati si é ora materializzata una barricata d’assi legnose, porte ermetiche, mucchi gibbosi di rocce occlusive, mentre Gears Of War spintona a procedere, a falciare, a tralasciare obiezioni e appunti sino all’epilogo fra i Pezzo di Merda e i Vaffanculo e i dialoghi rudocazzuti dei soldati della coalizione immersi fino al collo in cliché narrativi, senza mai nessun kojimiano guizzo giocoso, senza nessuna cerebrale sorpresa, no Toyama alternative ending.
Gears of War si celebra chiuso, chiuso e chiuso.
Non prima che siano sfilati in passerella l’oscuro boss finale, il ragno gigante, lo scontro sul treno in corsa, la jeep corazzata per fuggire… essì, queste cosette oggi devono esserci perchéssì.
Si prosegue testardi e imperterriti all’ammazzo&go dentro ambienti grafico-stordenti, perché CliffyB ha viaggiato in Europa con lo sguardo apocalittico, CliffyB mentre era a Londra ha avuto visioni, “epifania” come le chiama lui, la Destroyed Beauty, la Bellezza Distrutta di CliffyB riproposta dappertutto, in varchi di una futura Europa in decadenza, dentro squarci di una Venezia bombardata, nel ventre di un salotto ottocentesco sfregiato dalla guerra, nei rosoni e nelle raggiere frantumate, gli archi e le volte, le cancellate… diomio, è l’Apocalisse.
Gears of War, decadenza di un’incredibile bellezza artistico-architettonica contestualizza ad un 3rd person shooter, ardore grafico che inebria e soggioga le ardenti e scafate comunità, malgrado chiunque potrebbe affermare che i ciechi Berserker sono versioni potenziate e pompate ma molto meno inquietanti dei Garradors di Resident Evil4, che Marcus Fenix spalanca la porta a calci come Leon Kennedy e che l’operatore di camera piazzatogli dietro dalla Epic Games utilizza la medesima inquadratura del cameramen Capcom appollaiato dietro lo stesso Leon…
Il lavoro di saccheggio e rimaneggiamento del cut&paste sconfina oltre il virtuale, la silhouette dei soldati della coalizione ricorda infatti la pesantezza e l’immaginario cazzuto delle miniature del gioco da tavolo Space Crusade (StarQuest in Italia, 1990, Hasbro International - distribuito da MBGiochi in collaborazione con Games WorkShop), così come nel videogioco derivato, prodotto dalla Gremlin Software che ne ha rilasciato una versione per Atari ST, Amiga, Spectrum ZX, Commodore 64 e Amstrad nel 1992, le armi dei Marines Spaziali che al tempo erano Cannone D’Assalto, LanciaRazzi, Fucile al Plasma, Bolter… in Gears Of War divengono Pistola Snub, Fucile d’Assalto Lancer, Fucile Gnasher, Granate e Martello dell’Alba (una sorta di pistola satellite-collegata in grado di sparare dall’alto un micidiale raggio laser).
Gears Of War é That’s America videoludico pout-pourri ultra rimasticato ove tralasciando appeal bellico e coperture pseudo-tattiche degli scenari é già stato detto tutto tutto tutto. Persino il droide astro-meccanico di nome Jack che viene in soccorso a dissaldare porte sa rispondere solo con beep sintetici rubati a C1-P8. E poi ancora risonatori da attivare per scaricare mappe di nascondigli nemici, scontro su treni in corsa, sentinelle anti-uomo come le meduse metallico-tentacolari di Matrix… tutto questo mentre il mondo impatta contro una stupefacente cosmesi, piena di strizzata d’occhi crassa e americana, post Halo e post Doom, costringendo in tal modo a farsi perdonare la manciata di mezz’orette per vederne la fine o l’aggiornamento di texture durante le FMV, eternamente dissimulando l’impietoso saccheggio nascosto dietro lo sbalordimento visivo.
Escludendo l’on line 4VS4, vero e proprio zucchero infinito, vien da pensare che il single player di Resident Evil4 sia necessariamente importante di più.
A mio Electronic Self parere, s’intende.

17 novembre 2006

Private I/O: l'educazione di ieri. Violenza HD del domani.

L'educazione e la cultura, prima della violenza.
(di Luigi Marrone)
______________________________________
INPUT.

