Prendere un giovane videogiocatore, strapparlo via dalla linea temporale di un qualsiasi Metal Gear e piazzarlo alla fine del (sedizioso) viaggio fantapolitico equivale ad un ostetrico forcipe-munito il quale pretenda che la creatura appena strappata via dall’utero possa ricordare cose di cui non può aver fatto esperienza.
Metal Gear Solid 4 non è un’opera destinata a tutti.
Con buona pace di chi possedendo una Playstation3 abbia creduto di poter imbattersi in un paradigma omni-comprensivo, appagante e totalmente “ludico”, l’ultimo Metal Gear è una questione nostalgica, del cuore e del ricordo che con la ragione e il “buon senso” videoludico ha ben poco a che vedere.
Volendo prendere in esame una qualsiasi produzione seriale, e arrendendosi al fatto che la qualità delle “stagioni” di una serie TV non può essere tutta determinata dall’ultima puntata, è giusto considerare Metal Gear come una sAga mentale (ironia voluta) composta da un corpus di opere videoludiche che hanno ragion d’essere sia nella loro interezza che nella loro (ogni volta) parziale incompiutezza.
Detto questo, Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots non sarà mai un’opera trascurabile nella videoludica odierna e a venire, grazie soprattutto al fatto che la sostanza dell’opera va ad inscriversi alla fine e all’inizio di un processo evolutivo che interessa il medium videogioco in ogni sua parte.
Se è vero che “il medium è il messaggio” come afferma il sociologo Mcluhan è altresì vero che il medium può “andare oltre” il messaggio: oltre Playstation3 quindi, oltre il marketing o le velleità autoriali di uno sparuto game designer, tutta la forza che l’ultima opera Konami possiede in sé é in grado di trascendere totalmente qualsiasi derivazione produttiva: meta-linguaggio e fantapolitica, overflow d’informazioni e controllo della coscienza, implicazioni bellico-centriche e clonazione di esseri umani, manipolazione genomico-militare e IA neuronali, telecinesi, nanomacchine e madri surrogate… come per ogni buona opera d’arte che si rispetti, Metal Gear va oltre la summa delle sue parti.
Vivere Guns of The Patriots equivale a rimanere imbrigliati in un discorso estremamente esigente quanto accondiscendente, contraddittorio quanto spettacolare: si tratta dell’emozione di trascendere completamente la materia videoludica per donarle le vestigia di qualcosa di imperituro, granitico quanto relativo, trascurabile quanto… sacro, diciamolo pure. Guns of The Patriots compie difatti un’operazione perniciosa in seno a tutta la comunità videoludica, dividendo in due l’utenza che avrà sempre la pretesa (a torto o a ragione) di voler guardare all’oggettività videoludica.
Non sarebbe invece errato pensare alla saga Konami come ad un qualcosa di tendenzialmente diverso da ogni altra produzione mediale, cinema e videogioco assieme e al contempo sodalizio e divorzio fra le due arti, coacervo di contraddizioni e intensità di significati all’interno di una entità polimorfa dallo sguardo trasversale.
Si potrebbe non aver mai giocato Guns of the Patriots o averlo portato a termine diverse volte, la sostanza non cambierebbe: l’esperienza Metal Gear Solid non è infine giudicabile. Criticabile quanto si vuole, con gli strumenti analitici rimessi ad una critica che deve per forza tener di conto il videogioco e i suoi specifici in senso stretto, questo si, ma non giudicabile infine. Questo perché Metal Gear implica in primis l’emozione e la fierezza di comprendere cosa comporta l’essere un videogiocatore, spettatore pagante/attore interpretante, utente cogitante e pensatore giocante, una riflessione meta-ludica in seno al videogioco stesso, che la console sia accesa o spenta o il gamer presente/assente – tutto è potenzialmente possibile dentro un Metal Gear, persino la possibilità di restarne sorpresi ed estasiati, interdetti o sopraffatti: l’estimatore che conosce l’opera sa perfettamente di cosa parlo.
