5 ottobre 2010

GiocoSoloForzaMotorsport

(di Luigi Marrone)

Difficile non sentirsi protagonisti, nei videogiochi. 
Per quanto l’abbiano deriso, bistrattato e odiato, persino Raiden s'è sentito protagonista, in Sons of Liberty. Gli stava sempre un passo avanti, quel fighetta di Snake, ma ciò non gli ha impedito di gonfiarsi l’ego, alla fine del giro. Pompato come un androide tutto cibernetico pronto a spaccar tutto, peggio d’un Kratos crudo e bellicoso, uscirà presto uno spin off, con Raiden. E a quel punto la platea sarà tutta per lui, senza nessuno Snake tra le zampe.
E’ difficile sentirsi perdenti, nei videogiochi. E’ difficile che qualcosa vada davvero storto, alla fine. La poesia risiede nell’immagine, nei paesaggi, nell’incontro tra musica e azione. E’ questo di solito a scaldarmi l’animo. O magari la poesia risiede in un filmato di Kojima, lungo e controverso. Ma quello è film, non videogioco. Mi piace Halo 3 ODST perché ad un certo punto parte la musica di O'Donell, dentro un edificio di New Bombasa. Non c’è niente da fare, solo attraversare il corridoio, al buio, con la musica tutta orchestrata. Tutto qua. E son musiche davvero belle, quelle di Martin O’Donell, bisogna ammetterlo. 
Ma non l’ho comprato al lancio, Halo 3 ODST. Non l’ho comprato al lancio, Peace Walker. Non l’ho comprato al lancio Borderlands, Super Mario Bros Wii o F.E.A.R. 2. Se devo proprio prenderli come oggetti d’arte, i videogiochi, che siano almeno originali, mi dico. Che abbiano da offrirmi qualcosa che valga la pena collezionar subito, al momento. Che mi diano sprazzi d’avanguardia, chiedo io. Che altrimenti è un guaio. Che altrimenti non ci metto un secondo, io, a rinnegarlo, il verbo videoludico. Perché a studiarli bene, i videogiochi, c'è che rimandano troppo lo schianto etico ed esistenziale col proprio Io, con le proprie intransigenze personali. Ed è per questo vengon chiamati prodotti d’intrattenimento. T’intrattengono, certo, come una escort, come un entreneuse in un locale un po’ in. 60 euro e il gioco è fatto. Il senso ultimo delle cose è bello che andato. Del riflettere sul senso profondo di ciò che sotto al naso t'accade, vivendo i tuoi giorni, dei desideri, le ambizioni, i veleni e le perturbazioni, te ne puoi scordare.
E’ questo che da adulti, per quanto immersi e intrisi di cultura videoludica, si fa difficoltà ad accettare. Perché se il videogioco è il messaggio, deve pur dir qualcosa, vero? Un libro io lo so dove vuole andare a parare. E anche un film, alla fine, sa quali tasti vuole andare a toccare. Ma la maggior parte dei videogiochi io non so proprio dove vuole andare a parare. Qui sta il guaio. A doverne distillare l’essenza, dopo aver finito un Dead Space, un Red Faction o un Halo 3 ad esempio, mi resta solo il brivido action di un universo autoreferenziale, i cui organi interni, sezionati chirurgicamente e ben disposti su di un lettino d’acciaio, mi parlano di niente.  Mostri, esplosioni, zombie, boss e super-azioni assurde e patetiche, à la Hollywood. In pratica, il niente. Che lascia freddi.
Sanno d’un vuoto spaventoso che sempre più spesso m’intima a conteggiare il tempo che gli ho dedicato.
E non è bello, questo, per una passione. Non è bello, questo, per il videogioco. Stai fresco a spostar l’estetica o la narrazione sul piano simbolico, o politico. A vedere la distruzione del minatore Alec Mason del Red Faction come un messaggio di propaganda per una lotta armata di sessantottina memoria. E stai fresco a vedere in Alan Wake l’estetica e l’onirica metafora degli incubi e degli sforzi che uno scrittore ha da affrontare, quale scrittore, quando la mente gli produce distorsioni metempsicotiche ed ogni realtà gli implode in simbolo letterario.
Almirante e Berlinguer offrono di più, di Red Faction. Il Centro Studi di Parapsicologia intimorisce molto di più, di Alan Wake.
La verità è che ciò che il videogioco restituisce davvero dell’anima umana, in termini di edificazione, è abbastanza irrilevante. In definitiva, sconsigliabile in quanto non necessario. Si farà mai messaggio variegato, il videogioco, quando la vita è anche sfiducia, fallimento, pessimismo e disillusione? O sarà sempre e solo vittoria, dominazione, gamerscore e primato?