E’ il 16 Novembre 2006, ore 3.39 am.
Sono reduce dal mio primo personale incontro con il videogioco in alta definizione e devo scriverne, devo confessare.
Un pannello LCD da 32 pollici giace da 3 mesi su di un mobile nella mia stanza, inviolato. Febbre d’offerta e febbre da gioco, il Samsung é entrato in casa mia in sordina, senza mai sfoggiarmi nulla di speciale: pochi DVD, qualche sporadico e curioso collegamento con le mie console X-Box, PS2 e GameCube, ma per il resto avrebbe continuato a restare inviolato, questa è la verità.
Il primo sforzo della nuova generazione qui nella Europa pre-Playstation3 si chiama XBOX 360, e alle 4 del mattino nel buio della mia Room sto richiamando alla mente il suono di ventole dal suo chassis latteo, il calore emanato dal retro della console, l'anello di luce rotante X-box che si stampa fluorescente su schermo all’avvio di sistema, i caratteri alfabetici di una Dashboard ultradefinita, fra le vivide immagini pubblicitarie del servizio Live.
Ma soprattutto é esploso come uno schianto silenzioso lo schiumare nitido e perfetto di colori in alta definizione, senza sbavature, aloni o immagini persistenti… una veemenza stordente, una rivoluzione dell'immagine ad evolvere la percezione videoludica umana.
Non me l'aspettavo davvero.
Impatto totalmente diverso dall’avvento del colore dopo anni di b/n, poiché di gran lunga una botta più stordente. L’alta definizione svela impudentemente quanto limitata fosse la possibilità d’immagine del vecchio TV Cathodic Ray Tube, quasi ad un certo punto si possa temere l'implosione dei bulbi oculari dopo l'ubriacatura di colori. XBOX360 continua a ronzare ad aria calda, pompa elettroavida di 250 watt dalla multipresa, si ritorna agli alimentatori old school, ai miei cari Commodore 64/Amiga, alla persistenza esterna dell'alimentazione come fa Nintendo… ma i cavi americani sono polposi e di calibro non indifferente, adatti a mani americane polpose da hot dog e hamburger, di calibro non indifferente.
Eppure X-360, mero tower case PC fatto console reclama sinuosità e slancio attraverso le morbide concavità fronte/retro: un vezzo alla sorella X-Box n°1.
Da malato di George Romero, per quanto il regista ci tenga a prenderne le distanze dal proprio Dawn of the Dead, giocare Dead Rising in HD mi ha lasciato intuire come potrebbe visualmente presentarsi il futuro dell’intrattenimento elettronico: Video-interagire con controparti digitali foto-reali, ambienti digitali con mimesi totale, avvolgenza di suoni ambientali per suggestive immersioni acustiche in cyberspazi videoludici.
In altri termini, in assenza di Hub, icone, punti o altro, l’evoluzione sarà l’approssimarsi sempre più al reale sino al completo inganno mimetico dell’artefatto videoludico. 100% Camouflage.
Giocare in HD mi ha permesso di formulare il seguente pensiero: se i detrattori e i veri demonizzatori dell’arte videoludica, ossia i generazionali ignoranti, temono in primis le conseguenze del VideogiocoChePareVero, il realismo visivo, il confondersi del piano reale con il virtuale et viceversa, c’è da rendersi conto che dopo il seme dell’Alta Definizione non si tornerà più indietro. Così come da Resident Evil4 non si torna più dietro. No way out da Silent Hill. No backtracking in Gran Theft Auto.
Ipse dixit, giocheremo con controparti digitali foto-reali, ambienti digitali con mimesi totale, avvolgenza di suoni ambientali per coinvolgenti immersioni acustiche nel cyberspazio videoludico.
E’ questa la voglia di futuro, da sempre.
La lesiva simulazione infantile o tardo-adolescenziale di atteggiamenti videoludo-derivati, se fosse anche minimamente vera, dovrebbe bandire Nintendo Wii dal mondo immantinente. La demo di Red Steel lascia intendere che Nunchaku e Wii-remote vanno utilizzati, all'occorrenza, stilizzando i movimenti di una spada per ledere, non per carezzare.
E’ addestramento virtuale per futuri baby-samurai?
Qualcuno farà a fette qualcuno a causa di Red Steel?
Stop.
Ora si profila una nuova minaccia all’orizzonte chiamata violenza psicologica adolescenziale, ossia gratuita ed ingiustificata introduzione della violenza psichica dentro la serenità a-drammatica della vita adolescenziale. Il videogioco può sconvolgere gli equilibri omeostatici nella normale educazione ricevuta da un tardo infante sino a soggiogarlo alla diseducazione morale: alcuni videogiochi rappresentano la volontà degli adulti di contaminare l'innocenza, la genuinità e l'ingenuità dei bambini, per cui zero tolleranza, inizia l'inquisizione, ci si sveglia e si denuncia.
Nel momento in cui scrivo esiste la demonizzazione di un game chiamato Rule of Rose, game ormai da mesi attestato dalle comunità critiche quale prodotto dal profondo insapore videoludico ma che in questi giorni, grazie all’ottuso giornalismo di una ottusa analisi qualunquista di Panorama sta mobilitando anche il Senato italiano in piena crisi ideologica di fronte alla violenza criminale dopo i numeri di Napoli.
La verità é che la questione Rule of Rose rischia di snervare la mia più bella nonché privata passione: quella dell’integrità per l'intimità videoludica, in qualsiasi luogo essa si possa e voglia manifestare.
Private BackTracking.
_________________
Da bimbo, a dieci anni di distanza dell’esplosione del mass-marketing videoludico, i miei genitori, senza invadente invadenza, sapevano come essere presenti in tutti i miei acquisti ludici. E’ stato mio padre a riportare a casa una vecchia imitazione dell'Atari, comprensiva di Pong, senza ch'io avessi chiesto nulla.
Era il 1983 se ben ricordo.
Ma ciò che più fortemente ricordo è che sino a 13 anni sono andato a letto ogni sera alle 22.15, limite orario incontestabile. Ero costretto a video-registrare tutto ciò che ritenevo interessante in TV in quanto i film iniziavano tutti alle 20.30 e terminavano alle 22.30, e salvo alcune rare eccezioni quali Terminator e Robocop, proiettati rispettivamente nel 1987 e nel 1990 e per i quali io e mio fratello dovemmo letteralmente supplicare nostro padre con una settimana di anticipo, in realtà ricordo una folta sequela di film troncati senza mezzi termini a poco meno di 15 minuti dalla fine: The Untouchables, Mad Max, Platoon, Chi è Remo Williams, Ritorno al Futuro, Rambo II, The Running Man…