Tutto questo perché chi ha amato la serie sin dal passato sa benissimo cosa comporta un nuovo Metal Gear da vivere sulla propria console: si tratta - ogni volta - di un brivido videoludico esistenziale - un potere che solo le grandi opere d’arte possono sprizzare.
Trattandosi di un’opera in continua riscrittura, ogni iterazione della stessa comporta un sensibilissimo ritoccare a ritroso il ricordo e l’esperienza di mondi vissuti anni prima, quando probabilmente si possedevano altre coscienze, comprensioni, sistemi di gioco e ideologie, con tutta probabilità anche abitudini al gioco divergenti e/o meno complesse rispetto alle attuali.
Gli apporti dati dal presente narrativo dell’ultimo capitolo implicano inoltre la ri-definizione del passato videoludico di molti videogiocatori con tutto il proprio, destabilizzante carico esegetico.
Tutto questo perché Guns of The Patriots, a prescindere dalle qualità specifiche dell’opera in sé implica la sollecitazione dell’Essere videoludico, del sentirsi videogiocatori e dei relativi Affetti verso gli elementi e i personaggi del gioco mutuati nel tempo dall’estimatore dell’opera, in quanto, da oltre 20 anni a questa parte, Metal Gear è divenuta una realtà cresciuta assieme ai videogiocatori, nonché con le tecnologie d’intrattenimento al servizio dei giocatori, dai primi MSX2 all’attuale PS3.
Inutile affermare che l’Opera Konami ha segnato un passo per sempre, un paradigma o se si vuole uno standard da cui partire per un discorso non-evitabile sul medium e sull’arte del videogioco il quale, grazie ad una commistione di linguaggio puramente videoludico (gameplay) e cinematografico (FMV o cut-scene), con Metal Gear non ha mai dimenticato di ricordare qualcosa di fondamentale nell’attuale discorso che divide ludologi e narratologi: una storia - o se si vuole un’epica - tutta da raccontare grazie al “videogioco”.
Accostarsi a Guns of The Patriots comporta quindi – inevitabilmente - l’immersione ludonarrata in una lunga storia raccontata per la quale (e per fortuna) qualsiasi riflessione non diverrà mai una canonica recensione: distillare i tratti di tale opera entro i confini di una valutazione puramente “ludica” sarebbe solo una irrisoria mistificazione.
Guns of The Patriots è una storia conclusiva che va narrativamente “vissuta” oltre che giocata, trattandosi della probabile parola FINE con la pretesa di sciogliere nodi dall’intreccio ventennale, inevitabilmente una storia che oltre che giocata va soprattutto “visionata” nel suo raccontarsi quindi, mollando il pad e districando l’overflow di dati sedimentato nella memoria, fra le risposte insolute e le insospettabili alleanze, le passate reminiscenze e tutto l’esasperato nozionismo militare, lasciandosi naufragare dalla marea di significati e di informazioni, scioglimenti e interrogativi, perdendosi e ritrovandosi, commovendosi e amareggiandosi.
Hideo Kojima è stato perentorio: Solid Snake è il giocatore, tutto ciò accade (ed è accaduto) nel tempo a Solid Snake è accaduto al giocatore, verità lapalissiana certo, ma con un’aderenza empatica e un impatto emotivo e assieme un colpo soffocato al cuore come probabilmente nessun altro personaggio videoludico - su cosi larga scala planetaria - ha dimostrato di saper fare con tale “umana” intensità.
Cosi come avvenuto per pochissime altre grandi icone/brand videoludici, per molti gamers Metal Gear e il clone Solid Snake SONO lo status del videogioco di ieri e di oggi, e tutto ciò che può accadere al videogioco, nel bene o nel male, è riflesso nelle critiche, nelle difese e nelle offese riservate dalle comunità al “Vecchio” Snake.
Si tratta di un qualcosa che, nel rispetto di un’icona, di un’esperienza e di una continua gratidudine per ciò che fino ad oggi tale entità ha rappresentato, personalmente non sarei mai in grado di fare.