Basta coi videogiochi, quindi. E’ un periodo questo in cui voglio solo correre al vento, veloce, più veloce di tutti. E dimenticare.

Gioco a Forza Motorsport, io.
E va benissimo cosi.

1 settembre 2010

Una faccenda seria


(...)

"Poi è arrivato Gran Turismo.
Raffiche di vento sulle chiome degli alberi in controluce di un'alba autunnale. Una foglia d'acero di un rosso livido plana morente sui grani dell'asfalto macchiato di morchia. Un'allodola si posa su un semaforo spento in un incrocio deserto. La luce farinosa di un sole pallido filtra dai montanti di ferro di una vecchia tribuna d'autodromo. Un camion si arresta silenzioso. Con un leggero ronzio il portello del carico si abbassa lasciando intravedere... Solitudine, melanconia, vaghe nostalgie. Perdersi in un lontano campionato Gran Turismo. Pilota mezzo rovinato, macchine messe insieme come si poteva. Cercare di farcela; battere le piste più schifose per mettere insieme i soldi di un treno di gomme decenti, delle sospensioni più affidabili. Mettersi lì e provarci e riprovarci, prima che sia troppo tardi per correre, per uccidere la paura. Per vincere qualcosa di decente.
Con tutti i giochi che ho giocato e giocherò, Gran Turismo sarà sempre il mio Gioco.
C'è un'altra mia vita lì dentro, o, meglio, il Romanzo di un'altra mia vita.
C'è la follia di una storia di me che è difforme da ogni ragionevole speranza, da ogni dignitoso accordo con la società. La struggente dolorosa nostalgia di un mondo disfatto dai vapori di scarico, un mondo già finito, che un tempo si chiamava civiltà dei motori e vedeva me ai bordi dell'Aurelia a contare le macchine che passavano e andavano oltre il paese, oltre il mio possibile destino. Ma c'è anche l'Anarchia: un viaggio che non finisce mai. E a differenza dell'oggi e del qui, là dentro ho conosciuto solo avversari leali, regole giuste e inamovibili: ho giocato un Gioco morale dentro un mondo di cartone. E in quel mondo ho conosciuto cieli e fiumi e boschi e città di cui ho spesso nostalgia quando sono di qua.
Perché sono pazzo, sono malato di nostalgia per il Gioco."

Maurizio Maggiani: Una faccenda seria. Il grande libro della Playstation - AdnKronos libri - 2000


18 maggio 2010

Heavy Rain è un videogioco.

(di Luigi Marrone)