Ad aumentare il supplizio era che il giorno successivo, durante scuola (elementare soprattutto), i miei compagni di classe, maschi e femmine indistintamente, parlavano del film visto la sera prima, mentre io dovevo tapparmi le orecchie per non ascoltare ciò che nel pomeriggio avrei visionato in videocassetta.
Quei quindici minuti di film ancora da vedere erano preziosi e assolutamente non negoziabili.
Sono trascorsi 20 anni e adesso mi ritrovo alle 4 del mattino, libero di riflettere sul problema, ad utilizzare il blog in modo non proprio impersonale, e ciò che davvero penso è che se davvero oggi manca di peso questa cultura del controllo, con tutta probabilità le motivazioni sarebbero da rintracciarsi nella mancanza di super-visione parentale dei genitori sull’orientamento ludico dei propri figli in adolescenza, nonché nella mancanza dell’informazione trasversale che ad esempio lo strumento internet offre in alternativa alla informazione televisiva.
Le censure videoludiche, l’abolizione della distribuzione, il ritiro dal mercato di prodotti meritori di essere considerati oltraggiosi possono annichilire l’Arte Videoludica a scapito di chi ne sa fruire con competenza. E' questo che va contrastato. Perché sinceramente il mondo non virtuale non subisce alcuna evoluzione spirituale con Grand theft Auto o con Bully, ma nessuno ha mai messo al bando i film di Tinto Brass o quelli di Tarantino che potrebbero incidersi in modo psichicamente violento, compromettendo la sanità di un adolescente.
Il mio parere è che l’educazione vada avanzata in primis dalla famiglia e dalle strutture didattiche, senza che il timore del videogioco corrisponda in ultima analisi alla sentita inadeguatezza nel non saper educare in modo intelligente i propri figli. Non esiste infatti cosa più facile che demonizzare il mondo cercandone il marcio per non puntare l’attenzione sulla propria inadeguatezza a scalfirlo, fosse anche attraverso il proprio figlio, generazione e appendice del proprio sé.
Il videogioco non può e non ha il potere di contaminare a tal punto la psiche, così come non lo ha un film o una rivista pornografica quando vi sono authority del controllo che ne limitano la distribuzione per fasce d’età.
Il videogioco non è condizionamento o controllo del pensiero. Ma la velocità e la mole di informazioni mediatiche dei nostri giorni pretendono una assimilazione cognitiva che viaggi di pari passo con la capacità di assorbirne le tecnologie, ma che non risulti aliena o intellettualmente refrattaria per gli adolescenti, tutt’altro.
A 8 anni passavo ore a programmare il mio Commodore Vic 20. Sapevo generare programmi musicali, piccoli database comprensivi di schede con i dati della mia famiglia, cose di questo genere. Ricordo che volevo creare una azienda software chiamata CompuData, International Computers. Io e mio padre, un giorno assieme in casa, entrambi storditi dal morbillo, ce la ridevamo mentre lui dettava e io digitavo le linee di Zombie sul mio Commodore Vic20, un videogioco pubblicato su di un manuale zeppo di programmi amatoriali, tutti da digitare per l'appunto.
Il Videogioco non era un granché, ma il Private creatosi in soggiorno con mio padre, io 9 e lui 36 lo ricordo ancora oggi come qualcosa di grandioso. Perché il computer era la mia passione, e dalla dimensione intima in quel momento si trasformava in un momento educativo, di scambio tra padre a figlio, momento di appassionata, affettiva condivisione.
Non ero solo con la mia passione.
Il momento di passione ludica condivisa potrebbe risentire di plurime divergenze oggi. La mancanza di competenza e cultura tecnologica/videoludica, che potrebbe tornare utile ad un educatore come lo può essere per un genitore, è scarsa in ambito familiare, in ambito collettivo e addirittura politico. Si demonizza Bully o Grand Theft Auto che invero gira per mesi su tutte le Playstation2 in prova in un Auchan, ma si soprassiede ridendo se personalmente non si é in grado di inviare una mail On the Net.
I bambini sanno che il Videogioco tratta di finzione, ed è per questo che il videogioco diverte. I miei giocattoli preferiti erano i Lego in quanto mi permettevano di simulare il reale con mio fratello, rappresentavano una forma ridotta di Sims reale, in Multiplayer, e possiedo ancora, impolverata su di un armadio, una busta con tutti i manuali e i mattoncini che formano La stazione ferroviaria, l’Ospedale, la Polizia, i Pompieri, il Maneggio, la Stazione di Servizio, il Cottage privato… ma soprattutto possiedo il ricordo di Nonna Margherita che ci allunga i soldi fuori dal negozio per il nostro regalo di Natale, permettendoci in tal modo di annoverare l’Aeroporto in città, vera e propria meta irragiungibile per noi.
Non c’era nulla di male nelle ore che avremmo dedicato a giocare.
Ma Nonna non mi avrebbe dato nulla per acquistare un film di Tinto Brass: la diseducazione era esplicita, chiunque osservando la copertina avrebbe intuito di cosa trattasse.
Oggi invece soldi si allungano per i videogiochi perché é questo che i bimbi riconoscono come divertimento. Ma quanti genitori non strettamente interessati all’ambito videoludico fanno i più elementari sforzi per reperire una gratuita recensione on-line e leggere quale immonda schifezza sia Rule of Rose, comunicando poi con il proprio figlio, ipoteticamente interessato al prodotto, per motivargli il non acquisto con un minimo di senso?
Quanti politici lo fanno con i propri figli?
Quanti educatori?
Crediamo forse che i bambini o gli adolescenti siano degli idioti? Che il videogioco sia un mostro che magicamente possa far crollare anni di rapporto educativo con i propri figli?
E' semplicemente pretestuoso.
La maggior parte del mondo non avrebbe acquistato Rule of Rose comunque.
Ma eventuali restrizioni applicate in ambito di distribuzione videoludica in Italia, di censura o di qualsivoglia menomazione dell’integrità artistica di un prodotto a causa di Rule of Rose, sarebbero inaccettabili.
Per quanto riguarda me e per chi crede all'esistenza di una cultura del videogioco, tutto questo é inaccettabile.
L’integrità della propria passione videoludica, essendo espressione di cultura, va preservata globalmente.
______________________________________
OUTPUT