Lascio quindi che quest’ultima esperienza (cinematografica) sia, per una volta, semplicemente se stessa, senza volerla per forza controllare.
Il cuore e l’emozione infine… non li si può giudicare.
Metal Gear Solid 4 non è un’opera destinata a tutti.
Con buona pace di chi possedendo una Playstation3 abbia creduto di poter imbattersi in un paradigma omni-comprensivo, appagante e totalmente “ludico”, l’ultimo Metal Gear è una questione nostalgica, del cuore e del ricordo che con la ragione e il “buon senso” videoludico ha ben poco a che vedere.
Volendo prendere in esame una qualsiasi produzione seriale, e arrendendosi al fatto che la qualità delle “stagioni” di una serie TV non può essere tutta determinata dall’ultima puntata, è giusto considerare Metal Gear come una sAga mentale (ironia voluta) composta da un corpus di opere videoludiche che hanno ragion d’essere sia nella loro interezza che nella loro (ogni volta) parziale incompiutezza.
Detto questo, Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots non sarà mai un’opera trascurabile nella videoludica odierna e a venire, grazie soprattutto al fatto che la sostanza dell’opera va ad inscriversi alla fine e all’inizio di un processo evolutivo che interessa il medium videogioco in ogni sua parte.
Se è vero che “il medium è il messaggio” come afferma il sociologo Mcluhan è altresì vero che il medium può “andare oltre” il messaggio: oltre Playstation3 quindi, oltre il marketing o le velleità autoriali di uno sparuto game designer, tutta la forza che l’ultima opera Konami possiede in sé é in grado di trascendere totalmente qualsiasi derivazione produttiva: meta-linguaggio e fantapolitica, overflow d’informazioni e controllo della coscienza, implicazioni bellico-centriche e clonazione di esseri umani, manipolazione genomico-militare e IA neuronali, telecinesi, nanomacchine e madri surrogate… come per ogni buona opera d’arte che si rispetti, Metal Gear va oltre la summa delle sue parti.
Vivere Guns of The Patriots equivale a rimanere imbrigliati in un discorso estremamente esigente quanto accondiscendente, contraddittorio quanto spettacolare: si tratta dell’emozione di trascendere completamente la materia videoludica per donarle le vestigia di qualcosa di imperituro, granitico quanto relativo, trascurabile quanto… sacro, diciamolo pure. Guns of The Patriots compie difatti un’operazione perniciosa in seno a tutta la comunità videoludica, dividendo in due l’utenza che avrà sempre la pretesa (a torto o a ragione) di voler guardare all’oggettività videoludica.
Non sarebbe invece errato pensare alla saga Konami come ad un qualcosa di tendenzialmente diverso da ogni altra produzione mediale, cinema e videogioco assieme e al contempo sodalizio e divorzio fra le due arti, coacervo di contraddizioni e intensità di significati all’interno di una entità polimorfa dallo sguardo trasversale.
Si potrebbe non aver mai giocato Guns of the Patriots o averlo portato a termine diverse volte, la sostanza non cambierebbe: l’esperienza Metal Gear Solid non è infine giudicabile. Criticabile quanto si vuole, con gli strumenti analitici rimessi ad una critica che deve per forza tener di conto il videogioco e i suoi specifici in senso stretto, questo si, ma non giudicabile infine. Questo perché Metal Gear implica in primis l’emozione e la fierezza di comprendere cosa comporta l’essere un videogiocatore, spettatore pagante/attore interpretante, utente cogitante e pensatore giocante, una riflessione meta-ludica in seno al videogioco stesso, che la console sia accesa o spenta o il gamer presente/assente – tutto è potenzialmente possibile dentro un Metal Gear, persino la possibilità di restarne sorpresi ed estasiati, interdetti o sopraffatti: l’estimatore che conosce l’opera sa perfettamente di cosa parlo.
Tutto questo perché chi ha amato la serie sin dal passato sa benissimo cosa comporta un nuovo Metal Gear da vivere sulla propria console: si tratta - ogni volta - di un brivido videoludico esistenziale - un potere che solo le grandi opere d’arte possono sprizzare.