Ho trovato Heavy Rain un modo estremamente curioso e coinvolgente di vivere la scrittura cinematografica. E’ palese come non si tratti affatto di un film, eppure la tanto sbandierata definizione di Film Interattivo che si porta dietro è probabilmente uno dei più diffusi - e comprensibili - equivoci epistemologici di cui è caratterizzato. Heavy Rain viola una fondante assoluta del cinema, ossia la direzione univoca dello svolgimento narrativo stabilita a monte. Il cinema non è composto da svariati segmenti narrativi secondo l’abilità gestuale dell’utente. Per quanto i piani di lettura siano polivalenti, un film è testo predeterminato. Chiamare quindi “film” un testo che invece è determinato dagli input che un utente invia ad un “lettore” che li elabora (Playstation3), è abbastanza lezioso.
Quantic Dream, sviluppatore di Heavy Rain, ribadisce quanto sia consigliabile non tornare sulle proprie scelte, una volta effettuate, lasciando correre i vari episodi della trama sino al relativo finale. Da questo punto di vista Heavy Rain potrebbe essere considerato come un composto di vari “capitoli” che si dispiegano secondo le decisioni dell’utente. Tanti utenti, tanti film.
Ma un “film” che proceda secondo lo schiacciare certi pulsanti a tempo non dovrebbe basarsi sull’abilità nello schiacciare gli stessi. Soprattutto quando il controllo è talvolta impreciso e non perfettamente calibrato da pregiudicare un certo segmento narrativo, e di conseguenza l’intero sviluppo della trama.
Più volte ho voluto “ricaricare” una sequenza perché non me la sono sentita di destinare un personaggio alla morte solo perché il pulsante corretto da premere è comparso sullo schermo all'ultimo momento. Tale problema, mi son reso conto poi, era dovuto all’accesso della Playstation all'hard disk, il quale “caricava” la scena in "streaming" con ritardo, creando una inspiegabile latenza fatale. A volte invece un dito mi è scivolato sul pulsante sbagliato del pad, interrompendo cosi il segnale di input che determinava il buon esito della scena.
Non vi è alcuna relazione logica tra abilità gestuale e sviluppo narrativo. Pretestuoso sarebbe credere di potersi sentire ugualmente responsabili di un certo evento scriptato quando è stato determinato da un errore del sistema di gioco. Mai si è visto un film appagare meglio chi ha dita più lunghe, sottili e articolate rispetto a chi ha mani corte, grandi e tozze. Tale discriminante fisica non può e non deve penalizzare il godimento ludico. 

Di contro, dopo aver stabilito la paradossalità di considerare Heavy Rain un film, è con altrettanta paradossalità che si deve affermare quanto sia ciò che più si avvicina alla definizione letterale di Videogioco: un giocare con la pura immagine video.
L’interazione non è ortodossa, ma è quanto di più logico l’intrattenimento videoludico offerto da Playstation 3 e le sue relative interfacce di controllo possa presentare. Data l’ambizione artistica sarebbe di certo risultato più congeniale un Nintendo Wii in alta definizione. Ma in attesa di Playstation Move, bisogna accontentarsi.
In Heavy Rain lo “schiacciare tasti” e il movimento gestuale del Dualshock3 con tecnologia Sixaxis determinano l’esito di un’azione cinematografica, una cut-scene. Nel suo centro più caldo Heavy Rain è quindi per la maggior parte una sorta di strepitoso laser game, il cui primo movente non è il piacere di premere i bottoni giusti (anch’esso ludicamente rilevante), bensì provare il godimento di una scrittura cinematografica in armonia con gli input gestuali dell’utente. Il culmine di tale processo è raggiunto in alcuni momenti di passaggio tra interazione e scene predeterminate. La mimesi tra azione e cut scene è raffinata a regola d’arte, un lavoro di mascherata dissolvenza che spesso finisce con l’ingannare il giocatore: lo sto movendo io il personaggio o sta andando da solo?