7 novembre 2006

Leon.S.Kennedy : le implicazioni del Bello in Resident Evil 4

Leon.S.Kennedy: le implicazioni del Bello in Resident Evil 4
(di Luigi Marrone)
_________________________________________









Queste, non sono le stesse persone.
Eppure hanno lo stesso nome. Ma non una voce a soffermarsi per sollevare un’oncia di constatazione, una parola, un straniamento o una giustificata obiezione.
Si gioca e basta, questo conta.
Ma se Rocky IV lo avesse interpretato Nicolas Cage, quanto pubblico appeal avrebbe perso/acquistato Balboa rispetto a prima?
Nei videogiochi é diverso. I protagonisti mutano faccia e fisico nel tempo, a braccetto con la definizione grafica. A braccetto con l'action hollywoodiano che avranno da affrontare.
Link di Zelda Twilight Princess ha ora un volto digitale foto-reale. Solid Snake. Samus Aran. Lara Croft. James Sunderland. Sam Fisher. Mario.
Anche Leon Scott Kennedy ora non potrà fare più marcia indietro. In ambito videoludico, una volta definito realisticamente un volto, non si apportano modifiche.
Da come si evince, Il character protagonista di Resident Evil 2 e 4, é somaticamente cambiato nel tempo: volto completamente rinnovato, non più emaciato/sbarazzino/adolescente/scavato tossico…
Questo é quanto accaduto a Leon S. Kennedy dopo 6 anni.
Tali cambiamenti formali/sostanziali, così evidenti, vanno giustificati.
Sarebbe interessante analizzare la scelta estetica digitale Capcom secondo questo punto di vista interrogativo, ossia:
cosa avranno mai da dirsi Schifo e Bellezza in Resident Evil4? Cosa da scambiarsi Aberrazione e Candore?
La Risposta potrebbe essere quella di creare una chimica atta a confrontarsi e superarsi vicendevolmente.
RETROFLASH in POETRY.
Così, ad un tratto chiedersi, ossessivamente chiedersi a cosa serve, dove conduce, di quale utilità sia il piacere perverso per il disfacimento - visualizzato ed esperito negli occhi - occhi contagiati alla vista del sangue… chiedersi da dove nasca la nervosa pulsione che conduce alla ricerca di malattie - “ Carne che non conosce dolore. Una forza ben superiore alle capacità umane… Qualcosa nei loro occhi. In mezzo alla loro follia sono riuscito a scorgere un barlume d’umanità “

Quel pallore anemico dell’Avatar – l’affiorare di capillari su liscia pelle nitida, sottile, bianco malata – orbite rosee alonate, iniettate, che lasciano emergere puri occhi di fredda malattia, occhi ormai compromessi al contatto con aberrazioni, decomposizioni, carni genetiche alterate e stomachevoli putrefazioni… L’avatar Leon Kennedy non é customizzabile in quanto incontro supremo e romantico fra bellezza e decomposizione, prodotto dell’iper suscettibilità al putrido - alla morte e alla visione di vermi, allo sporco disfacimento, merda e ruggine e sangue e siero e bava frammista all’istintiva violenza disumana - rantolii alitosi e rivoltante puzzo di un de-criogenizzato Regenerador, agghiacciante mutante.

AGAIN.
La contaminazione della bellezza è dramma, molto più di quanto si possa immaginare. Le morti connaturate al primo Resident Evil erano veemenza contro un Avatar videoludicamente distinto dalla controparte in FMV, dai filmati con attori in carne ed ossa, distanti dal gamer.
Leon S. Kennedy del Resident Evil 4 si presenta alle stampe attraverso la sua controparte digitale, che risulta una e trina : promozionale, FMV e in game.

Indice di qualcosa.

Le morti colpiscono ancora più fortemente. Sono dramma di Game Over indimenticabili. Adoro le morti di Resident evil 4 in quanto sputo in faccia all'invulnerabilità indolente e hollywoodiana dell'Eroe protagonista. Sequenze action drammaticamente spezzate. E' questo il videogioco che mai sarà permesso al cinema.
Io posso veder morire l'Eroe.
Perché non ci sono più Super-Eroi.
In Resident Evil 4 si muore male.

RETROFLASH in POETRY n° 2
Nel momento in cui lo si sente urlare, lamentarsi, inforcato da Ganados, strozzato, assalito dalle motoseghe del Dr.Salvador e le Sorelle Bella, sbalestrato da El Gigante, schizzato in viso dal rigurgito d’acido dei Novistadors, penetrato da frecce o schegge dinamite e grumi/proiettili di rocce, rozzamente decapitato… i suoi gemiti, il sangue dappertutto dopo il passaggio dei laser fra le sue carni… il morso terrificante di un Regenerador, denti aghi a lacerare tessuti.
Dopo il dolore s’avverte qualcosa d’assimilabile all’assenza di speranza. La cruenza di scene di morte in Resident Evil 4 conducono al pensiero che il Tempo degli Eroi è ormai tramontato.
La violenza della morte é il capolinea delle speranze.

" Ma d’un tratto, nonostante i fervidi esempi degli sviluppi dello scempio, sappi che in ogni luogo e in ogni momento, potrei ricordarmi di intuire la nostra Bellezza “








E’ il momento in cui il suo candore diviene svolta messianica, il momento in cui pulsa lo splendore indolente d’una luce candidamente tonitruante : l’evidenza della Bellezza.
L’incontro supremo e grottesco, drammatico e idiosincratico fra bellezza e decomposizione imbastisce speranza nel videogiocatore, allontanando la repulsione verso il simulacro Leon Kennedy e personalizzando il coinvolgimento emotivo.
Scelta del design significante, significativa, operativa nel manipolare/polarizzare dinamiche di gusto più sottili, particolari.
Resident Evil 4 è mainstream, ma gioca alla perfezione con i cliché Hollywoodiani, a creare una ingegnosa chimica dialogica tra orrore e coraggio, tra deforme e simmetria.