Trattandosi di un’opera in continua riscrittura, ogni iterazione della stessa comporta un sensibilissimo ritoccare a ritroso il ricordo e l’esperienza di mondi vissuti anni prima, quando probabilmente si possedevano altre coscienze, comprensioni, sistemi di gioco e ideologie, con tutta probabilità anche abitudini al gioco divergenti e/o meno complesse rispetto alle attuali.
Gli apporti dati dal presente narrativo dell’ultimo capitolo implicano inoltre la ri-definizione del passato videoludico di molti videogiocatori con tutto il proprio, destabilizzante carico esegetico.
Tutto questo perché Guns of The Patriots, a prescindere dalle qualità specifiche dell’opera in sé implica la sollecitazione dell’Essere videoludico, del sentirsi videogiocatori e dei relativi Affetti verso gli elementi e i personaggi del gioco mutuati nel tempo dall’estimatore dell’opera, in quanto, da oltre 20 anni a questa parte, Metal Gear è divenuta una realtà cresciuta assieme ai videogiocatori, nonché con le tecnologie d’intrattenimento al servizio dei giocatori, dai primi MSX2 all’attuale PS3.
Inutile affermare che l’Opera Konami ha segnato un passo per sempre, un paradigma o se si vuole uno standard da cui partire per un discorso non-evitabile sul medium e sull’arte del videogioco il quale, grazie ad una commistione di linguaggio puramente videoludico (gameplay) e cinematografico (FMV o cut-scene), con Metal Gear non ha mai dimenticato di ricordare qualcosa di fondamentale nell’attuale discorso che divide ludologi e narratologi: una storia - o se si vuole un’epica - tutta da raccontare grazie al “videogioco”.
Accostarsi a Guns of The Patriots comporta quindi – inevitabilmente - l’immersione ludonarrata in una lunga storia raccontata per la quale (e per fortuna) qualsiasi riflessione non diverrà mai una canonica recensione: distillare i tratti di tale opera entro i confini di una valutazione puramente “ludica” sarebbe solo una irrisoria mistificazione.
Guns of The Patriots è una storia conclusiva che va narrativamente “vissuta” oltre che giocata, trattandosi della probabile parola FINE con la pretesa di sciogliere nodi dall’intreccio ventennale, inevitabilmente una storia che oltre che giocata va soprattutto “visionata” nel suo raccontarsi quindi, mollando il pad e districando l’overflow di dati sedimentato nella memoria, fra le risposte insolute e le insospettabili alleanze, le passate reminiscenze e tutto l’esasperato nozionismo militare, lasciandosi naufragare dalla marea di significati e di informazioni, scioglimenti e interrogativi, perdendosi e ritrovandosi, commovendosi e amareggiandosi.
Hideo Kojima è stato perentorio: Solid Snake è il giocatore, tutto ciò accade (ed è accaduto) nel tempo a Solid Snake è accaduto al giocatore, verità lapalissiana certo, ma con un’aderenza empatica e un impatto emotivo e assieme un colpo soffocato al cuore come probabilmente nessun altro personaggio videoludico - su cosi larga scala planetaria - ha dimostrato di saper fare con tale “umana” intensità.
Cosi come avvenuto per pochissime altre grandi icone/brand videoludici, per molti gamers Metal Gear e il clone Solid Snake SONO lo status del videogioco di ieri e di oggi, e tutto ciò che può accadere al videogioco, nel bene o nel male, è riflesso nelle critiche, nelle difese e nelle offese riservate dalle comunità al “Vecchio” Snake.
Si tratta di un qualcosa che, nel rispetto di un’icona, di un’esperienza e di una continua gratidudine per ciò che fino ad oggi tale entità ha rappresentato, personalmente non sarei mai in grado di fare.
Lascio quindi che quest’ultima esperienza (cinematografica) sia, per una volta, semplicemente se stessa, senza volerla per forza controllare.
Il cuore e l’emozione infine… non li si può giudicare.
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1 commento:
Respect.
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