Si potrebbe quasi affermare che in Heavy Rain l’utente ricopre uno pseudo-ruolo di regista o di un non meglio precisato sceneggiatore. E questa è di per sé un bella prospettiva.
L’esperimento che ne consegue va assolutamente vissuto, vista anche la determinazione con la quale Quantic Dream si è ostinata a voler ridefinire alcune idiosincrasie tra cinema e videogioco. Se poi si giunge alla fine del viaggio sentendosi più spettatori che videogiocatori, non ha alcuna importanza.
Heavy Rain suscita emozioni sincere, toccanti.
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Più d’ogni altra cosa, è questo che alla fine conta.
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4 maggio 2010

Morte ai Videogiochi: Speciale su Everyeye.it

(dli Luigi Marrone)

Nicolò Pellegatta ha da poco pubblicato sul portale Everyeye.it un articolo di cui al titolo sopra.
Trattazione polivalente, corredata di alcune mie citazioni e consigli di lettura per un approccio ancora più accademico, Pellegatta sviscera con approccio serio e deciso alcune delle problematiche più diffuse che gravitano attorno alla questione morte nei/dei videogiochi.
Di seguito un breve estratto.


"All'interno del colorito mondo videoludico la morte non è mai definitiva. La sconfitta è sempre accompagnata da tre puntini di sospensione e mai da un secco punto e a capo.

Buona parte dei giochi cercano di assolvere il compito di promuovere il momento trascorso in compagnia di esso e mai di svilirlo (pena la rescissione del lucroso contratto con gli sviluppatori).

Ma la questione dell'impossibilità di giungere a una morte certa è un affare serio, per quanto all'apparenza inattaccabile e inconfutabile.

(...)
Il concetto di morte nei videogame è diverso da morte dei videogame, e la distinzione non andrebbe nemmeno spiegata: certo è che la sconfitta e la dipartita (momentanea) di un personaggio digitale la si può collegare a un generale impoverimento e appiattimento del senso di sfida nelle sfide proposte al giocatore."


Per la lettura completa dell'articolo cliccare qui.
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12 marzo 2010

Un tributo chiamato Action Figure.

(di Luigi Marrone)
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L’action figure (dall’inglese “modellino in azione” - wikipedia), è solitamente un assemblato di resina/plastica/metallo che rappresenta personaggi più o meno noti.
Spesso possiede un referente di finzione immateriale (anime, fumetti, personaggi di videogiochi) o materiale (film, cantanti, personaggi storici…)
In potenza, tutto l’universo può essere ridotto ad action figure.
Per quanto mi riguarda l’acquisto di una action figure videoludica rappresenta per me il passo successivo che tributa un particolare onore all’esperienza vissuta col videogioco. Una scelta molto intima e soggettiva quindi, che riguarda solo alcuni titoli.
Non a caso possiedo, o tendo a possedere le action figures relative a quei videogiochi per i quali mi sono a tal punto immerso e suggestionato nel sostrato referenziale dei loro mondi virtuali che la sola legittimazione virtuale non mi è bastata.
In pratica, ho voluto di più.
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L’action figure svolge per me una funzione ben precisa: completare lo statuto dell’universo digitale attraverso la presenza di una sua manifestazione materiale.
Considerata come una diretta emanazione della controparte digitale, l’action figure equivale ad un artefatto che trascende l’immateriale per una testimonianza fisicamente tangibile di quanto esperito mediante la realtà digitale.
Il desiderio di toccare un simulacro fisicamente tangibile, sostanziabile al tatto, si trasforma in un merito, un tributo, un onore, una riconoscenza al videogioco di riferimento che mi ha appassionato/suggestionato.
Ciò che prelude all’acquisto di una action figure esprime quindi per me un sentimento di riconoscenza e tributo, di passione e una qual certa artistica riverenza.
In definitiva, l’acquisto di un suo simbolo materiale è probabilmente il tributo massimo, finale, che potrei decretare ad un videogioco.
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15 febbraio 2010

Mass Effect 2. Viaggio Esistenziale.

Nel silenzio. Con riverenza.
(di Luigi Marrone)





Tutto il resto è videogioco.
In fondo è come per l’amore: una obiettività troppo critica è un rischio controproducente quando si vuol penetrare ad ogni costo i segreti del cuore.