RETROFLASH IN POETRY n°3
Da feritoie dentro cascine alle finestre ottocentesche spalancate al plenilunio, odore di muffe, vasche di vermi e legname marcescente di un Pueblo - alle architetture minuziose del castello di Salazar, esse vengono a redimere dappertutto : argani di luce improvvisi fendono l’aria greve e stantia, radiandosi in aloni mesmerici - spandendosi come amebe nell’odore di polvere e carne. Un anelito inconscio di redenzione, sub-liminale, apre improvvisamente uno spazio dentro : la luce è persistenza che ridona vigore, slancio di speranza nello schifo perverso.
Come la bellezza.


Il connubio è compiuto. Il perfetto e fatale meccanismo sa come celebrare l’insperato consenso del coraggio : la luce è Bellezza, la Bellezza è Luce : Armonia irresistibile e irretimento inevitabile, per chiunque e sempre. Di concerto alla decadenza dell’eroe, il connubio detiene la speranza di redimere gli scempi del corpo e della carne. Una Full Motion Video prende piede, autonomia d’una sequenza programmata, ci si accorge che nella malattia Egli è il messianico eroe nel marcio in quanto Bellezza efebica nello schifo più puro.

E mediante la Bellezza, l’autore modello sente il perverso coraggio di non impazzire.

Equilibrio ed armonia delle forme sanno magicamente contrastare le mostruose asimmetrie delle aberrazioni della carne, per loro forza intrinseca, autonoma, benedetta, cosi come invece sono maledette da un male residente le mutazioni post-plagas. Benedizione e maledizione, perfette presenze sincroniche/diacronoche in Resident Evil 4.
La potenza di calcolo poligonale permette fotorealistiche aberrazioni. Dopo il post processing del rendering i GameDesigner lo realizzano, sussultano anche loro.
E’ troppo. La violenza è devastante.
Il character design gioca un ruolo psicologico fondamentale: in bilico antitetico fra armonico e non divene sfida buona a risollevare il morboso dal perverso. Il gioco sottile funziona. Gli elementi magnetizzano gli occhi e l'interesse persuasivo, attirando al brand chi proietta il proprio sé per identificarsi con l’Avatar bellissimo.
Nello schifo, l’Avatar Leon S. Kennedy risplende come diadema, presenza perfetta/contaminabile, armoniosa nella totale disarmonia del disfacimento.
Un circuito funzionante fra video-giocatore e malato vedere è innestato : auto-alimentazione. Nascono Fan-zine su Leon Kennedy, su Ada Wong - i Gamers non possono fare a meno di scivolare nel meccanismo fatale.
Nessuno sfugge alle implicazioni del bello.
Leon Scott Kennedy, da insulsa crisalide, diviene farfalla narcisa.

Piangono i detrattori della grafica bellezza.

1 novembre 2006

Brainstorm. Per una mistica del Videogiocare.

Brainstorm. Per una mistica del Videogiocare.
(di Luigi Marrone)
Saggio pubblicato su www.videoludica.com il 02.11.2006
Canale Cinema TechnoLudico
___________________________________

Brainstorm – Generazione Elettronica

Titolo originale : Brainstorm
Regia: Douglas Trumbull
Storia : Bruce Joel Rubin

Sceneggiatura : Philip Frank Messina, Robert Stitzel
Fotografia : Richard Yurichich
Costumi : Donfeld W.
Scenografia : John Shore

Musiche : James Horner
Montaggio : Freeman a. Davies Cox, Edward a. Warschilka Shore
Anno : 1981 (USA)
Nazione : Stati Uniti
Produzione : Joel Freedman per JF Production/MGM
Distribuzione : Metro Goldwin Mayer/UA (1984)

Durata : 106 min.
Effetti : Eric Keogh, Martin Shore, Tom Atkinson, Robert Atkinson, Don Baker, Robert Hall, Mark Shore, Alison Atkinson

Cast : Christopher Walken (Dr. Michael Brace) - Natalie Wood (Karen Brace) - Louise Fletcher (Dr. Lillian Reynolds) - Cliff Robertson (Alex Terson) - Jordan Cristopher (Gordy Forbes) - Donald Hotton (Landan Marks) - Alan Fudge (Robert Jenkins) - Joe Dorsey (Hal Abramson) - Bill Morey (James Zimbach) - Jason Lively (Chris Brace) - Darrell Larson (Tecnico Sicurezza) - Stacey Kuhne Adams (Andrea) – John Hugh (Tecnico lab. animali) Keith Colbert (Dr. Ted Harris) - Jerry Bennett (Janet Bock) - Lou Walker (Cuoco).
____________________________________

Brainstorm è un film importante.
Esteticamente e strutturalmente non un bel film forse, ma è un film importante.
Dedicato alla scomparsa dell’attrice Natalie Wood (Gioventù Bruciata – 1955, Sentieri Selvaggi 1956, West Side Story – 1961) avvenuta poco prima del termine delle riprese, Brainstorm (USA 1981 – di Douglas Trumbull) ha una portata visionaria e una particolare importanza filosofica che a tutt’oggi risultano ineguagliate.
Da un punto strettamente stilistico il film annovera diversi elementi cari all’immaginario Cyberpunk : grafica poligonale segnata da suggestioni cyberspaziali, condizionamento cerebrale, sesso virtuale, sim-stim, hacking e tanto di governo e servizi segreti ad intridersi in meccanismi sociali non del tutto pacifici, regalando in tal modo allo spettatore del 1981 suggestioni totalmente (o quasi) inedite, molto diverse da quelle descritte dalla fantascienza tradizionale.
Sarà forse che l’accostarsi e il rapportarsi a Brainstorm era alquanto difficile nel 1981 per la mancanza di categorie e strumenti cognitivi atti a penetrare il tessuto fertile del suo immaginario, eppure non stupisce affatto che la pellicola all'epoca sia stata accolta tiepidamente nonché poco compresa. (Nota 1)
Se i primi 20 minuti di film sono ricchi di personalità, di pathos e di fascino elettronico-ansiogeno, montaggio e appeal visionario perdono palesemente colpi col passare del tempo, rallentando di molto l’attenzione dello spettatore. Sul teleschermo inoltre, gli effetti speciali realizzati dal regista per una pellicola di 70 mm per il grande schermo sono in gran parte vanificati.
Da un punto di vista retrospettivo il film appare quale primo vero antesignano "consapevole" dei cyber-cinema, vero e proprio rivelatore e anticipatore di idee sulle quali si reggeranno numerose opere a seguire (Tron, Fino alla fine dei mondo, WarGames, Strange Days, Il Tagliaerbe, ecc).

Ma perché Brainstorm è così importante ?
In Brainstorm alcuni ricercatori realizzano un casco iper-tecnologico che permette di immergere sensorialmente un individuo nei dati psico-fisici percepiti in tempo reale o registrati precedentemente da un altro soggetto (munito di casco a sua volta), uomo o animale che sia. Tatto, sapore, vista, odore, udito, impulsi nervosi, sensazioni… la mente del soggetto ricevente tramuta il playback di dati registrati in dati propri, creando un vero e proprio circuito di feedback simulativo con immersività al 100%, ben oltre qualsiasi manifestazione telepatica.
Diversamente dai videogiochi, non è possibile influire sul playback in quanto non esiste alcun tipo di interazione ma solo la possibilità di rivivere l’esperienza sensoriale pre-registrata, con aderenza totale. Brainstorm lascia intendere che una simile applicazione in ambito didattico, nonché per edificanti esperienze virtuali, potrebbe eventualmente trovare brillanti utilizzi.
Ma oltre all’interesse del governo e dei servizi segreti militari pronti a sfruttare per scopi bellici la portata del ritrovato tecnologico, prima di estromettere i ricercatori dal continuare gli studi, questi scoprono che il casco può registrare i ricordi coscienti nonché l’inconscio di chi lo indossa, contemplando persino le affezioni patologiche (come si scoprirà quando il ritrovato tecnologico cadrà in mano all’equipe di ricerca dei servizi segreti) : rimozioni, traumi, ossessioni, psicosi, schizofrenia… in altri termini, é possibile registrare cavie umane inducendo loro il manifestarsi di sintomi patologici per vivere direttamente il loro punto di vista sensoriale, visionario, emotivo e psicofisico.
Prima del consolidarsi del dispotismo governativo, Lillian Reynolds (Louise Fletcher), scienziata chiave del progetto, accanita fumatrice e donna dalla facile irascibilità, è vittima di un attacco di cuore nel suo laboratorio, mentre sta lavorando sola, di notte, all’ottimizzazione del progetto.
Prima di morire, durante una scena altamente drammatica, Lillian riesce a trascinarsi sino alla postazione di registrazione del collega Michael Brace (Cristopher Walken), indossare il casco (nel frattempo miniaturizzato sino alle dimensioni di una fascia per capelli) e registrarsi su di un nastro magnetico a lettura ottica.(Nota 2)
Il nastro registra quindi la sua agonia e la sua morte sino a “fine pellicola”.
La visione di questo nastro, vero e proprio testamento spirituale della ricercatrice, dapprima suscita nel collega Michael attimi drammatici in quanto gli ripropone psicofisicamente l’insufficienza cardiaca e l’agonia degli ultimi momenti di vita della scienziata. Successivamente, apportando dovute modifiche all’hardware del sistema e inibendo gli impulsi sensoriali deleteri lasciando solo quelli visivi e uditivi, il nastro/testamento permette al Dr.Brace di viaggiare e assistere al passato e ai ricordi della donna, sbrogliando la matassa di rapporti nodosi del film e valorizzando retrospettivamente la ricercatrice quale figura chiave dell’intera ricerca (con tutte le dovute opposizioni umane da lei incontrate per attuarla).
Ma ben più importante è il miracolo memorizzato dal progetto Brainstorm : il nastro ha difatti registrato un vero e proprio viaggio post-mortem della donna, comprensivo del distacco dello spirito dal suo corpo e trasmigrazione spirituale di presunta espiazione che dall’Inferno conduce alla visione del Paradiso.
Il Dr. Brace, interrotto bruscamente all’inizio dall’esperienza sensoriale mistica, farà di tutto per recuperare e visionare completamente il nastro, soprattutto dopo esser stato tagliato fuori dalle ricerche.
Negli ultimi minuti di film, Michael Brace vivrà questo viaggio trasmigrante dello spirito della Dr.ssa Reynolds sospeso in una estasi sensoriale psico-mistica ed uscendone infine spiritualmente e definitivamente illuminato.
Brainstorm (in Italia Brainstorm – Generazione Elettronica), pur annoverando elementi cari all’universo Cyberpunk, è un film che viaggia oltre il genere, in primis perché la tecnologia diviene espediente, non l’ideologia : la funzionalità dell’helmet realizzato dai ricercatori si trasforma infine in un miracoloso supporto tecno/mistico per la Visione Ultima, ben lungi dal rappresentare un palliativo per una seducente poetica pessimista ed esistenzialista.
La tensione congenita all’universo Cyberpunk, letterario o cinematografico che sia, il quale in genere ipotizza società dove il pessimismo filosofico/esistenziale viene solitamente a specchiarsi nella convivenza con androidi i quali, similmente agli uomini, non hanno alcuna certezza delle proprie origini e del loro futuro (malgrado il loro determinismo tecnologico), in Brainstorm viene definitivamente risolta.
Dio esiste.
Dio c’é.
Lo Spirito può disincarnarsi dal corpo per trascendere la materia.
Inferno e Paradiso sono ambienti spiritualmente palpabili.
E Last but not least, Brainstorm avanza l’ipotesi che mediante scienza e ricerca tecnologica è possibile trascendere il mondo materiale sino alla visione del Divino.