Meglio non indugiare quindi su 3 legittimi appunti di game design: totale assenza di Mako e relativa esplorazione planetaria, lenta e tediosa scansione dei pianeti alla ricerca di minerali per i dovuti upgrade e fasi di "parlato" che talvolta e inspiegabilmente s’interrompono, come se il timing dell’enunciato fosse troppo lungo rispetto al cambio di scena la quale, de facto, tronca la frase di netto.
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L’amore perdona tutto, dicevo.
Amore per la fantascienza, fervido motore che muove suggestioni e speculazioni tecno-intellettuali, tecno-esistenziali direi.

L'universo. Il cosmo. Bioware.
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Mass Effect.
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Quando l’avvolgimento estetico solleva lo spirito nel cosmo più assoluto, entro cui miliardi di contatti sinaptici emettono serotonina di gioia e impazziscono come miriadi di barbagli di stelle supernova, sostenute da centinaia di visioni di Battlestar Galactica, dall’universo di Guerre Stellari, dalla distopia dei vari 2001, Avatar, Alien…

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Come si inscrive Mass Effect in questa epica.

Come, ci si chiede.

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Si potrebbe parlare del rapporto fisico con una Quarian, o delle problematiche sessuali inter-aliene in assenza della nostra concezione di libido. O magari delle Intelligenze Virtuali operanti in remoto nella Galassia, che fanno dell’Uno il Tutto, o del Tutto la prerogativa dell’Individuo.

E ancora la relatività del tempo per una Matrona Asari, che vivendo oltre 1000 anni basiscono per l’esistenziale lungimiranza prospettica, dispensando un’aria talmente mistica per la quale soppesare ogni gesto.

Ideando un possibile universo extra-Mondo, Mass Effect compie ciò che a molti “videogiochi” dalla forte componente narrativa è precluso: costringere l’utente a trascendere i confini umani per pensare in modo trascendentale rispetto all'uomo.

Oltre alla fascinazione estetica, Mass Effect si trasforma in un possibile motivo videoludico esistenziale. Interrogativi, possibilità laterali, economie alternative.

Pura fantascienza, in altri termini.

Fra tutte le milioni di possibili immagini depositate alla fine di questo viaggio, ecco quindi che ne resta una, immobile, fissa, che ritorna a galla per stordire in tutto il suo placido fulgore.

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Io, in piedi nell’Osservatorio della Normandy.

Seduta a terra, una Asari Justicar, Samara, che mi volge le spalle nella posizione del loto, chiusa in una meditazione totale. Tra le mani tiene sospesa una piccola sfera d’energia biotica, un grumo di Elemento Zero che spande un livido azzurro sul suo corpo.

Samara non si è accorta di me. Non mi ha sentito entrare.

Ed io, soffocando la sacrosanta curiosità videoludica che intima qualsiasi gamer sano di mente ad interagire con tutto l’interagibile, decido quindi di non interompere la sua meditazione.


Non è tanto il silenzio a stordirmi, quanto ciò che mi investe l’anima ad un livello puramente estetico. Nella totale assenza di parole, in quel placido vuoto dato dall'intima e perfetta non-comunicazione, io ruoto la telecamera alle mie spalle e assisto incantato al fluorescente schiumare delle miriadi di stelle fuori nel cosmo, che trafiggono l’ampia paratia di vetro della Normandy.


Miriadi di stelle che rifrante dalla mediazione ottica data dalla velocità dei motori iperluce disegnano uno spettacolo fatto di code, di scie di spilli luminosi, un lento sfavillìo luminescente esploso in miliardi di piccolissime nova.

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E’ lì, qualcosa.

Qualcosa che non so dire.

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Nell’epica di Mass Effect, in quelle miliardi di luci che rifulgono e punteggiano il cosmo, tra gli dei, i miti orfici, le divinazioni e i timori panici...

Lì dove senti palpitare un terribile e meraviglioso eterno divino.

O la sua sempiterna negazione.

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Mass Effect 2.

Tutto il resto è videogioco.

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