Ma per altri aspetti determinanti, Brainstorm è un film filosoficamente importante da un punto di vista strettamente video-ludico.
A proposito dello stato di trance del videogiocatore immerso in una esperienza virtuale, Ivan Fulco scrive ne Lo zero ludico – Decostruzione del videogioco e fondamenti della pulsione ludica (Per una cultura dei Videogames. Teorie e prassi del videogiocare. A cura di Matteo Bittanti. Unicopli. 2002/2004) – (parentesi e corsivi miei) :
Quello che conta è che in quel momento, dopo la decisione di proseguire (nel videogioco), il giocatore è quasi felice. Per un breve istante può anche credere di vincere nel gioco della vita. Almeno fino a rendersi conto che non si tratta altro che di un videogame “.
Rielaborando il pensiero di Fulco in modo polisemico e speculativo, ci si chiede :
E se questa felicità in ultima analisi non fosse altro che il sintomatico e inconsapevole esplicitarsi di una pulsione mistica appartenente a tutti i fruitori di realtà virtuali, videogiocatori compresi, ossia quella di raggiungere una ideale la fonte di energia del Tutto ?
E ancora : E se questa complice e inconsapevole pulsione insita in ogni gamers fosse assimilabile all’esperienza panica legata alla possibilità di incontrare il Divino ?
La forma mentis del videogiocatore attento alle vibrazioni del mondo videoludico tende a sensibilizzarsi osmoticamente con l’universo d’informazioni che lo circonda. Le riviste di settore hanno la tendenza e il potere di strutturare l’apparato filosofico e per certi versi metafisico del lettore.
In Videogiochi e Cultura della Simulazione. La Nascita dell’Homo Game. (Editori La Terza Ed.2004), Gianfranco Pecchinenda, nel paragrafo 5.2 denominato Corrispondenze, scrive (testo fra parentesi mio) :
Se però si analizza la struttura della maggior parte delle riviste (che trattano temi videoludici) è possibile notare quello che probabilmente rappresenta uno dei motivi principali che si trova alla base della crescente espansione del mercato dei videogiochi : il meccanismo della corrispondenza, basato sull’idea che il mondo in cui viviamo, e gli eventi mondani che in esso si verificano, non sarebbero altro che una manifestazione inferiore corrispondente ad un macrocosmo di ordine superiore, di carattere trascendente”.
I videogiochi e il loro universo virtuale interessano, blandiscono, ammaliano il videogiocatore, ingenerando l’idea di rimandare ad un altro mondo dal carattere trascendente.
La fascinazione di alcune produzioni rientranti nel genere survival horror (solitamente giocati in single player, muniti di cuffia audio e favore complice della notte) quali ad esempio la serie Silent Hill (Konami, 1999) e Forbidden Siren (2004, SCEI) per citarne alcune, ingenerano un interesse filosofico/speculativo per l’esistenza nonché per le tematiche orfiche dell’esistere molto più lungimirante di quanto si possa immaginare. La ricerca di simbolismi testuali e non, le analisi di carattere antropologico/teologico/culturale nonché l’interpretazione metafisica dei comparti ludonarrativi, differenti per ogni videogiocatore, sono eventi naturalmente generati dal genere di appartenenza. Forum di esegesi per tali artefatti, assieme ad altre produzioni videoludiche fortemente autoriali ma per motivi estremamente differenti, sono spesso annoverabili, in ambito videoludico, quali i più lunghi e prolifici testi speculativi on the net, nella quale le trattazioni rilasciate dagli utenti possono assumere una tale forza autoriale autonoma da annoverarsi quale vera e propria trattazione culturale di interesse generale per tematiche vertenti su Aldilà, Religione e Divinità.
I videogiocatori affrontano tali esperienze con una predisposizione mistica o pseudo-mistica, secondo la quale viene incosciamente postulata la realtà del divino e per la quale lo spirito del gamer sente di conquistare una possibile risoluzione del sé o dell’esistere in generale.
Tale tensione verso il trascendente è un fattore di primo piano per l’acquisto di un prodotto di tale genere, di concerto con la possibilità di trattarne e discuterne poi le suggestoni in una comunity con i medesimi interessi e le stesse pulsioni : quelle di affrontare viaggi nei quali esiste la possibilità videoludica di dare un senso all’esistere, di tentare una spiegazione alla cosmo-genesi o di interpretare i rapporti fra Uomo e Divinità.
E’ lecito quindi supporre che tale fascinazione genera un alto coinvolgimento e senso di partecipazione al gioco in quanto inconsciamente frammista al timore panico, esasperato dallo schianto emotivo con il deforme e l’aberrazione presenti nei survival horror, di imbattersi nel Divino.
Tornando a trattare del film di Trumbull, se la tecnologia rende possibili spazi di visione corpo-trascese chiamate Realtà Virtuali/Matrice/CyberSpazio/VideoGames, in Brainstorm la tecnologia permette all’uomo la Visione Ultima, probabilmente la più fondante e importante : la visione del divino.
Nel seminale romanzo cyberpunk Neuromancer (in Italia Neuromante. W. Gibson, 1984) Case, un hacker mercenario, viene privato della possibilità di connettersi al cyberspazio e condannato alla prigione materiale del suo corpo di carne. Egli soffre per il fatto di essere abilitato a percepire solo la realtà materiale, ad essere semplicemente un uomo non-connesso con lo spazio trascendente chiamato Cyberspazio. L’eccitazione tutta hacker insita nell’immaginario decadente Cyberpunk, ovvero quella di disincarnarsi e smarrirsi nell’Ignoto del Cyberspazio in luogo dei dati della realtà materiale, in Brainstorm viene definitivamente risolta.
Non è mistero infatti che ogni realtà virtuale é rappresentazione elettronica di un ambiente fisio-trasceso, ma ben più filosoficamente stimolante è ammettere che l’attrazione, l’eccitazione, la curiosità per l’Altrove permesso dagli spazi videoludici nasconde la fascinazione per la possibilità di incontrare e di restare illuminati da qualcosa che sia lo scopo ultimo dell’esistenza.
Immergersi in videogames vuol dire sempre immergersi in realtà fisio-trascese, universi elettronici di carne-assenti. L’eccitazione e la voglia di videogiocare trasformano la prima partita ad un nuovo Videogame in un viaggio inizialmente carico di mistica tensione verso l’Ignoto (VideoLudico).
L’accanimento del Dr. Brace in Brainstorm, il suo spasmodico bisogno di terminare la visione del nastro trascendente che lo condurrà all’illuminazione, esplicita la pulsione inconscia di un qualsiasi uomo-videogiocatore appassionato di tecnologie atte ad esperienze di realtà virtuali : viaggiare per giungere alla scaturigine dell’Ignoto dello spazio virtuale, al fine di giungere alla visione della Verità Ultima, del significato probabile e assoluto della propria esistenza.
In Michael Brace, l’eccitazione di esperire la realtà (virtuale) dentro un nuovo software, tipica del videogiocatore, si tramuta in eccitazione di esperire la realtà (spirituale) dentro una mente umana.
Scrivendo viceversa, vuol dire che il processo è il medesimo. Lo spasmo del videogiocatore che acquista un nuovo software e non vede l’ora di smarrirvisi dentro al più presto, la trance videoludica o l’annullamento della realtà ordinaria durante il finale di un buon videogame, sono stati assimilabili allo giungere della verità di quel particolare universo videoludico.
L’eccitazione mistica del Dr.Brace é generata dalla medesima cosa : giungere alla fine di un viaggio all’interno di un universo trascendente, lo spirito della Dr.ssa Reynolds, con una portata filosofica innegabilmente più fondante e spaventosa, quindi. In entrambi i casi, l’eccitazione voyeristica e la tensione scopica remano a favore di un viaggio illuminante. La smania di (video)vedere di Michael Brace non è altro che eccitazione per un viaggio nella mente e nello spirito umano, in luogo di uno spazio creato da un software videoludico, smania per la quale Scienza e Tecnologia si fanno medium per la risoluzione del significato ultimo dell’esistenza, punto nodale dei problemi filosofici.
Per una Filosofia del Videogiocare, infine.
L’attrazione, l’entusiasmo, l’aspettativa per l’Altrove permesso degli spazi Videoludici è con tutta probabilità specchio dell’inconscia tensione verso un possibile, latente Aldilà. Il videogiocatore si immerge in cyberspazi per sostanziare altre vite, altre possibilità fantastiche : egli tenta il disincarnarsi dal proprio corpo per immergersi in altri schemi sensoriali, altri punti prospettici, percezioni e facoltà virtuali di altre entità digitali.
In altri termini, il videogiocatore si immerge in cyberspazi videoludici per trasmigrare la propria anima in ambienti che fisio-trascendono i dati della realtà sensoriale non “in- game”.
Ogni volta quindi, l’eccitazione dei videogiocatori per nuove esperienze immersive in cyberspazi videoludici potrebbe essere paragonabile ad una occulta tensione mistica, in quanto comportante l’abbandono del proprio corpo e la tendenza all’oblio del dato materico della realtà ordinaria a favore di una con-fusione spirituale con l’ambiente virtuale da vivere/esperire/rendere complice col proprio sé.
La pulsione al videogiocare esplicita quindi la tensione all’abbandono del proprio corpo per immergersi in un contesto disincarnato rispetto alla propria realtà materiale.

A questo punto è doveroso interrogarsi su tale quesito : L’eccitazione, la felicità donata dal disincarnarsi che spesso si prova immersi in un ambiente virtuale ludo-interattivo, tratta forse del preannuncio dell’ineluttabile abbandono del proprio corpo, un giorno, per una nuova sensorialità orientata alla visione di una Divinità ?

Il videogiocare felice, ricco di pathos, emotivo e pieno di sensazioni, comportando il potenziale dislocamento dal proprio essere verso un Altrove (VideoLudico), é assimilabile quindi ad una tensione mistica, trasmigrante verso l’Infinito, per la quale la Felicità è sinonimo di compenetrazione e confusione con Esso.
In altre parole, Avatar e Divinità che diventano davvero un’unica cosa.

Consapevolmente o meno, Brainstorm può informare di tutto questo, nel suo finale.
Per una mistica del videogiocare, Brainstorm andrebbe visionato.
Note
*Data la massiccia line-up di tecnologie e pseudo-tecnologie in mostra, Douglas Trumbull, esperto in effetti speciali, per rendere più immersivo il film avrebbe desiderato filmare parti di Brainstorm in Showscan, ossia Widescreen 60 frame-per-second, ma i costi di retrofitting dei teatri dove il film sarebbe stato proiettato sarebbero risultati proibitivi.
Se la versione Showscan fosse stata realizzata, ciascun frame non “Brainstorm” sarebbe quindi stato stampato due volte per generare un normale rate di film a 30 fps, adatto a supplire alla riprese non-widescreen. L'intenzione era di generare un punto di vista, presumibilmente soggettivo, che potesse avvicinarsi a quello che i personaggi sullo schermo stavano osservando.

** In realtà il nastro magnetico utilizzato in Brainstorm é tutt’altro che un particolare formato in commercio nel 1981. Si tratta di una varietà di nastro decorativo argentato/dorato fatta da 3M, venduto soltanto nelle larghezze di 4 pollici, costringendo gli addetti a sfilarlo manualmente sino ad adattarlo nelle macchine da nastro da 2 pollici. Per aumentare i riflessi luminosi, i nastri venivano trattati più volte con una sabbiatrice, avanti e indietro, risultato che sbalordì per i vividi riflessi luminosi che il al nastro proiettava. “Una di quelle cose che sono apparse meglio in pellicola quando abbiamo finito di girare” ha commentato Douglas Trumbull.
___________________________________________